Coordonat de Elias VAVOURAS
Volum IX, Nr. 3 (33), Serie nouă, iunie-august 2021
I medici, tra la modernità e le machiavellerie
Interviu realizat de Sabin DRĂGULIN
Sabin Drăgulin: Qual è la missione del Medici Archive Project?
Alessio Assonitis1: Il MAP – come viene comunemente chiamato – è un istituto di ricerca americano con sede a Firenze, il cui scopo è quello di valorizzare il patrimonio archivistico dei duchi e granduchi mediceo. Questo patrimonio, custodito all’Archivio di Stato di Firenze, comprende circa quattro milioni di lettere (più della metà provenienti dall’estero) oltre che ad un numero non ben definito, ma sicuramente ingente, di inventari di oggetti, documenti di natura amministrativa e finanziaria, atti notarili ecc. Il periodo storico in questione va dal 1537 fino al 1743, in altre parole dall’insediamento di Cosimo I a Signore di Firenze fino anno della morte di Anna Maria Luisa de’ Medici, ultimo membro della dinastia. Questa valorizzazione si manifesta attraverso due piattaforme digitali (bia.medici.org e mia.medici.org) da dove è possibile accedere ai documenti digitalizzati, trascritti e “taggati”, seguendo criteri di catalogazione ideati apposta per una fruizione agevolata.
Sabin Drăgulin: Cosa altro è il MAP e che impatto sta avendo sul mondo accademico?
Alessio Assonitis: Innanzitutto il MAP è un hub dove si sposano, compenetrano ed intersecano tantissime idee e metodologie nel campo dello studio dell’età moderna. La nostra sede a Palazzo Alberti è un continuo viavai di studiosi, di tutte le età e formazioni. Ricorda molto la Factory di Andy Warhol. La svolta è stata nel 2010. Da meri “fornitori” e “gestori” di fonti primarie abbiamo deciso di investire nella ricerca. Gli archivi medicei, proprio per la loro natura globale, rappresentano un notevole punto di partenza per un’esplorazione a tutto campo. Basti pensare alla attività scientifica dei nostri research programs, creati appositamente per fare luce su tematiche storiche a volte ignorate dal mainstream accademico. I risultati sono stati sorprendenti (ma questo è il grande beneficio della ricerca sui documenti inediti). Grazie a questo lavoro oggi sappiamo molto di più sulla produzione artistica femminile nell’età moderna, sulle comunità greche in Toscana, sulla circolazione delle notizie attraverso gli avvisi manoscritti, sulla diffusione di malattie infettive in Europa, sulla musica sacra nelle corti italiane, sui rapporti diplomatici con il Levante ottomano, ma anche con la dinastia Safavide o con l’impero Moghul. Queste e tantissime altre traiettorie di ricerca hanno avuto uno sfogo del tutto tradizionale, attraverso convegni, seminari, pubblicazioni, mostre. Ecco, in controtendenza con altri istituti di ricerca, abbiamo effettuato un percorso inverso: siamo partiti da una presenza principalmente digitale per arrivare produzione più tradizionale. Crediamo fortemente nella coesistenza di queste due esperienze.
Sabin Drăgulin: Parlaci dei progetti in cantiere, soprattutto in questi tempi così difficili, dove spostarsi e condividere spazi diventa sempre più difficile.
Alessio Assonitis: Sono tanti, dunque andiamo per ordine. In questi ultimi anni ci siamo focalizzati – anzi direi proprio fossilizzati! – sullo studio dei primi quattro decenni del ducato mediceo. La summa di questa intensa mole di ricerca ha preso forma con il Companion to Cosimo I de’ Medici edito da Brill di prossima uscita. È nostro intento spostarci sul periodo ingiustamente noto agli studiosi come “the forgotten centuries” della storia di Firenze, dunque dalla fine del ‘500 fino alla metà del ‘700. Vi saranno numerosi convegni, workshop, pubblicazioni, mostre, documentari e piattaforme digitali. Fra questi spiccano un progetto digitale sugli avvisi (finanziato dalla National Endowment for the Humanities) ed una mostra sulla storia degli ebrei a Firenze, con una particolare attenzione alla costruzione del ghetto, che aprirà a Palazzo Pitti nel settembre del prossimo anno. Di carne al fuoco ve ne è molta. Va sottolineato che il MAP è composto da esperti di tante discipline: ognuno sviluppa e cura il proprio progetto in maniera del tutto indipendente. Ognuno ha una visione ben precisa della storia moderna. L’unico comune denominatore: gli archivi.
Sabin Drăgulin: Soffermiamoci un attimo sulla figura di Cosimo I e sulla sua formazione politica ed intellettuale.
Rispondo in maniera obliqua, anche perché su Cosimo I si è scritto tanto in questi ultimi anni, troppe volte in maniera approssimativa. Gli archivi forniscono un profilo complesso del duca, che non ha avuto una formazione umanistica vera e propria ma che al contempo nutriva numerosi interessi culturali. Una di questi erano i libri a stampa: una vera e propria passione, oltre che un notevole mezzo di propaganda politica. L’archivio mediceo offre eccezionali testimonianze sul rapporto che Cosimo I ebbe con la cultura libraria. L’interesse del figlio di Giovanni dalle Bande Nere per questo ambiente si manifesta e sviluppa in svariate maniere. Basti pensare ai numerosi rapporti – talvolta mediati dai segretari medicei – che il duca intrattenne con tipografi, librai, incisori, legatori, bibliotecari, letterati, inquisitori, traduttori, censori, e professori, per questioni inerenti a qualsiasi aspetto della produzione, diffusione e collezione libraria. In certi casi, era proprio il duca ad occuparsi in prima persona di una particolare faccenda. A volte, fu direttamente coinvolto nel processo creativo ed editoriale della stesura dei testi. A questo proposito, egli si dimostrò particolarmente selettivo nell’intraprendere nuove iniziative editoriali, soprattutto se queste dovevano includere una dedica in suo onore. Cosimo era ben consapevole del potere della diffusione a mezzo stampa. Basti vedere i volumi pubblicati fra il 1570 ed il 1574 che recavano ben in vista l’immagine di Cosimo novello Granduca di Toscana, per non parlare poi delle biografie e panegirici pubblicati e diffusi per mezza europa dopo la sua morte. Cosimo è stato un bibliofilo onnivoro ed un lettore selettivo, con una particolare predilezione per i testi di storia antica. La sua biblioteca privata comprendeva quasi 2000 titoli. Nell’inventario del 1553 si notano moltissime edizioni di Cicerone, Tacito e Svetonio ma anche un “Il Principe del Machiavello in penna”.
Sabin Drăgulin: Torniamo alla costruzione dello stato mediceo. Qual è stato l’impatto del pensiero politico machiavelliano sulla formazione politica del Granducato di Toscana?
Marcello Simonetta2: Innanzitutto bisogna distinguere varie fasi della creazione dello stato mediceo. Cosimo viene chiamato a coprire il vuoto lasciato dalla morte improvvisa del duca Alessandro de’ Medici nel gennaio 1537, e la sua legittimità viene a lungo tenuta in sospeso. Non discende dal ramo principale della famiglia, e per di più è figlio di un condottiero, Giovanni detto dalle Bande Nere, morto nel novembre 1526. Machiavelli lo aveva celebrato come “audace, impetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran partiti”, e come l’unico e ultimo baluardo italiano all’invasione straniera. Tuttavia suo figlio non ebbe modo di incontrare il Segretario fiorentino, morto a sua volta nel giugno 1527. Ricordiamo anche che la editio princeps del Principe fu stampata a Roma da Antonio Blado su auspicio di Filippo Strozzi nel gennaio 1532. A quella data gli Strozzi erano ancora allineati con il papa Clemente VII, ma subito dopo la sua morte diventò esplicita la loro rottura con il duca Alessandro e il conseguente auto-esilio da Firenze della potente e ricca famiglia. Filippo fu considerato (non a torto) il mandante più o meno occulto dell’omicidio del duca, e come il sostenitore del tentativo di scacciare lo stesso Cosimo da Firenze. La vittoria di Montemurlo il primo agosto 1537 mise a tacere queste pretese, e diede modo al giovane duca di legittimarsi, fino a farsi restituire le fortezze fiorentine sequestrate dalle forze imperiali nel 1543. Nella vasta corrispondenza diplomatica regestata nelle piattaforme digitali del MAP sono rarissimi i riferimenti espliciti a Machiavelli. Tuttavia il suo pensiero è onnipresente, come quando un suo ambasciatore, Donato de’ Bardi, gli scrisse che nell’essersi armato aveva «fatto come debbon fare i principi savi e che vogliono vivere principi e da tutti siete sommamente laudato; la buona memoria di Clemente VII insegnò a tutti». In effetti Cosimo fu un principe che non rischiò mai nulla di persona, al contrario del padre. Dopo la vittoria Marciano per mano del capitano Gian Giacomo de’ Medici, nel 1554, la sua strada verso la supremazia in Toscana era spianata, e il titolo di granduca non fu che una conferma formale di tale condizione. Sul piano storiografico, Cosimo promosse la composizione di opere che celebravano la storia di Firenze nel contesto della storia europea, come quelle di Paolo Giovio, Francesco Guicciardini e Giovan Battista Adriani (figlio del celebre cancelliere Marcello Virgilio Adriani), pur esercitando una sottile censura sui contenuti. Le opere pur da lui promosse come quelle di Benedetto Varchi, o Giovan Girolamo de’ Rossi, restarono a lungo inedite. Tutte queste storie rientrano nella tradizione delle Istorie fiorentine di Machiavelli (a sua volta preceduto dai cancellieri repubblicani come Leonardo Bruni), ma il tasso di dissimulazione nei confronti del potere costituito aumentò col passare del tempo. Dunque, l’influenza del Principe o dei Discorsi non andrà ricercata in omaggi espliciti, resi sempre più difficili se non impossibili dalla condanna all’Indice dei libri proibiti delle opere di Machiavelli dal 1559 in poi, quanto in una sorta di “basso profondo” ideologico, mai apertamente confessato, che è tipico dell’età dell’antimachiavellismo professato, il quale in effetti corrisponde al machiavellismo praticato.
Sabin Drăgulin: Quali furono i metodi e modi di esercitare il potere all’epoca del Granducato che richiamano quelle proposte da Machiavelli?
Piergabriele Mancuso3: Nel linguaggio corrente, quello di “machiavellico” è forse uno degli aggettivi che più spesso viene inteso ed usato in senso improprio, una sorta di sinonimo e simbolo di cinismo personale e pragmatismo politico. Con il Principe Machiavelli non intende offrire al regnante un manabile di condotta politica votata al mero successo, né tantomeno stilare un bugiardino politico-sociale per la salute personale e istituzionale di colui che intende assurgere, non importa come e se giustificatamente, agli onori delle cronache storiche. Assimilabile, per certi aspetti, agli Specula Principis – vero e proprio genere letterario che dal Medioevo al Rinascimento con cui si intendono individuare le qualità ideali del sovrano – Machiavelli si discosta in realtà da tale filone guardando alla realtà politica da una prospettiva molto più aderente al dettato storico, se non perfettamente oggettiva, perlomeno ufficialmente intenzionata ad individuare norme di comportamento e di governo sulla base di un’analisi attenta del tracciato storico pregresso. “Resta ora a vedere” – scrive Machiavelli ad apertura del capitolo 15 del Principe – quali debbino essere e’ modi e governi di uno principe o co’ sudditi e con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa.” Ciò detto, valutare l’esperienza del granducato mediceo alla luce della lezione del Machiavelli è un compito improbo, difficile da svolgere in poche righe. Mi permetto, dunque, di restringere il campo di indagine, sia per quanto concerne il tracciato cronologico che quello tematico, prendendo in considerazione due elementi: da una parte, il momento di passaggio tra ducato e granducato mediceo, vale a dire l’esperienza di Cosimo I de’ Medici e il periodo di transizione da una forma di governo (i primi anni del ducato cosimiano) teoricamente ancora malleabile, legata a vincoli di equilibrio istituzionale di marca popolare/repubblicana, ad una architettura politica – il granducato – in cui le aspirazione autocratiche potevano assurgere a forme e modalità non esplicite ma legittime di governo; dall’altra la creazione del ghetto di Firenze, terzo più antico ghetto al mondo. Cosimo viene nominato duca di Firenze – è bene credo ricordarlo – sulla base di un presupposto e di una previsione politica forse tra le meno lungimiranti nella storia dell’Italia della prima modernità, ossia che affidare il ducato ad un giovane inesperto, trasformare un “esterno” (o quasi, dato che per quanto laterale quello di Cosimo era comunque un ramo della famiglia Medici) in un leader politico potesse consentire alla (vera) élite cittadina di perpetrare il controllo sullo stato. Nel momento in cui al principato assurge il privato cittadino – è il paradigma politico che Machiavelli discute nel capitolo 8 del Principe e a cui, pur con le dovute differenze e attenzioni, penso possiamo assimilare l’esperienza cosimiana – quest’ultimo dovrà adoperarsi con tutti i mezzi disponibili a che tutti gli organismi di governo (l’esempio che fa è quello di Agatocle siciliano) siano posti sotto il suo diretto controllo, non avrà remore a rimuovere tutto ciò che si frappone nella sua discesa politica, non potendo confidare in un potere pregresso, né tantomeno in ciò che la fortuna, termine e concetto fondamentale nel discorso di Machiavelli, deciderà di serbargli in futuro. L’ascesa di Cosimo duca è costellata di fatti politici e personali di diversa magnitudine, dall’eliminazione dell’opposizione interna ed esterna, passando per la ridefinizione dell’architettura istituzionale, esautorando le magistrature repubblicane e attivando nuovi baricentri di potere politico, arrivando, da ultimo ma certo non di meno, ad un radicale ripensamento della fisionomia stessa dello stato mediceo, con le conquiste territoriali (basti pensare alla presa, sofferta e complessa, frutto anche un po’ del caso e della fortuna, di Siena), come anche ad un allineamento alla Curia romana, dalla prima metà del ‘500 e per buona parte del secolo successivo (perlomeno) fieramente contro-riformata. Allinearsi alla Chiesa significò per Cosimo fornire sostegno politico-militare, come anche implementare una serie di misure interne allo stato stesso in cui i dettami del verbo controriformato-tridentino potessero vedere piena applicazione. Una delle questioni più dibattute in ambito teologico cristiano era quello del rapporto con gli ebrei, un popolo “storico” portatore – secondo la concezione cristiano-cattolica – di un messaggio di verità, ma la cui missione era terminata con la venuta del Messia, dunque con il cosiddetto rifiuto ebraico di abbracciarne il messaggio salvifico, e il conseguente passaggio di testimone di Verus Israel dall’Israele storico alla Chiesa di Roma. Sulla base del modello veneziano del 1516, nel 1555 veniva istituito a Roma un ghetto ebraico, non solo zona di “assegnazione” di una minoranza all’interno di un tessuto maggioritario cristiano-cattolico (come concepito a Venezia), ma soprattutto, nelle intenzioni di Paolo IV (come del resto espresso nella sua Cum nimis absurdum), un luogo in cui la sofferenza di un popolo “ramingo” ed errante potesse divenire elemento eziologico per tutta la cristianità, una sorta di serraglio in cui l’infedeltà giudaica potesse dare prova, per proiezione inversa, dell’oggettiva verità della fede cristiana. Le raccomandazioni della Curia romana, inviate anche a regnanti non-cattolici, di adottare simili misure e porre un freno allo “scandalo” della convivenza ebraico-cristiana non sortirono gli effetti sperati. Per quanto riguarda la Toscana medicea, le prime avvisaglie di un allineamento ai dettami controriformati si mostrano nel 1567, quando il Senato fiorentino impone l’uso del “segno” ebraico – un ciondolo di tessuto giallo per gli uomini (“di dimensioni come una ciambella grande” si legge negli atti), e una manica gialla per le donne, in maniera vergognosamente non dissimile da quanto, sia pur solo con colori diversi, si era soliti fare con prostitute. Il “segno” non è un’invenzione fiorentina ma una consuetudine antigiudaica di ben più antica genesi, periodicamente riscoperta e, a seconda dei periodi e delle temperie storiche, diversamente declinata. Pochi anni più tardi, nel 1570 – in sostanziale coincidenza con l’ottenimento dell’agognata investitura granducale per Cosimo da parte della Chiesa – si arriva anche a Firenze alla creazione di un ghetto. Al di là delle ovvie differenze fisico-architetturali e urbanistiche con i precedenti luoghi veneziano (isola del jeto non è un serraglio ma una delle isole che formano il mosaico insulare della città) e romano (un’area depressa vicino la Cloaca Maxima), ciò che distingue nettamente il ghetto di Firenze dai ghetti precedenti, ma anche da quasi tutti quelli a venire, è la sua genesi istituzionale. Il ghetto di Firenze viene creato su un presupposto oggi diremo di “salute pubblica” (evitare lo scandalo della tolleranza nei confronti degli ebrei), ma la sua proprietà materiale e dunque i proventi del suo usufrutto (in buona parte derivante dagli affitti maggiorati di un terzo rispetto ai valori normali, locazioni imposte agli stessi ebrei a cui di fatto non viene data la possibilità di stabilirsi altrove) divengono presto proprietà privata della famiglia Medici. Si trattò di una sorta di triangolazione economica, dove lo stato si fece garante delle spese e delle rifusioni per le confische delle proprietà immobiliari dei cristiani, dove il Monte di Pietà (già da tempo “machiavellicamente” privato delle spoglie di organismo di carità economica e trasformato in strumento finanziario per i Medici) si sarebbe fatto garante del deposito (in realtà forzato e trattenuto sine die) dei capitali spettanti ai proprietari cristiani stessi, e dove i Medici, nel doppio ruolo di famiglia privata e dinastia regnante, di fatto si imponevano, quali unici beneficiari dell’intera operazione. La creazione del ghetto porta a Cosimo due “benefici” certi, perlomeno: in primis, la dimostrazione del nuovo corso politico-istituzionale del granducato mediceo, che dipartendo dalla tradizionale tolleranza dei “vecchi” Medici (Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico, etc.) nei confronti della comunità ebraiche, non ha remore a segregare, deportare e infine rinchiudere in un serraglio cittadino (per inteso, posto proprio nel centro città) tutti i suoi ebrei; in secondo luogo, il controllo diretto su un’ulteriore porzione dell’aere urbano, ottenendone tutti i potenziali futuri guadagni. Un’azione, in ultima sintesi, ispirata da un brillante (quanto cinico) disegno politico nella cui filigrana appare evidente, ritengo, quanto espresso circa il governo della città dal Machiavelli stesso nel capitolo 5 del Principe (“Quomodo administrandae sunt civitates [vel principatus] qui ante quam occuparentur suis legibus vivebant” [Come si devono amministrare le città (o i principati) che prima della conquista vivevano secondo leggi proprie]): “Quando quelli stati, che si acquistano come è detto sono consueti a vivere con le loro leggi e in libertà a volergli tenere ci sono tre modi: il primo, ruinarle; l’altro andarvi ad abitare personalmente; il terzo, lasciàrgli vivere con le sua legge, traendone una pensione e creandovi dentro uno stato di pochi, che te lo conservino amico: perché, sendo quello stato creato da quello principe sa che non può stare senza l’amicizia e potenza sua…”. La creazione del ghetto di Firenze, così come del resto buona parte dei ghetti italiani, da soluzione definitiva ad una vexata quaestio, quella concernente il rapporto tra cristiani ed ebrei: politicamente il ghetto legittima il principe, perché lo pone nel novero dei regnanti che si adeguano al dettato delle leggi canoniche; socialmente, gli garantisce la presenza di una minoranza che nella maggioranza dei casi funge da moltiplicatore delle opportunità e sociali ed economiche per lo stato, portando in dote allo stato “ospitante” reti professionali e familiari che non possono che allargare le maglie dell’influenza politica al di fuori dei confini nazionali. Nella Toscana dei Medici si assiste ad una lampante discrasia circa il rapporto con gli ebrei: se da una parte la segregazione ebraica, la ghettizzazione è legge, norma dello stato e modus operandi dei suoi principi in tutto il suo territorio, dall’altra, al suo interno si garantiscono eccezionali forme di tolleranza (almeno secondo i crismi dell’epoca), come furono i casi di Pisa e soprattutto Livorno, dove mai alcun ghetto venne costruito e dove gli ebrei godettero di diritti di cittadinanza (non ufficialmente, non da un punto di vista teorico-legale, ma certo in maniera sostanziale) che il resto dell’ecumene ebraica europea conoscerà solo a partire dalla seconda metà del 1700. Nel momento in cui Machiavelli chiude il Principe, il ghetto italiano ancora non esiste. Al di là delle tradizionali interdizioni israelitiche e delle infinite limitazioni che le leggi canoniche vorrebbero imporre nei rapporti tra ebrei e cristiani, l’atto politicamente più innovativo della politica europea è il famigerato decreto di Alhambra del 1492 con cui Ferdinando d’Aragona (“quasi principe nuovo” dirà Machiavelli nel capitolo 21) ordinava l’espulsione di tutti gli ebrei dalla Spagna, dando drammaticamente fine all’ebraismo di Sefarad e a secoli di tolleranza interreligiosa (“si volse ad una piatosa crudeltà cacciando e spogliando e’ Marrani del suo regno; né può esse questo esemplo più miserabile né più raro”), vale a dire un atto di devota crudeltà, straordinario, vergognoso al contempo, ma utile alla definizione della identità, e per quanto aberrante possa sembrare oggi, dignità politica del suo regno. Un atto estremo, dettato da fanatismo e interesse personale, la dimostrazione del potere assoluto nei confronti della minoranza ebraica, così come, da un punto di vista tipologico, possiamo intendere e pensare (le precauzioni e i distinguo non saranno mai abbastanza) anche la creazione del ghetto nella Firenze dei Medici.
Sabin Drăgulin: Qual è il membro della dinastia dei Medici che corrisponde di più al modello del principe machiavelliano?
Luciano Piffanelli4: La domanda nasconde più di una insidia e – meglio dirlo fin da subito – la risposta non sarà né univoca né definitiva. Una prima insidia è posta dal titolo stesso dello scritto del Segretario fiorentino: il “piccolo volume” (come l’autore stesso lo definisce in apertura) De principatibus si propone di fare in prima istanza un esame analitico dei principati, ossia degli Stati retti da un principe. E infatti, “a dispetto delle affinità elettive”, ossia repubblicane, del suo autore, la riflessione è pienamente calata nella realtà istituzionale europea, ossia delle coeve monarchie nazionali, al cui livello Machiavelli vorrebbe innalzare l’Italia. Non va del resto dimenticato il fatto (capitale) che una piena comprensione del De principatibus è realizzabile solo se il trattato è inteso congiuntamente, se proprio vogliamo eludere gli scritti diplomatici, almeno con i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, che tradizionalmente rappresentano il versante “repubblicano” dell’analisi di Machiavelli. Non bisognerebbe poi tralasciare la (s)fortuna del testo. Volgarizzato già nel 1532, l’opera fu vittima dell’attività censoria romana (condannata in prima classe fin dal 1559), dell’opposizione intellettuale e politica francese (valgano per tutti il nome di Innocent Gentillet e del suo Anti-Machiavel, del 1576), e della critica, pur in seguito rivista, di altri pensatori (quali Botero e Boccalini, ad esempio). La riabilitazione di Machiavelli nel XVII secolo arrivò solo a partire dagli anni Venti, ad opera di lettori come Kaspar Schoppe, che nell’Apologia e nel Paedia Politices (1623) si propose di sottrarre il trattato al silenzio imposto dalla Chiesa, tentando di sovvertire le accuse ecclesiastiche contro l’opera (mostrando, ad es. che non si trattava affatto di un manuale di formazione per un tiranno ma, al contrario, di un testo contro le forme corrotte del potere) e di rendere il pensiero di Machiavelli fruibile da un pubblico cattolico ed ecclesiastico. Ma da Cosimo II in poi, i Granduchi furono progressivamente soggetti a un isolamento e ad un fervore religioso (diffuso a Corte in particolar modo dalle “serenissime tutrici”) che difficilmente avrebbero permesso a certi princìpi di governo di attecchire. Infine – ma questa è una lettura più personale – il realismo che si è soliti attribuire al Principe (e che, com’è stato a più riprese riconosciuto dalla storiografia, ne marca la distanza rispetto agli specula principum medievali) sembra essere a senso unico: pur non mirando alla definizione di un profilo principesco moralmente elevato e vincolato, il lavoro propone un modello politico di “reggitore dello Stato” altrettanto inarrivabile, poiché il suo autore sembra valutare la natura e le azioni del principe in maniera matematicamente assoluta e fisicamente inerte piuttosto che come esistenza e attività all’interno di un sistema. In più occasioni, infatti, proprio colui che valuta tanto l’influenza della fortuna sembra non tenere troppo conto delle inevitabili alchimie politice, cioè delle interazioni tra i componenti del “sistema degli Stati europei” e delle reazioni tra essi. La prima sezione del De principatibus si interessa alle tipologie di queste entità statuali e vi appare evidente l’attenzione al problema degli eserciti e al rifiuto delle milizie mercenarie, uno dei pilastri della gestione politica (questione sulla quale i lavori, tra gli altri, di Andrea Guidi hanno fornito analisi interessanti). Segue la nota sezione sulle qualità che il capo politico deve possedere per tenere saldo il potere – qualità che, come detto, vogliono liberare la gestione politica dai precetti di matrice religiosa presenti negli specula medievali. In ultimo, i capitoli che chiudono il lavoro vedono Machiavelli incitare Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, a incarnare tale ruolo e spingere gli invasori fuori d’Italia. L’autore si propone insomma di indagare le diverse tipologie di stato principesco e le diverse modalità con cui si ottiene e si mantiene il potere in un principato. Ci si potrebbe allora anche chiedere quale non sia il ritratto dell’uomo di governo che Il Principe delinea; e forse è lo stesso Machiavelli a indicarcelo, dedicando il suo lavoro, in ultima istanza, a Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino. Certamente, l’idea della virtù personale per contrastare la fortuna, e dunque il ruolo “umano” del capo di Stato, erano elementi di cui Lorenzo poteva essere dotato, ma se già il primo dedicatario, Giuliano de’ Medici, difficilmente avrebbe potuto guidare la “redenzione” d’Italia (cap. XXVI, Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam), la dedica a Lorenzo ci appare più un monito speranzoso che un concreto invito politico-militare (e del resto Raffaele Ruggiero non cela che “se involontariamente ironica sarebbe apparsa una così iperbolica esortazione a Giuliano, non meno ilarità avrebbe suscitato, all’indomani della guerra di Urbino del 1517, una parentesi militare a Lorenzo”). In questa sua riflessione sullo Stato, in effetti, quasi certamente Machiavelli non pensava ai Medici del suo tempo (superfluo sarebbe citare qui la figura di Cesare Borgia), né tantomeno a quelli del secolo precedente, che mancano, come sembra dirci l’autore nel cap. IX, di una sorta di spirito di legalità (sono tra quei principi che “comandano per loro medesimi”) – da qui, se vogliamo, viene anche la discussione sulle leggi, ambito di eccellenza del principe, che deve dunque gestire sapientemente, e con forte attitudine personale, bellum e ius (non a caso, Gentillet criticava veementemente tale posizione e affermava che “il faut que la loi soit ferme, constante, permanente, inviolable, et inviolablement observée, autrement ce n’est point loy”). Posta questa necessaria introduzione, tra i granduchi del XVII secolo è forse Ferdinando I (1549-1609), figlio di Cosimo I de’ Medici e di Eleonora di Toledo, a fornire una risposta alla domanda di apertura. Certo, anche per via dei legami dinastici, i Medici si trovavano costantemente invischiati nell’incessante conflitto franco-spagnolo, ma Ferdinando I, più dei suoi successori, riuscì a far avanzare il Granducato tentando costantemente di riservarsi notevoli margini di iniziativa e di autonomia. Egli sembra infatti dare vita a una figura principesca incisiva, combattiva, e indipendente, tanto da corrispondere in più punti al profilo delineato da Machiavelli. Dal punto di vista amministrativo, Ferdinando riorganizzò la burocrazia dello Stato e ristabilì il sistema giudiziario (come ad es. le Riforme delli magistrati della città di Siena), promuovendo anche cambiamenti a livello fiscale e culturale (fu il caso dello Studio senese e della Typographia Medicea, ad es.). Inoltre, il Granduca capì che l’intesa coi sudditi avrebbe prodotto un doppio movimento, benefico alla gestione dello Stato, di adesione e di coesione intorno alla dinastia, e si mostrò quindi interessato al benessere del suo popolo (e allora come non ricordare qui il ruolo centrale del popolo in Machiavelli, tanto che Sebastián Torres segnalava come la virtù, qualità centrale del principe, dipendesse dall’incontro del sovrano con il popolo, e non fosse affatto una pura invenzione del principe). Seppur a fatica e con risultati provvisori, sul piano delle relazioni internazionali Ferdinando I cercò poi non solo di stabilire piazzeforti fiorentine nel Medio Oriente e nelle Indie, ma anche di allentare i vincoli che legavano e sottomettevano il Granducato agli Asburgo e, in generale, tentò di mantenere una certa indipendenza rispetto alle maggiori potenze del tempo, la Francia e la Spagna, al punto che non solo potenziò la flotta (che invece Ferdinando II vendette), ma si lanciò anche nel solo tentativo mediceo di fondare colonie nel Nuovo Mondo (la Spedizione Thornton ebbe luogo tra il 1608 e il 1609, anno della morte del Granduca). Cardinale – fino al 1589 – non senza disaccordi col pontefice, Ferdinando I mostrò anche di saper spesso gestire gli imperativi religiosi e di sottometterli alle necessità politiche ed economiche: ad es., se già Cosimo I aveva protetto gli ebrei dall’Inquisizione, le “leggi livornine”, promulgate tra il 1591 e il 1593, permisero agli ebrei di stabilirsi a Livorno e di non essere confinati in un ghetto (disponevano inoltre di un cimitero e di una sinagoga), contribuendo così allo sviluppo del porto di Livorno e all’economia del Granducato. La nostra risposta non vuole certo essere né esaustiva né definitiva; più che altro, essa è il frutto di una lettura multifattoriale messa a disposizione di un ampio pubblico. Ciò che resta inequivocabile, in ogni caso, è che il pensiero del Segretario fiorentino suggerisce ancora oggi numerosi spunti e interpretazioni per approfondimenti, dibattiti e controversie: le traduzioni e le edizioni critiche, la realizzazione di una Enciclopedia machiavelliana e la bibliografia sulla figura e sugli scritti di Machiavelli, in costante espansione, rivelano infatti l’inesauribile, pressoché interminabile stimolo alla riflessione che la sua opera fornisce, pur con il rischio di dissuadere a volte i novizi dall’intraprendere lavori in merito. Al punto che persino nella cultura televisiva popolare (e penso in maniera specifica alla serie TV “Boris”), la fittizia creazione di uno sceneggiato su Machiavelli – inevitabilmente lungo e complicato, senza contare il pericolo di mettere a nudo una certa gestione del potere politico – appare come il colpo di grazia per la carriera di un regista, pur affermato.
Notte
- Direttore del Medici Archive Project.
- Senior Research Scholar al MAP.
- Direttore del Centro sulla cultura e storia degli ebrei in Toscana al MA.
- Direttore del Peacemaking and Peace Treaties in Medici Europe program al MAP.