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Gli interventi nazionali sui problemi della migrazione: strategie e programmi
(National interventions on the issues of migration: strategies and programs)
Carmine CLEMENTE
Raffaella PATIMO
Abstract. Europe has become the first continent of attraction for migrants and is also the first continent as for incidence of the population emigrated to the total of population. In Italy, in particular, the foreign population has grown from 2000 to 2013 at an average rate of 10% per annum. This scenario, plus the emergence of immigrant landings on the Italian coast as a point of arrival but also as a point of departure to other European countries, leads to awareness of the need for answers, not only at the Italian institutional level but also within a European convergence framework, in the search of policies and programs most appropriate to a new social context, strongly characterized by the presence of the immigrant population
Keywords: migration flows, regulation, security, European convergence
Nuovi flussi e nuove traiettorie delle migrazioni
Alcuni anni fa le Nazioni Unite[1] stimavano per il 2013 una presenza di oltre 7,1 miliardi di abitanti, mentre l’United States Census Bureau[1] stima nel 2015 in 7,25 miliardi di persone la popolazione mondiale, distribuita per grandi aree con circa: 4,3 miliardi di abitanti per l’Asia, 1,1 miliardi per l’Africa, 740 milioni per l’Europa, 617 milioni per l’America Latina, compresi Caraibi, 321 milioni per l’America del Nord e 38 milioni per l’Oceania.
L’area geografica che ha fatto registrare, dal 1980 ad oggi, il maggior aumento della popolazione è l’Africa (2,3 volte). L’Europa, invece, nello stesso intervallo di tempo fa registrare una variazione minima (7%). Asia, America Latina ed Oceania fanno registrare una crescita tra il 60 ed il 70%, mentre la variazione è di circa il 40% in Nord America.[2]
Sul versante migratorio, invece, negli anni ’80 l’Europa rappresentava circa un terzo del saldo migratorio per le aree continentali in attivo e, a partire dagli anni ’90, arriva a rappresentare circa la metà del saldo netto. Dopo una flessione (anche in termini di valori assoluti) ha superato nettamente il Nord America negli anni 2000, rappresentando oltre il 55% del saldo positivo. Nel 2010-2015, in plausibile connessione con il rallentamento economico,[3] la quota europea si riduce sia in termini assoluti (da oltre 1,8 milioni a meno di 1,2 milioni annui) che relativi (dal 55% al 46%); la quota del Nord America invece resta stabile in termini assoluti (1,2 milioni) e cresce in termini relativi (dal 38% al 48%).
Emerge, quindi, un significativo cambiamento sia dell’evoluzione demografica sia delle traiettorie migratorie che interessano le diverse aree geografiche continentali, soprattutto quella africana. Inoltre, il rapporto UNDP[4] sullo sviluppo umano (2014) mette in risalto anche il fattore socioeconomico che caratterizza alcune aree geografiche e stima che almeno 2,7 miliardi di persone nel mondo sopravvivono con un reddito al di sotto della soglia di povertà riconosciuta internazionalmente (al di sotto di 2,5 dollari giornalieri); di questi oltre mezzo miliardo vive in Africa (quindi circa la metà dell’intera popolazione).
Assume rilievo, quindi, proprio la crescita migratoria (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2014) dall’area africana sia in termini assoluti (da 350 a500mila) che relativi (dal 10 al 20%) che si declina poi nell’intensificazione dei flussi sull’asse Africa-Europa dovuto:[5] a cosiddetti fattori pull dei paesi di destinazione (Europa e Italia), ovvero la disponibilità di un mercato del lavoro per quelle mansioni poco attrattive (mansioni poco qualificate e con limitata prospettiva di carriera) per i lavoratori locali, e da fattori push che spingono al progetto migratorio per motivi legati a: aumento della popolazione; situazioni belliche; conflitti etnico-religiosi; economie povere e senza prospettive; ricongiungimenti familiari.
L’Europa è diventato così il primo continente di maggior attrazione per i migranti (31,4% del totale della migrazione mondiale) per una popolazione di 34 milioni di residenti in un Paese UE diverso da quello di cittadinanza (circa 7% popolazione europea) e di circa 51 milioni di immigrati, ossia residenti in un Paese diverso da quello di nascita (circa 10% della popolazione europea); l’Europa è diventata anche il primo continente per incidenza della popolazione emigrata sul totale della stessa popolazione europea.[6]
Nel 2013, la grande maggioranza di stranieri residenti (UE e non UE) si distribuisce in cinque paesi, tre con una consolidata tradizione come destinazione dei flussi migratori – Germania (7,7 milioni); Regno Unito (4,9 milioni) e Francia (4,1 milioni) – e due paesi con una storia recente di emigrazione, Spagna (5,1 milioni) e Italia (4,9 milioni pari all’8,1% della popolazione italiana).
In Italia la popolazione residente[7] è stazionaria, mentre quella straniera è cresciuta dal 2000 al 2013 ad un tasso medio del 10% annuo.
Lo scenario descritto, oltre l’emergenza degli sbarchi d’immigrati sulle coste italiane come luogo di arrivo ma anche di ri-partenza verso altri paesi europei, porta alla consapevolezza della necessità di risposte, sì italiane ma in un quadro di convergenza europea, con politiche e programmi più adeguati ad una nuova realtà sociale, fortemente caratterizzata dalla presenza di popolazione immigrata.
Una lettura in chiave economica
Il fenomeno immigrazione che da qualche anno ha impegnato e continua a impegnare le agende politiche di numerosi Paesi europei, in particolare il nostro per la sua posizione geografica, è un fenomeno sociale, antico e nuovo nello stesso tempo. Le sue proporzioni, come emerge dal paragrafo precedente – impensabili fino a qualche tempo fa – oggi comportano una serie di interventi che non possono essere solo tempestivi e occasionali, ma devono rappresentare una nuova strategia, un nuovo modo di pensare per poter di governare ciò che appare come un esodo biblico, un flusso inarrestabile di “carne umana” nelle mani di trafficanti senza scrupoli, che rispondono, con le loro attività illecite, a un bisogno di “fuga” di chi ad un corso di vita drammatico contrappone la possibilità di un futuro migliore ma incerto.
Il nostro è un Paese che non può, comunque, di fronte a questa tragedia, permettersi di avere la memoria corta. Infatti nel suo passato, nemmeno tanto remoto, l’emigrazione è stata considerata un necessità economica, politica e sociale di non trascurabile importanza.
L’aspetto economico veniva evidenziato, già nel 1874, da Leone Carpi che evidenziava come coloro che partivano erano nella quasi totalità contadini costretti dalla povertà e sofferenza, inflitta loro dai proprietari terrieri.[8] Quindi i primi emigranti sono contadini e volendo particolareggiare come afferma il Franzina, sono “paesani”,[9] non avendo questa espressione alcuna valenza dispregiativa, ma semplicemente metteva in evidenza un fenomeno che partiva dalle campagne e marginalmente interessava le città italiane.
Ancora, nel 1932 Hicks scriveva che “le differenze dei guadagni economici netti, principalmente le differenze salariali, sono le cause principali delle migrazioni”.[10] La moderna teoria economica ha sempre considerato la migrazione come una sorta di investimento in capitale umano, dove la decisione di migrare è presa dalla famiglia nel suo complesso e solitamente coinvolge l’individuo (o più di uno) con le maggiori capacità di successo e i più alti livelli di abilità ed istruzione.
La decisione di migrare è quindi una decisione collettiva, dell’household, dove le aspettative di un miglioramento del benessere sono calcolate a livello familiare e dipendono fortemente dalle condizioni economiche dei Paesi di origine e di destinazione, nonché dai costi della migrazione.[11] È chiaro, ora, che questo approccio economico alla migrazione così come trattata da questo lavoro vada emendato e sorpassatp. Sicuramente, i costi prettamente economici della migrazione andranno completati con i costi in termini di sicurezza e diritti umani, così come le condizioni economiche dei Paesi di origine andranno indubbiamente prese in considerazione insieme ad altri fattori non semplicemente e direttamente monetizzabili come sicurezza, sopravvivenza, rispetto dei diritti fondamentali dell’umanità.
Per quanto riguardo l’aspetto politico-sociale sotteso all’emigrazione, anch’esso non trascurabile, bisogna considerare che in passato, ad esempio, a milioni di persone disagiate fu consentito di abbandonare il proprio paese nella speranza di una vita migliore, se non per se stessi almeno per i propri figli. In quel periodo molti, approfittando della gratuità del viaggio, si diressero in Brasile affrontando un lungo viaggio non privo di rischi, insidie e sorprese.
Sarà in quegli anni che un ex-parlamentare veneto documentò i disagi dei nostri emigranti viaggiando con loro, facendone un’esperienza diretta. Grazie alla testimonianza, puntuale e particolareggiata di Ferruccio Macola, apprendiamo come all’interno delle corsie che raccoglievano gli emigranti non c’era molta differenza da ciò che ascoltiamo dalle testimonianza di coloro che vengono raccolti nelle acque del Canale di Sicilia. «Si fece il giro delle corsie: Che orrore! – annoterà il Macola – Ci tenevamo ben stretti alle traversie di legno perché il suolo era imbrattato un po’ qua e un pò là di materie ignobili e rendeva pericoloso qualunque movimento. (…) Non mi sono mai spiegato, come tante creature umane potessero vivere là dentro, qualche volta venti, qualche volta trenta e più notti, respirando le esalazioni più pestifere e in un’aria umida, vischiosa, corrotta dai gas acidi sviluppati dal cibo mal digerito e rigettato, e dagli odori insopportabili degli escrementi depositati in tutti i canti, o per assenza assoluta di pulizia o per poltroneria, o infine perché il mare mosso toglieva alle donne e ai bambini il coraggio e le forze per salire sopra coperta».[12]
La storia dell’emigrazione italiana, come ci ricorda l’Ambasciatore Incisa di Camerana[13] durerà più di un secolo e mezzo e finirà solamente negli anni Ottanta del secolo scorso e che dal 1946 al 1972 l’esodo dall’Italia verso i paesi più industrializzati del nostro ha visto coinvolti più di 7 milioni di cittadini italiani.[14]
In questi tempi assistiamo ad una lenta trasformazione, senza soluzione di continuità, che capovolge la storia demografica e migratoria della nostra società, diventata uno dei punti di approdo del flusso migratorio per gran parte proveniente dal nord Africa e, nello stesso tempo, si è scoperta impreparata, culturalmente ed organizzativamente, ad affrontare un tale fenomeno dai risvolti umanitari spesso drammatici.
Le motivazioni di ordine economico rimangono le più rilevanti: è indubbio che la popolazione migrante sia indotta a tale scelta per cercare di migliorare la qualità della vita (nel migliore dei casi) o per sottrarsi e gravi condizioni di povertà ed indigenza (nel peggiore). Ma è oltremodo evidente che non possono essere le sole a guidare questi incessanti flussi di persone e che la comunità internazionale ha l’obbligo di intervenire con misure e strategie onnicomprensive a livello globale.
Il dibattito sul multiculturalismo
Nella Comunicazione della Commissione Europea del 13 maggio del 2015 riguardante l’Agenda europea sulla migrazione, finalmente, emerge la consapevolezza che il fenomeno migratorio, che sta approdando sulle rive dell’Europa, ha un complessità tale da richiedere un nuovo approccio “più europeo”. L’impegno di un singolo Paese come l’Italia non può essere risolutivo, né dal punto di vista dell’accoglienza, né tanto meno dal punto di vista della deterrenza alla partenza.
Infatti, in attesa di affrontare le cause determinanti di tale esodo, che coinvolge centinaia di migliaia di persone all’anno e dopo aver sperimentato l’inadeguatezza di alcuni interventi che potevano, al massimo, fronteggiare l’emergenza profughi, la UE deve cercare di adeguare la sua politica migratoria e dare una risposta alla pressione sociale riveniente dal fenomeno e tenendo conto anche dei rischi di infiltrazioni terroristiche. Si tratta di promuovere e adottare politiche di integrazione, che possano dare agli immigrati regolari una possibilità di integrazione nelle nostre società che invecchiano sempre più a fronte di un progressivo declino demografico.
Gli stati industrialmente avanzati, che prima di noi sono stati interessati dal fenomeno, hanno adottato inizialmente una politica di utilizzo di manodopera che era necessaria al loro sviluppo, per poi bloccare le frontiere o contingentando i nuovi ingressi. Secondo l’analisi che ne fa Marotta, non si è riusciti a controllare pienamente questa realtà perché «(…) si è consentito di sfruttare i lavoratori stranieri secondo i bisogni e la necessità dell’economia nazionale, accogliendoli o rinviandoli al paese di origine sulla base dell’andamento del mercato del lavoro, senza tener conto delle conseguenze psico-sociali dell’emigrazione sui singoli e sulle collettività interessate».[15]
In buona sostanza non si è tenuto conto di un aspetto cardine della questione immigrati e cioè che queste persone avrebbero costruito, di lì a poco, famiglie e reti amicali tali da prospettare un loro status di cittadinanza nel paese ospitante, come effettivamente è accaduto dove le politiche incentrate sul multiculturalismo hanno funzionato.
Quando si sono chiuse le frontiere, invece, si è alimentato il “mercato” degli ingressi e soggiorni clandestini, che hanno contribuito alla diffusione di un’allarmante illegalità nei rapporti di lavoro, del tutto irregolari, basati sull’elusione dei vincoli normativi e contrattuali.
Se si tiene conto che chiudere le frontiere non risolve il problema e nello stesso tempo non è possibile immaginare un flusso migratorio come una variabile indipendente rispetto alle condizioni socio-economiche, appare auspicabile un impegno concreto per favorire lo sviluppo dei paesi d’origine, anche se la situazione non migliorerà affatto nel breve, ma nel lungo periodo.[16]
In effetti, già nel 1992, con la risoluzione del 18 novembre, la Comunità europea cercò di coordinare i flussi migratori, armonizzando le legislazioni e le politiche in materia di diritto d’asilo. Di seguito, nell’aprile del 1993, per arginare nuovi fenomeni di razzismo e di xenofobia, la Comunità Europea produsse una nuova risoluzione con la quale condannava la violenza contro gli immigrati e contemporaneamente ravvisava la necessità di adottare norme più restrittive al fine di limitare gli ingressi clandestini e l’aumento dei reati di questi ultimi nei paesi ospitanti. Pochi mesi dopo, nel luglio del 1993, a dimostrazione di come il fenomeno veniva ormai percepito nella sua complessità, veniva emanata un’altra risoluzione, in quanto si sentiva la necessità di disporre di una politica comune sull’immigrazione al fine di gestire in modo ottimale l’accesso al lavoro, il ricongiungimento dei nuclei familiari e il rimpatrio. Il Parlamento italiano provvederà solo nel 1998 a regolamentare quanto previsto nelle risoluzione della UE con la legge n 40 del 6 marzo 1998.
Nonostante una certa volontà politica di normare e regolarizzare il fenomeno immigrazione a livello europeo, a distanza di un ventennio, la cancelliera tedesca Angela Merkel non ha indugiato affatto nell’affermare pubblicamente che il multiculturalismo ha completamente fallito.[17]
Per il sociologo inglese Anthony Giddens il multiculturalismo è tradito, nella sua definizione, da ciò che normalmente viene inteso nei dibattiti, e quindi nell’opinione pubblica, per mancanza di informazione e formazione culturale a tal proposito, e sostiene una posizione molto critica a tal proposito: «Invece di sostenere che il multiculturalismo ha fallito in Germania, e più in generale in Europa, sarebbe più esatto dire che a malapena è stato sperimentato».[18]
Giddens cerca di chiarire il concetto spiegando come «Il multiculturalismo non implica, infatti, il relativismo dei valori, cioè il fatto che non esistono standard secondo cui giudicare le varie rivendicazioni e attività culturali. E non significa accettare, e men che meno accentuare le barriere fisiche e morali che separano le differenti comunità. Al contrario il multiculturalismo implica l’avvicinamento di queste comunità attraverso il contatto attivo e quotidiano».[19]
Le politiche esortate dal sociologo inglese per il multiculturalismo, così come ben attuate in Canada, intese come «(…)una politica o un insieme di politiche che riconosce la validità di diversi modi di vita all’interno di una comunità sociale, cercando di promuovere transazioni fruttuose e positive tra essi, ma all’interno di un sistema generale di diritti e doveri di cittadinanza» ,[20] sono state per lo più interpretate, nei paesi europei, in termini di riconoscimento sociale della presenza di diversi gruppi culturali, e quindi di politiche basate sul “pluralismo culturale”, che rappresentava ben altro.
Per Kymlicka[21] il multiculturalismo, quale politica e forma d’inclusione sociale, è possibile sulla base di tre condizioni indispensabili: costruzione di un’opinione pubblica, che tende a venir meno se nei fatti i principali beneficiari di questa politica sono gli immigrati clandestini, i cosiddetti furbi, che non rispettano le regole; l’impatto economico percepito degli immigrati, vale a dire l’importanza che l’opinione pubblica sia consapevole che gli immigrati non percepiscono dallo stato sociale più di quanto sono in grado di dare; la presenza di culture islamiche e di possibili ed eventuali derive estremiste, e loro implicazione in un modello di inclusione multiculturale.
L’analisi effettuata Kymlicka, quindi, prende in considerazione sia l’aspetto normativo, sia quello culturale, sia quello socio-economico con particolare riguardo al sistema di welfare, che ancora oggi tanto sta facendo discutere per le risorse sempre più risicate che vi si assegnano.
Il Canada rispetto all’Italia soddisfa appieno queste tre condizioni, poiché dai dati emerge che ha il più basso tasso d’immigrazione clandestina, mentre il nostro Paese oltre ad avere il più alto tasso di clandestini presenta una mancanza pressoché totale di politiche multiculturali.[22]
Il successo del Canada forse è da ascrivere alla presenza di due fattori ritenuti fondamentali, così come Charles Taylor [23] ha potuto analizzare nella sua ricerca sulle origini del multiculturalismo, e cioè: la conservazione e la dignità culturale di propri stili di vita; lo scambio e l’interazione come basi delle politiche di riconoscimento e rispetto reciproco.
All’interno di queste dinamiche sociali appare evidente come non c’è più posto per identità separate dall’intero contesto e, l’implementazione concreta di politiche orientate al multiculturalismo, richiede una forte identificazione e senso di patriottismo da parte dei cittadini.[24] Appare evidente che, alla luce degli ultimi eventi terroristici e delle instabili condizioni economiche generali, tutto ciò diventa alquanto difficile da concretizzare.
Alcuni esempi nella direzione opposta si trovano negli scritti di David Goodhart in Gran Bretagna [25] e di Thilo Sarrazin in Germania, che discutono l’opportunità di escludere, dai sistemi di solidarietà e welfare in generale, gli immigrati.[26]
Giddens s’interroga se, alla luce dei fattori che caratterizzano il dibattito contemporaneo, sia opportuno abbandonare l’idea del multiculturalismo e impostare le nuove politiche tenendo conto della nuova realtà sociale con la quale siamo chiamati a confrontarci, in funzione dell’interculturalismo, laddove questo «(…) non consiste solo nel trovare un posto per i gruppi culturali stranieri all’interno della società, nel favorire l’interazione tra le minoranze, le comunità e nazioni ospitanti, o nel ridurre le disuguaglianze, per quanto tali obiettivi siano comunque importanti. Piuttosto concentra l’attenzione sui processi di negoziazione e dialogo che possono ricostruire positivamente lo spazio pubblico».[27]
Per Zygmunt Bauman, critico convinto dell’era del multiculturalismo, uno dei fattori che non ne ha permesso lo sviluppo è che lo stesso dibattito non si è mai diffuso in modo ampio (le masse) ma ha interessato solo una ristretta èlite globale che si sentiva una specie di avanguardia, che aveva il compito di esplorare nuovi orizzonti e invitare gli altri a seguirli.[28]
Per concludere, le parole della filosofa americana Nussbaum, che a lungo si è occupata di questi temi, sono più che significative, quando afferma che è «(…) assolutamente prioritario sostenere gli sforzi volti alla formazione di cittadini che si facciano carico del proprio pensiero, che possono considerare ciò che è diverso ed estraneo non come una minaccia da affrontare, ma come un invito a esplorare e a comprendere, ampliando la loro mente e la loro disponibilità come cittadini».[29]
Gli interventi nazionali ed europei
Alla luce di quanto detto è opportuno chiedersi quali possono essere gli interventi più idonei, su scala nazionale, da progettare e realizzare per tentare di risolvere i problemi correlati al fenomeno migratorio.
In quest’ambito parecchie soluzioni sono state proposte e tentate nel recente passato in paesi che prima di noi si sono confrontati con queste problematiche. Francia, Gran Bretagna e Germania in Europa, per non parlare degli Stati Uniti. In tutti questi Paesi si sono tentate soluzioni possibili, che non sempre si sono dimostrate all’altezza delle intenzioni.
Negli Stati Uniti è stato adoperato in primis il concetto di “assimilazione”, che nel vecchio continente, invece, è stato tradotto in termini d’integrazione, vale a dire che si è voluto usare un concetto più flessibile caratterizzato da una sua natura processuale e dialogica.[30] Anche se i fatti con i quali ci confrontiamo ci dicono che il rapporto dialogico è stato condotto verso una vera e propria dialettica conflittuale. La minaccia e le azioni terroristiche stanno alimentando più che integrazione una vera e propria diffidenza sociale e generalizzata verso “la categoria” degli immigrati.
Purtroppo quando c’erano le condizioni politiche e sociali per puntare sull’integrazione e interazione si è fatto poco; oggi, a causa delle mutate situazioni internazionali, parlare e proporre politiche d’integrazione può risultare alquanto difficile, ma non del tutto impossibile.
Bisognerebbe ripartire dalla comprensione, e non solo da una parte, di cosa voglia dire integrazione.
Per Vincenzo Cesareo, che da anni studia il fenomeno immigrazione, affinché la strategia di una sempre più organica integrazione possa realizzarsi è indispensabile che il problema sia affrontato attraverso una «più decisa armonizzazione normativa e di un maggior coordinamento operativo tra i diversi Stati che compongono l’Unione».[31]
L’UE, con l’approvazione nel dicembre del 2009 del Programma di Stoccolma, ha iniziato un percorso che ha rappresentato il primo importante passo per l’attuazione di un’unica procedura di asilo e di più equa distribuzione degli immigrati all’interno degli Stati membri. Si tratta di una strategia finalizzata ad alleggerire il peso dell’accoglienza per Paesi – quali Italia, Grecia, Spagna e Malta – che per posizione geografica costituiscono gli approdi più facili delle rotte clandestine.[32]
La questione sulla quale si sono create delle discrepanze è quella dei diritti umani fondamentali. Quali diritti fondamentali? Quelli degli immigrati o quelli dei residenti ospitanti? Intanto sembra che sia lo Stato italiano ad aver violato questi diritti nei Centri di Identificazione e di Espulsione, dove vengono “ammassati” in numero eccessivo immigrati ai quali viene tolta la loro dignità di persone umane.
Con la paura del terrorismo e dei suoi effetti drammatici, com’è successo già in Francia e Inghilterra, anche il nostro Paese non si sente totalmente al sicuro e quindi insieme al livello d’insicurezza è aumentato anche il livello di diffidenza nei riguardi degli immigrati, grazie anche ai media che informano accentuando alcuni aspetti, solo quelli negativi dell’immigrazione.
Per queste ragioni l’idea assimilatrice sta prendendo consistenza anche nel nostro Paese, per cui si sta tornando a vedere l’immigrazione come «un fattore di turbamento dell’ordine sociale».[33] Si diffonde sempre più la convinzione, e la cronaca quotidiana ne è prova, che i migranti che si stabiliscono nel nostro Paese devono, necessariamente, conformarsi alle pratiche sociali del contesto in cui risiedono, lasciandosi assimilare, nascondendo, se non abbandonando del tutto, i propri tratti culturali, che tendono a stigmatizzarli rispetto alla maggioranza della popolazione residente.
Si ha l’impressione, come afferma Ambrosini, che si stia transitando da una presa di posizione di tipo “liberale” che «vede la cittadinanza come veicolo d’integrazione» a un’altra caratterizzata da una certa rigidità conservatrice con vincoli sempre più restrittivi che considera «la cittadinanza come un premio all’integrazione».[34] Le due soluzioni aprono, evidentemente, scenari tra loro opposti. La prima rischia di offrire un riconoscimento di diritti anche in mancanza di una piena integrazione, mentre nella seconda si rischia di alimentare la marginalità, l’esclusione, in attesa di un riconoscimento che non arriverà in mancanza di ciò che non promuove.
La mancata integrazione, unita alla più complessa gestione della clandestinità, frutto di insufficienti politiche nazionali di carattere “interazionista”[35] comporta una diffusa convinzione nell’opinione pubblica che il fenomeno immigrazione sia strettamente correlato all’insicurezza sociale che tende ad associare lo straniero al criminale.
Però, da un’attenta lettura di alcuni dati,[36] si evince che le denunce che coinvolgono gli stranieri, se é pur vero che sono aumentate nel corso degli ultimi anni, é vero anche che dal 2012 sono aumentate in misura meno che proporzionale rispetto all’aumento della popolazione migrata.
Le denunce contro gli italiani, all’opposto, sono aumentate nel corso del 2012 del 37,6 %, mentre quelle contro gli stranieri del 29,6 %. Un’altra differenza che emerge dai dati pubblicati dall’UNAR riguarda la disparità di applicazione agli immigrati irregolari delle misure cautelari personali; infatti, questi usufruiscono meno degli italiani di misure alternative alla detenzione, congestionando così le carceri, alimentando altri problemi, per i quali lo Stato italiano è stato richiamato da Istituzioni internazionali al rispetto dei parametri minimi della dignità della persona umana.
È in quest’ottica che la condizione di straniero con l’aggettivazione “immigrato” comporta [37] da parte degli attori sociali l’adozione di tre strategie che vanno dal rifiuto ed espulsione del “diverso”, all’inclusione subordinata, che la utilizza come lavoratore, per giungere, infine, alla cooperazione e cittadinanza.
Delle tre strategie, quella che appare più diffusa, ancora oggi, sembra essere la prima che porta inevitabilmente verso comportamenti devianti e, quindi, alla criminalità. Succede così che l’immigrato viene inteso come l’idealtipo weberiano dello straniero che, in quanto tale, è esposto più degli altri ad un controllo sociale più attento e intrusivo. Per questa ragione il fenomeno deviante degli immigranti sembra configurarsi come una tipica reazione di protesta da parte di chi si trova quotidianamente ad affrontare problemi connessi all’integrazione, all’identità e alla cittadinanza.
Se questa esclusione – che varia da territorio a territorio, per evidenti diversità di sensibilità presenti – non viene però affrontata e risolta in termini sociali, potrebbe sfociare in atti di violenza, intesi come unica forma di espressione che gli immigrati possono utilizzare per far valere le proprie rivendicazioni, che spesso non si conciliano con quelle delle popolazioni autoctone.[38]
In queste condizioni è più che probabile che l’immigrato sia stigmatizzato come pericoloso, quindi segnalato, identificato e denunciato per essere istituzionalizzato come delinquente.
La diversità, in un processo d’integrazione che necessita dei suoi tempi “fisiologici”, non può che rappresentare una strategia di sviluppo culturale sociale ed economico, che andrebbe sostenuta e valorizzata attraverso l’educazione delle giovani generazioni, che fin dalla infanzia si trovano a contatto con i figli degli immigrati e che questi costituiscono oggi[39] circa il 10% di tutta la popolazione scolastica.
Una risposta più concreta è arrivata dall’UE nel maggio del 2015 con l’Agenda Europea sulla Migrazione.[40]
Tale agenda si fonda su quattro pilastri: 1) Ridurre gli incentivi per la migrazione irregolare; Salvare vite e garantire le frontiere esterne; 3) Rafforzare la politica comune in materia di asilo; 4) Lo sviluppo di una nuova politica in materia di migrazione legale. È evidente che lo sforzo comune messo in atto dall’UE, dettato dalla tragica dimensione umana del fenomeno, dalla dimensione strategica della sicurezza internazionale, e dalla dimensione più tradizionalmente economico-demografica avrà ripercussioni sugli interventi nazionali futuri, per i quali ci si auspica una nuove e più forte collaborazione a livello comunitario ed internazionale.
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[7] Eurostat, Population 2014, Lussemburgo, 2014.
[8] L. Carpi, Delle colonie e dell’emigrazione d’ italiani all’estero sotto l’aspetto dell’industria, commercio, agricoltura e con trattazione di importanti questioni sociali, Milano, Editrice Lombarda, 1874, p.24.
[9] E. Franzina, La storia altrove. Crisi nazionali e crisi regionali nelle moderne migrazioni di massa, Verona, Cierre, 1998, p.66.
[10] J.R.Hick, The theory of wages, London, 1932, p.76.
[11] J. Mincer, „Family migration decisions”, Journal of Political Economy, n. 87 (1978): 749-773, p.758.
[12] F.Macola, L’Europa alla conquista dell’America Latina, Venezia, Ongania, 1894, p.93.
[13] L. Incisa di Camerana, Il grande esodo, Milano, Corbaccio, 2003.
[14] Ministero degli Affari Esteri, Aspetti e problemi dell’emigrazione italiana all’estero nel 1981, Roma, 1982.
[15] G. Marotta, Immigrati: devianza e controllo sociale, Padova, Cedam, 1995.
[16] L. Di Liegro, L’immigrazione come questione politica, Immigrazione dossier statistico. Roma, Caritas, 1995.
[17] www.bbc.com. Merkel says German multicultural society has failed. 17.10.2010. http://www.census.gov/popclock/ (ultimo accesso 24 giugno 2015).
[18] A. Giddens, Potente e turbolenta, Milano, il Saggiatore, 2014, p.133.
[19] Ibidem.
[20] Idem, L’Europa nell’età globale, Bari, Laterza, 2007, p.143.
[21] W. Kymlicka, „Immigration, Citizenship, Multiculturalism”, The political Quarterly, n. 74, 2003, pp.195-208.
[22] A. Giddens, L’Europa nell’età globale, op.cit, p.144.
[23] C. Taylor, Multiculturalism: Examining the Politics of Recognoition. Princeton, Princeton University press, 1994.
[24] C. Laborde, „From Constitutional to Civic Patriotism”, British Journal of Political Science, n. 32, 2002, pp. 591-612.
[25] D. Goodhart, „Too Diverse?”, Prospect Magazine, 20 febbraio, 2014.
[26] T. Sarrazin, Deutschland schafftsichab, Munchen, Deutsche Verlags – Anstalt, 2010.
[27] A. Giddens, Potente e turbolenta, op.cit., p.139.
[28] Z. Bauman, Intervista sull’identità, Bari, Laterza, 2003.
[29] M. Nussbaum, Coltivare l’umanità, Roma, Carocci, 2011, p.336.
[30] M. Ambrosini, „ Integrazione e multiculturalismo: una dicotomia superata”, in Rossi G., a cura di, Quali politiche per l’integrazione nell’Italia del XXI secolo?, Milano, Led., 2008.
[31] V. Cesareo V. , L’immigrazione in Italia: nuovi scenari e nuove strategie, Libertà Civili, 2013, p.44.
[32] Ibidem, p.43
[33] M. Ambrosini, Il multiculturalismo è finito?, Aggiornamenti Sociali, 2011, p.350.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem, p.352.
[36] UNAR, Dossier statistico immigrazione 2014, Roma, 2014.
[37] V. Cotesta, Conflitti etnici, violenza sociale e identità collettive. Dei delitti e delle pene, n.1, 1993, pp.37-51.
[38] M. Lipsky, „ Protest as a political resource”, American political science review, n. 62, 1964, pp.1144-1158.
[39] UNAR, Dossier statistico immigrazione 2014, op.cit.
[40] EU, „Communication from the Commission to the European parliament, the Council, the European economic and social committee and the Committee of the regions. A european agenda on migration”, 2015. COM (2015) 240, 13.5.2015