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Il revival dei confini: una crisi di identità (o di crescita) dei princìpi democratici
The “revival of the borders”: an identity crisis of democratic principles
Ivan SCARCELLI
Abstract. In different parts of the world we notice a kind of revival of the borders, that turn into walls even after the condemnation proclaimed against the latter at the time of the most famous Wall: the Berlin Wall. Behind the walls, the stereotyped image of the Enemy resurfaces, and Carl Schmitt’s thought about the connection between sovereign space and nomos becomes topical again. This thought is intertwined with the increasingly topical reflection on the intricate and contradictory relation between sovereignty and democracy. In this resumption of the relation between sovereignty and (armored) borders, the greatest dilemma is indeed the participation of the democracies in this process – first the Usa. In order to overcome its identity crisis, perhaps democracy has to become aware of the contradiction in which it works, so it can emancipate from its own history and from a notion of sovereign power that cannot do without the “enclosed space” in which it is located.
Keywords: borders, democracy, space, sovereignty, nomos
Confini e nemici
Il confine racchiude fisicamente, ma ancor più simbolicamente, l’universo di ciò che è (o prevediamo sia) familiare, noto, affine a noi. I confini, un tempo approssimativi, si sono fatti sempre più precisi, man mano che la razionalità moderna estendeva il suo campo d’azione, assieme e grazie al ruolo dello Stato – a sua volta frutto della razionalizzazione del “politico”.
Non è, in ogni caso, lo Stato moderno a generare l’idea di confine. Anche le organizzazioni sociali più elementari prevedono una distinzione fra territorio proprio (o abitato da gruppi e clan amici e alleati) e territorio di altri o di nessuno, nel quale è possibile imbattersi in persone o gruppi ostili o comunque sconosciuti (e potenzialmente nemici)[1].
Le società complesse, che si sono sviluppate articolandosi in città, hanno fortemente ridotto il ruolo del sospetto sistematico nei confronti dell’estraneo, consentendo la convivenza pacifica, all’interno degli spazi urbani, di numerosi nuclei familiari di diversa provenienza, nonché di diversi gruppi sociali ed anche di differenti etnie, di differenti culti, ecc.
La complessità delle società moderne non ha tuttavia cancellato il concetto di confine: benché abbia reso possibile ridurre la distanza – sia fisica che sociale e psicologica – fra soggetti tra loro estranei (perché privi di legami di consanguineità, provenienza geografica, ecc.), ha continuato a far riferimento a un’idea di comunità legata a un territorio specifico e contraddistinta da caratteristiche condivise da tutti i suoi membri – come la lingua, la storia, le memorie collettive, gli usi, le leggi, le ricorrenze pubbliche, in molti casi anche il credo religioso.
Non può esservi – a tutt’oggi – uno Stato privo di confini: tutto ciò che esso rappresenta e garantisce, nonché le caratteristiche che gli vengono conferite dalla sua Costituzione, hanno senso e validità solo all’interno di uno spazio fisico delimitato; al di là dei confini comincia l’ignoto, comincia ciò che è Altro ed estraneo, ciò che essendo al di là del nostro orizzonte sfugge al nostro controllo – e che dunque sembra non appartenerci e non riguardarci.
Per chi vive nell’Europa odierna l’idea di confine non è più associata al timore dell’estraneo ostile, ovvero del Nemico (reale o potenziale); al di fuori dell’area europea, e più in generale di tradizione occidentale, il legame fra confine e ostilità sussiste però tuttora.
Abbiamo dunque fatto un’eccezione per l’Europa, ma dobbiamo subito attenuarne la portata: il recente aumento delle ondate migratorie nel Mediterraneo e attraverso i Balcani ha riattivato in effetti un’idea più antica di confine, come di una porta che si apre sull’enigma dell’Altro, che può attraversare quella porta un giorno, deciso a occupare il nostro territorio, portando leggi diverse, costumi sconosciuti e – questa la paura che serpeggia oggi in certi ambienti – trasformarci da “padroni” in “ospiti”, rovesciando i ruoli. L’ingresso in proporzioni massicce di persone provenienti da territori oltre confine richiama paure ancestrali, come quella del saccheggio, o anche non propriamente “antiche”, come quella dell’occupazione militare.
Il confine è l’orizzonte ultimo sino al quale si spinge ciò che per noi è certo e conosciuto; sebbene oggi, con la comunicazione che viaggia sul Web in tempo reale, i popoli vicini non siano più realmente degli sconosciuti o degli “oggetti misteriosi”, di fatto essi incarnano ciò che è Altro e diverso e che – per quanto possiamo sforzarci di documentarci – per il nostro immaginario resta un estraneo indecifrabile.
“Il Nemico è tornato, l’Invasore è di nuovo alle porte”. È come se il confine confermasse e riproducesse all’infinito i nostri timori. Con la caduta del Muro di Berlino avevamo pensato di festeggiare la fine delle divisioni nazionali ed etniche, l’avvio di una stagione che avrebbe portato a un’integrazione progressiva dei popoli: quel fluire dei berlinesi attraverso quel varco finalmente aperto simboleggiava la libertà di circolare, la possibilità di conoscersi reciprocamente abbattendo i residui di ostilità fra le popolazioni. Ma se un Muro cadeva, i confini rimanevano quasi ovunque al loro posto. Il Nemico che – disorientati nelle nostre convinzioni eterne – vedevamo scomparire quasi con un tratto di penna, non avrebbe tardato a reclamare di nuovo il proprio spazio e il proprio ruolo nel nostro immaginario. Sarebbe ricomparso semplicemente altrove, avrebbe cambiato volto.
Le frontiere si blindano
Il confine inteso in senso moderno, orizzonte e limite di uno Stato e della sua popolazione, assume l’aspetto di frontiera, fisicamente stabilita e militarmente presidiata. Se i confini antichi, meno dettagliati nella loro estensione geografica (ma non per questo assenti), lasciavano sussistere territori “di nessuno”, zone franche che restavano escluse dalla spartizione universale del globo, il moderno assetto politico del mondo ha cancellato questi residui di incertezza, facendo in modo di racchiudere entro frontiere ogni porzione dello spazio geografico a disposizione (neppure i mari e le acque restano del tutto esclusi da questo universale bisogno di attribuzione politica; di più: neppure i ghiacci dell’Antartide possono considerarsi esenti dalla presenza di frontiere politiche…).
Le frontiere a loro volta rinviano all’esistenza di patrie; e poiché difendere la frontiera significa difendere il “suolo patrio”, i rapporti fra Stati sono influenzati dallo sviluppo di una vera e propria “scienza delle frontiere”.
Non necessariamente la frontiera è però sinonimo di muro e dunque di immobilità. Nell’immaginario politico statunitense, ad esempio, per lungo tempo la frontiera ha anzi rappresentato un orizzonte provvisorio, da superare, ovvero il luogo da cui ripartire ogni volta per affrontare nuovi spazi sfidando le incognite rispetto alle quali di solito il confine funge da simbolica barriera protettiva.
È singolare, e insieme significativo, perciò, che gli Stati Uniti appaiano invece oggi una nazione che tende a riassimilare la frontiera al muro, anche in senso letterale. L’idea di frontiera – questo sembrano suggerirci proprio gli attuali sviluppi delle culture politiche nazionali – è in effetti soggetta a mutamenti e anche a capovolgimenti di senso, al punto di rappresentare una cartina di tornasole del grado di coerenza del discorso pubblico e dell’azione politica (nonché dei comportamenti collettivi), che si può misurare comparando, per un dato Paese e in un determinato momento, i princìpi fondamentali e i valori che caratterizzano la sua cultura politica, da un lato, e gli interessi contingenti o le paure diffuse, dall’altro.
Il Sogno Americano, che implicava la garanzia di offrire a ciascuno una uguale chance di affermazione personale e professionale, a prescindere dalla provenienza (e quindi dalle radici etniche, culturali, religiose, ecc.) degli individui, era coerente con un’idea di frontiera mobile, destinata a spostarsi sempre più in là, includendo sempre maggiori spazi, territori, opportunità; a ciò si legava un’idea di accoglienza potenzialmente universale, che però nei fatti ha progressivamente ristretto il proprio significato e il proprio orizzonte di applicazione – e questo perché la frontiera ha finito per cristallizzarsi, caratterizzandosi per la sua immobilità, sino a dover assumere le sembianze fisiche di un Muro (quello al confine con il Messico[2]).
L’altra grande incoerenza della politica democratica oggi richiama anche la storia di un altro Muro, forse quello più celebre della storia contemporanea, ovvero il Muro di Berlino. Quest’ultimo, com’è noto, venne progettato e costruito per delimitare lo spazio politico di Berlino Est, capitale della DDR, e insieme per separarlo non solo fisicamente, ma anche simbolicamente, dalla Berlino occidentale e capitalista. Il suo scopo non era però soltanto quello di delimitare e separare uno spazio bensì, ancor di più, quello di contenere – sino ad annientarlo – il flusso di cittadini della DDR che si riversava a Berlino Ovest per fuggire dalla condizione di “comunista coatto” e chiedere asilo politico. Il Muro di Berlino ha dunque rappresentato più di altri, nel mondo contemporaneo, la frontiera che contiene, la frontiera-barriera che impedisce il libero passaggio di esseri umani: ma non è certo stato l’unico esempio di frontiera di tal genere (né allora né in séguito).
Coloro che contestavano l’esistenza del Muro, e che ne negavano la legittimità sotto il profilo politico, giuridico o semplicemente morale-umanitario, sottolineavano la condizione paradossale e inedita di una città unica ma divisa, vittima dunque delle “logiche di Yalta”, e soprattutto il fatto che il Muro fosse stato realizzato con atto unilaterale, ovvero dal governo della DDR, senza tener conto del parere del governo di Berlino Ovest e neppure – questione che appariva ancor più grave – del parere dei cittadini della Germania dell’Est: improvvisamente, col sorgere del Muro, la parte orientale di Berlino, come un grande giardino recintato, diventava in sostanza proprietà privata del governo della DDR, cittadini compresi.
Certo il Muro di Berlino serviva – soprattutto quale ammonimento simbolico – anche ad impedire ai cittadini occidentali di entrare senza permesso nel “giardino recintato” di Berlino Est, ma il suo scopo principale era quello di impedire ai cittadini della Germania Orientale di uscire liberamente dal “recinto”, fisico e politico, loro assegnato. Il Muro era insomma soprattutto la negazione di una libertà fondamentale delle persone, ovvero la libertà di movimento, che – quel caso lo dimostrava esemplarmente – è intimamente connessa alla libertà di scelta: coloro che lottavano per l’abbattimento del Muro non mancavano di evidenziarlo.
Come sappiamo, il Muro di Berlino ha poi cessato di funzionare: in parte abbattuto, è oggi la testimonianza di un periodo della storia europea. La “fine” di un Muro non è stata però la fine dei muri: superato il Muro di Berlino, nuovi muri sono stati edificati lungo altre frontiere, peraltro da Paesi che ufficialmente si battevano (per le ragioni sommariamente descritte) contro il Muro più celebre del XX secolo.
Se – come sostiene Wendy Brown – i muri «trasformano psichicamente, socialmente e politicamente un sistema di vita protetto in un rinchiudersi e trincerarsi», il Muro di Berlino «– […] che i paladini della politica delle fortificazioni prendono a riferimento con le sue funzioni di imprigionamento per sottolineare le più edificanti funzioni dei muri odierni votati a proteggere società libere – non è poi così diverso, come questi paladini vorrebbero far credere, dai muri del ventunesimo secolo»[3].
In realtà oggi i muri di frontiera prosperano più di prima, e mentre ci si accinge ad analizzarne il senso, a parlarne, altri muri vengono annunciati, progettati, realizzati. Sotto questo profilo, il XXI secolo sembra più “fecondo” del precedente.
Brown, la studiosa statunitense appena citata, si richiama alle analisi di uno storico tedesco, Greg Egighian, che in un saggio significativamente intitolato Homo Munitus (che alla lettera è il cittadino odierno “fortificato”, protetto dalle barriere reali e simboliche del proprio Stato) traccia incidentalmente un quadro del discorso politico attuale delle nazioni mettendo in luce gli effetti prodotti nelle due Germanie proprio dalla presenza del famigerato Muro[4]. I muri da un lato producono una collettività ripiegata su se stessa, una nazione incline a conformismo e fantasie paranoiche, e dall’altro – e di conseguenza – producono proprio il tipo di soggetti che in teoria si propongono di respingere: i muri in definitiva «plasmano il contenuto delle nazioni barricate»[5], trasformano i modi di vita, il discorso pubblico, le aspettative dei singoli e dei gruppi, l’agenda politica. Essi «non possono dare sicurezza senza fare dell’ossessione securitaria un sistema di vita, non possono definire un “loro” esterno senza produrre un “noi” reazionario, per quanto minino il fondamento stesso di questa distinzione»[6].
I muri attuali sono – come si accennava – il risultato tangibile di una incoerenza, o meglio di una contraddizione, laddove si associano a ordinamenti democratici: proprio gli Stati che riconoscono la necessità di estendere i diritti delle persone sembrano ora propensi a delimitare, demarcare il loro raggio d’azione territoriale e a contenere i flussi di persone. Ciò che un tempo (non molto lontano) appariva caratteristica precipua di regimi autocratici e specialmente comunisti – delimitare, separare, contenere – oggi diventa linea d’azione e tendenza di pensiero delle democrazie.
Alcuni studiosi attribuiscono questo “nuovo corso” delle democrazie occidentali alle trasformazioni subite dagli Stati, ridotti ad essere sempre più semplici “amministratori locali” di fenomeni e regole globali. I “nuovi muri” hanno – come qualcuno ha messo in luce – una funzione eminentemente scenica, di rassicurazione: sono lo strumento col quale i governi e i leader politici si rivolgono ai cittadini – disorientati da processi politici che appaiono sempre meno governabili – dicendo loro: “Stiamo facendo qualcosa, vedete?”
E, si potrebbe aggiungere, essi sono anche un formidabile “gadget dell’immaginario” a disposizione del marketing elettorale, grazie al quale taluni movimenti politici raccolgono (crescenti) consensi.
Se valutati in termini di efficacia reale, i muri rappresentano in effetti una soluzione illusoria – o per meglio dire, puramente “immaginaria”: W. Brown evidenzia ad esempio che, in riferimento alla barriera fra Stati Uniti e Messico, «Le dichiarazioni di “successo” si riferiscono solo alla diminuzione degli attraversamenti clandestini e delle catture nelle aree urbane, non all’immigrazione illegale e all’incidenza del contrabbando di droga in generale»[7]. Il vero effetto di quel muro è consistito nel costringere i trafficanti a elaborare strategie più sofisticate e nell’«estensione della violenza e della criminalità nelle zone di confine, finendo per interessare anche luoghi remoti che in precedenza erano pacifici»; esso ha inoltre fatto salire il numero di decessi fra i migranti e il «tasso dell’immigrazione permanente rispetto a quella temporanea»[8].
I muri tendono oggi a ridare sostanza all’immagine degli Stati-nazione come recinti sacri, in una stagione nella quale essi fanno fatica a presentarsi come produttori o garanti di certezze condivise. È evidente che quel che avviene al di là della frontiera – data la crescente interconnessione economica, tecnologica e anche culturale tra le nazioni – non è più realmente estraneo rispetto a ciò che si presenta entro l’orizzonte delimitato dalla frontiera; ciò che si sottrae al nostro controllo, l’Altro che non (ri)conosciamo, in realtà è rilevante per noi: le sue azioni hanno ripercussioni al di qua della frontiera. Sicché quest’ultima non ci mette più al riparo dal mondo dell’Altro, dell’estraneo; la sua barriera è sempre più virtuale, immaginaria, inefficace, ridotta com’è a simbolo di un confine.
In realtà, per lo stesso fenomeno del progressivo intensificarsi del grado di “connessione globale” (degli eventi economici, tecnologici, ecc.), è vero anche il contrario: ciò che avviene al di qua della frontiera si ripercuote in qualche misura anche al di là – ma questo effetto è di solito, per l’osservatore medio nazionale, meno importante, sotto il profilo politico e psicologico.
Vi è chi ha mostrato che la drastica diminuzione della rilevanza delle frontiere è dovuta al progressivo autonomizzarsi della sfera dell’economico, non più sottoposta, se non per ciò che attiene alla mera “gestione dell’esistente” (utilizzo delle entrate fiscali, ridimensionamento delle spese pubbliche, eventuali politiche redistributive, ecc.), al governo degli Stati e dunque del “politico”. L’Altro che ci condiziona nonostante le frontiere è soprattutto questo nuovo “assetto” dei rapporti economici globali.
Come nota W. Brown, «Solo il capitale sembra essere perpetuo e assoluto, sempre più irresponsabile e selvaggio, origine di ogni comando eppure fuori dalla portata del nomos»[9]. Questo tipo di capitalismo, potremmo aggiungere, assume oggi la forma di un “imperativo naturale”, al quale tutti debbono piegarsi, è – o meglio, si presenta come – una “cieca legge di natura” che non si può condizionare con mezzi ordinari (leggi, regolamenti, costituzioni, ecc.) e alla quale è vano resistere. Perciò esso «produce vita, ma toglie le misure di protezione e i legami di appartenenza […]. Crea (o annulla) le condizioni di vita di tutti gli esseri senzienti ma non risponde a nessuna sovranità politica. Vanifica e irride i tentativi che comunità nazionali e subnazionali compiono per costruire un proprio sistema di vita o per decidere del proprio destino, rendendoli simili a quelli delle comunità di sudditi in epoca feudale, all’alba dell’età moderna»[10].
Gli Stati, nonostante i loro attributi di sovranità, non possono determinare il proprio destino, perché unico arbitro dei destini generali è questa “forza cieca” del capitale “liberato” e capace di assumere l’intero globo come orizzonte della propria azione.
Per comprendere le coordinate dell’attuale apparente eclissi della sovranità statuale, è necessario interrogarsi tanto sul rapporto fra nomos e spazio quanto sulla relazione fra democrazia e sovranità. E per impostare la riflessione in merito, come suggerisce Wendy Brown, è utile prendere spunto da alcune considerazioni di Carl Schmitt.
Sovranità, spazio, democrazia
Secondo la ricostruzione formulata da Schmitt, il termine nomos, lungi dal denotare genericamente ed estensivamente la “legge” o la “norma”, fa riferimento a una dimensione essenzialmente spaziale del diritto: con il termine nomos si evoca in sostanza l’idea di un ordine politico inscindibilmente legato allo spazio fisico e geografico della sua esistenza e validità[11]. È nel cuore dell’antichità, nella fase cruciale della formazione della cultura civile greca, che si manifesta la consapevolezza che ordine politico e spazialità sono concetti non separabili, asserisce Schmitt: e del resto la legge, intesa come nomos, separa, divide irrimediabilmente ciò che è “dentro” (ciò che è interno all’ordine sancito da un determinato nomos) da ciò che è “fuori”. Non vi può essere ordine né pace in una comunità se non viene fisicamente e simbolicamente segnato il confine della enclosure, lo spazio chiuso in cui il nomos può avere efficacia. Addirittura Schmitt accosta il concetto di nomos all’idea di muro, perché quest’ultimo si associa al concetto di luogo recintato sacrale[12].
Per ciò che si è detto, la sovranità, l’attributo che più di ogni altro fa di ciascuno Stato un’entità autonoma che come tale può darsi liberamente (ovvero senza subire condizionamenti esterni) un ordinamento, un nomos specifico, non può pensarsi che in relazione ad uno spazio chiuso, ad una specifica enclosure. Dunque la sovranità, benché originaria per sua stessa natura, deve sottostare a una precisa condizione – condizione necessaria e preliminare affinché possa sussistere: la delimitazione di uno spazio, la creazione di una enclosure.
Non bisogna pensare però che la delimitazione dello spazio comporti necessariamente uno svantaggio, sotto il profilo del rapporto fra Stato sovrano e spazio esterno: al di là del confine, poiché la legge ordinaria (stabilita dallo Stato sovrano) non ha più effetto e le garanzie ad essa connesse scompaiono, è ammesso l’uso pieno e illimitato della forza e qualsiasi violenza è giustificabile.
È in questo aspetto connesso all’idea stessa di “potere sovrano” degli Stati che – fa notare Schmitt – trova il proprio fondamento l’ideologia colonialista che impregna di sé l’Europa e l’Occidente per molto tempo[13]. «Se seguiamo la teoria di Schmitt sulla relazione tra recinzione e nomos, ciò che è “beyond the pale” [al di là della palizzata] è incivile in due sensi, diversi ma politicamente correlati: indica il punto in cui finisce la civiltà, ma anche il luogo in cui la brutalità civilizzata è ammessa, dove la violenza può essere esercitata liberamente e legittimamente.»[14]
La “palizzata”, che non necessariamente è fisica (può essere anche immaginaria), è la barriera che idealmente segnala la presenza e la localizzazione di ciò che è irriducibilmente “estraneo alla civiltà” e in quanto “non civile”, non meritevole di considerazione, semplice preda da assoggettare ad ogni costo. Non esiste dunque un ordine sovrano, un nomos, che preveda l’inclusione potenziale di ogni soggetto e che si giustifichi a prescindere da una qualche forma di distinzione fra “esterno” e “interno”; il confine può essere spostato (stabilmente o transitoriamente) ad esempio fino ad includere nel proprio “spazio interno” – come nella vicenda del colonialismo – tutti i membri del “club” degli Stati colonizzatori, ma non può essere eliminato.
Come l’esperienza del colonialismo insegna, inoltre, la frontiera che delimita lo spazio del nomos “civilizzato” stabilisce anche una gerarchia fra persone: coloro che sono al di fuori di quello spazio non sono considerati pari rispetto a chi proviene dal recinto sacro del nomos, bensì assoggettabili[15]; non possono rivendicare la protezione del nomos “superiore” e dei diritti che questo attribuisce, se non nei limiti unilateralmente fissati dai “conquistatori”. La sovranità qui diventa asimmetrica: chi è estraneo allo spazio del “nomos civilizzato” non ha diritto di stabilire e tracciare i confini di un proprio nomos e di porre quindi le condizioni per dar vita alla propria sovranità.
Per lungo tempo la sovranità – nonostante si presenti in astratto fin dall’inizio come un concetto universale, applicabile in qualunque parte del mondo – è uno strumento di dominio che gli europei riservano a sé stessi, perlomeno nell’àmbito geografico che riescono a controllare: non vi può essere entità sovrana che non sia ammessa e riconosciuta da coloro (il circolo ristretto delle “grandi potenze”) che si ritengono depositari del “giusto concetto” di sovranità.
I Paesi colonizzati o “colonizzabili”, in questa fase, non possono attribuirsi un nomos (riconosciuto come tale dalle “potenze civili”) e non potrebbero dunque, con atto simmetrico rispetto a quello degli europei, tracciare i confini di un proprio recinto escludente.
Ma anche nel momento in cui la contraddizione rappresentata da questa asimmetria è stata superata[16], la sovranità “recintata” degli Stati continua a proporre interrogativi. Si torna perciò alle coordinate del rapporto nomos-spazio-sovranità esaminate in partenza.
Se la ricostruzione storico-filologica dell’origine e del senso del termine nomos che Schmitt propone può essere discutibile, ben più fondata è la constatazione che egli fa in merito al legame inscindibile fra spazio (chiuso) e sovranità: se quest’ultima non può sussistere in assenza di una delimitazione dello spazio e dipende in definitiva da questo atto di simbolica recinzione, si pone «un problema cruciale per i paladini della cittadinanza globale o della democrazia senza frontiere: come può darsi una forma di governo senza confini?»[17]
Probabilmente la difficoltà di conciliare il concetto di democrazia (di per sé fondato sul pluralismo delle opzioni di vita, delle concezioni morali e ideali, ecc.) con l’idea di una frontiera che chiude e preclude il passaggio e il contatto – segnando l’orizzonte ultimo del nomos – deriva da una difficoltà ancor più radicale, ovvero quella di tenere insieme democrazia e sovranità.
Se pensiamo ai processi storici di democratizzazione registrati nell’epoca moderna in Occidente, ci risulta impossibile separare il risultato di quei processi – l’attuale democrazia inclusiva e pluralista – dagli Stati nazionali nei quali essi si sono realizzati; ma lo Stato nazionale a sua volta è impensabile senza il concetto di sovranità. E tuttavia, ad un’attenta riflessione, «è quasi impossibile conciliare le caratteristiche classiche della sovranità – un potere che è non solo fondativo e irrevocabile, ma anche duraturo e indivisibile, autorevole e capace di ispirare timore reverenziale, dotato di decisione e al di sopra della legge – con i requisiti del governo del demos»[18].
Si potrebbe dire che le condizioni che rendono storicamente e praticamente possibile l’affermarsi delle democrazie risultano in contraddizione con il fine politico e istituzionale proprio delle democrazie medesime: pur partendo da un altro punto di vista, ed esponendo la questione in termini diversi[19], è quanto Robert Dahl in fondo rileva quando, indicando il percorso “virtuoso” e più sicuro per giungere ad una poliarchia stabile, antepone la fase della “liberalizzazione” della competizione politica a quella della “partecipazione e inclusione”[20]. Prendendo spunto dalla ricostruzione di Dahl, possiamo rilevare come risulti necessario, per costruire una democrazia stabile (non soggetta al rischio di involuzioni autoritarie), in primo luogo addomesticare i processi decisionali dello Stato-nazione, immettendo progressivamente nelle sue prassi e nelle sue norme l’idea che la funzione di governo possa essere attribuita a diverse élite dirigenti che si alternano sulla base di una “scelta fra pari”, e solo in un secondo tempo – una volta che la funzione di governo, ovvero quella che più di altre incarna la sovranità dello Stato, è stata messa al sicuro grazie alla comprovata capacità di élite che si alternano in “leale competizione” – si può procedere all’allargamento del suffragio e alla diffusione “capillare” nella popolazione dei diritti politici e sociali.
Tuttavia la stabilità che si ottiene con questo processo non cancella la contraddizione alla quale si accennava, anzi ne illustra forse l’origine. La democrazia, in sostanza, si afferma soltanto dopo che il processo di State building si è compiuto, ovvero dopo che un potere statuale, e le istituzioni che lo incarnano, si è consolidato con il concorso determinante del principio di sovranità. Le rivendicazioni democratiche storicamente si affacciano sulla scena dello Stato quando questo si è già costituzionalizzato e ha accettato i princìpi del governo liberale; se oggi è talvolta possibile – ma alquanto rischioso, secondo taluni studi – democratizzare un Paese mettendo in moto contemporaneamente i processi di “liberalizzazione” della competizione politica e di “inclusione e partecipazione” delle masse (la “scorciatoia” verso la poliarchia, per riprendere lo schema di Dahl) è perché i princìpi dello Stato di diritto liberale non suonano più come una “novità eretica”, a più di due secoli di distanza dalle rivoluzioni settecentesche. Ciononostante – secondo l’opinione maggiormente diffusa tra gli studiosi – i princìpi dello Stato di diritto costituiscono comunque una condizione imprescindibile per l’instaurazione della democrazia; difficilmente si è disposti a ribaltare, anche solo come pura ipotesi, tale sequenza logica, facendo della democrazia un prius.
Il ricorso al concetto di sovranità, nel discorso pubblico, rivela spesso la sua ambivalenza – affonda le sue radici nell’idea di libertà e di autonomia dei popoli, ma rinvia all’immagine di un potere enorme e solitario, come il Leviatano di Hobbes – ed è sintomatico che “sovranità” o “potere sovrano” siano espressioni alle quali si ricorre talora per attenuare o contenere proprio le pratiche democratiche (basti pensare al feticcio della “governabilità” e a ciò che esso implica). Le contraddizioni che attraversano la sovranità[21] si ripropongono, di riflesso, nell’idea di “sovranità popolare” che permea la democrazia; ma qui, come si accennava, la contraddizione si ingigantisce, poiché è la compresenza di potere sovrano e democrazia che è in sé problematica.
Se, come si è detto, lo Stato, in quanto sovrano, è uno spazio chiuso, la democrazia, nella sua essenza, è abbattimento di barriere, insofferenza per gli spazi preclusi e recintati, rimescolamento di centro e periferia. Il processo storico ha prodotto il legame tra Stato-nazione sovrano e democrazia, e per superare questo legame, superando al tempo stesso una contraddizione sempre più lacerante, quest’ultima dovrebbe emanciparsi dalla storia e dai suoi retaggi. La democrazia, insomma, per affermare compiutamente se stessa, deve separarsi idealmente dalla propria origine contingente[22].
Tra tutti gli ordinamenti politici, la democrazia è in effetti quello che può maggiormente rivendicare un’autonomia originaria e costitutiva rispetto alla presunta “autorità delle tradizioni”: essa non può coincidere senza residui con il percorso storico nella quale emerge, perché lo eccede per la sua stessa missione politica; non recepisce passivamente ciò che è “tramandato” dalle generazioni passate e non fa scaturire l’autorità dalla presunta autorevolezza del passato. Liberarsi dal condizionamento dell’origine (e dall’idea che quest’ultima coincida in definitiva con l’essenza) è dunque un compito sempre possibile per la democrazia, anche laddove sembra essere stato accantonato (forse perché dato frettolosamente per non più urgente né necessario). Non si tratta però di un processo lineare, né si può pensare che basti agire per decreto o enfatizzare la buona volontà dei “giusti” per ricomporre il dissidio fra lo spirito della democrazia e la sua traduzione pratica in termini di Stato sovrano chiuso in se stesso.
D’altronde, un ordinamento democratico non può – se non generando un’altra contraddizione – scegliere come e in quale direzione incamminarsi prescindendo dal consenso dei cittadini e dei “governati” in genere. La democrazia è ancorata alla propria origine – ovvero al Leviatano nel corpo del quale si è adattata a crescere – anche in virtù di ciò che da quella origine ha ereditato, ossia il patto hobbesiano “obbedienza in cambio di protezione” (e viceversa) che i cittadini stessi contribuiscono a mantenere in vita. Se per ridar vigore all’immagine di una sovranità in affanno nella sua pretesa assolutezza (in quanto sfidata dai mercati “globali”, da problemi transnazionali come quello del clima, da conflitti potenziali o in atto, a loro volta sempre più “transnazionali”, ecc.) gli Stati alimentano il ricorso a barriere fisiche e visibili di protezione, come le frontiere blindate o i muri, i cittadini d’altro canto chiedono agli Stati di essere rassicurati e protetti: ovvero chiedono al Leviatano di manifestare ancora la sua potenza in maniera visibile. Possono variare le modalità scelte di volta in volta dai governi per manifestare la presenza dello “Stato-protezione” (non tutti ricorreranno ai muri, ad es.), ma lo Stato in quanto “potenza” rassicurante compare in tutte le opzioni politiche praticate dai governi medesimi.
Pur nella sua problematica complessità, e con i limiti che sta rivelando, l’Unione Europea rappresenta anche (non solo, ma anche, essendo un esperimento politico che ha molte sfaccettature) un tentativo di attenuare la forza del legame fra la democrazia e la propria origine contingente, dimostrando nella prassi che il Leviatano non può essere l’unico tutore dell’ordinamento democratico (e dello Stato di diritto): anzi è esso stesso oggetto di osservazione e di controllo, dunque un “tutore sotto sorveglianza”[23]. L’abbattimento delle frontiere interne all’Unione ha rappresentato uno strumento formativo valido ed efficace più di qualsiasi esortazione morale o di qualsiasi sermone “ideologico” o istituzionale per mutare la coscienza politica dei cittadini (specialmente dei giovani) e i suoi valori di riferimento. Può essere perciò un punto di partenza ideale per il percorso di emancipazione della democrazia dal condizionamento della sua origine, a patto che si comprenda il suo reale valore (e si evitino le sopravvalutazioni semplicistiche e retoriche), ovvero anche i suoi limiti e i problemi che può generare (affinché li si affronti tempestivamente).
Superare la rigidità delle frontiere, come l’Unione Europea ha provato a fare, significa anche attenuare la distanza fra il “centro” e le “periferie” (fisiche e sociali) di un territorio – compito essenziale per la democrazia – e accantonare l’idea del pale, della palizzata che distingue inesorabilmente il “centro” recintato, all’interno del quale vigono diritti e garanzie, da ciò che è ritenuto “esterno”, ma anche estraneo, periferico, marginale e perciò indegno di tutele o persino di considerazione morale. Laddove c’è una “palizzata” politica, anche solo immaginaria, infatti, chi si trova idealmente o fisicamente all’esterno è escluso dalla relazione diretta col “centro”, appartiene d’ufficio alla “periferia” non toccata dalla “civilizzazione” e di conseguenza – riferendoci alla terminologia kantiana – può essere trattato anche solo come un mezzo: l’imperativo morale che contraddistingue l’umano, grazie alla semplice presenza di una recinzione, perde il suo carattere di universalità[24] e nella prassi viene applicato integralmente solo nel “centro”, come pura conseguenza del rapporto di mutuo riconoscimento fra uno Stato e i propri cittadini.
Certo, proprio i processi posti in atto dall’Unione Europea hanno evidenziato come l’abbattimento di alcune frontiere – passo di per sé non facile – possa generare di riflesso e quasi per compensazione una crescita di rilevanza di altre frontiere: le cosiddette “frontiere esterne” ora si fanno carico di rappresentare l’equivalente di ciò che precedentemente era considerato il “perimetro sacro” dei vari Stati europei. L’immaginario prodotto dagli Stati-nazione – a sua volta condizionato in parte da esperienze storico-politiche precedenti – non può essere, come già si accennava, cancellato per decreto; tuttavia l’esperimento dell’Unione Europea, depurato dei suoi aspetti più problematici, costituisce un tentativo inedito e promettente.
Poiché i percorsi politici non sono frutto di semplici e imperative “necessità” della Storia, anche le occasioni migliori possono correre il rischio di finire sprecate. Il momento presente non si sottrae alla validità di questa constatazione, anzi sembra confermarla in maniera fin troppo evidente.
Bibliografia
BROWN, Wendy, Stati murati, sovranità in declino (2010), ed. it. a cura di F. Giardini, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013.
BETTS, Paul, PENCE, Katherine, (a cura di), Socialist Modern: East German Everyday Culture and Politics, University of Michigan Press, Ann Arbor, 2008.
DAHL, Robert A., Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici (1971), F. Angeli, Milano 1990.
DIAMOND, Jared , Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, trad. it. di A. Rusconi, Einaudi, Torino, 2013.
SCHMITT, Carl, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum” [1950], trad. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano, 1991.
Note
[1]Sull’esistenza dei confini e l’immagine del nemico nelle società tradizionali, utili dati e riflessioni sono presenti nel fine saggio di J. Diamond, Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, trad. it. di A. Rusconi, Einaudi, Torino, 2013 (si veda in particolare il cap. I, “Amici, nemici e forestieri”).
[2] Sulle implicazioni politiche di questo muro, si veda W. Brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), ed. it. a cura di F. Giardini, Editori Laterza, Roma-Bari 2013, cap. I, pp. 25 e segg. L’autrice sottolinea come tale muro non abbia in realtà influito significativamente sull’utilizzo «sempre più massiccio e disinvolto del lavoro degli immigrati clandestini» da parte dei datori di lavoro statunitensi: «Il progetto del muro è stato dunque la risultante di tensioni tra le esigenze del capitalismo americano, l’antagonismo popolare nei confronti dell’immigrazione sollecitata da quelle esigenze […] e le dimensioni demografiche e culturali che compongono, e per alcuni decompongono, la nazione» (Ibidem, p. 26).
[3] Ibidem, p. 34.
[4] Cfr. G. Egighian, Homo Munitus, in P. Betts – K. Pence (a cura di), Socialist Modern: East German Everyday Culture and Politics, University of Michigan Press, Ann Arbor 2008.
[5] W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, cit., p. 33.
[6] Ibidem, p. 34.
[7] Ibidem, p. 28.
[8] Ibidem, p. 29.
[9] Ibidem, p. 60.
[10] Ibidem, pp. 60-61.
[11] Sostiene Schmitt: «Nomos […] viene da nemein, una parola che significa tanto “dividere” quanto “pascolare” [Weiden]. Il nomos è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva. […] Nell’occupazione di terra, nella fondazione di una città o di una colonia si rende visibile il nomos con cui una tribù o un seguito o un popolo si fa stanziale, vale a dire si colloca storicamente e innalza una parte della terra a campo di forza di un ordinamento.» (C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum” [1950], trad. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59).
[12] Schmitt fa propria una considerazione di Jost Trier, il quale afferma: «In principio sta il recinto. Recinto, recinzione, confine determinano profondamente nei suoi concetti il mondo formato dagli uomini. La recinzione è ciò che produce il luogo sacro, sottraendolo al consueto, sottoponendolo alla sua propria legge, consegnandolo al divino» (J. Trier, Zaun und Mannring [1942], cit. in C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 65). Scrive inoltre Trier: «Ciò che il nomos è, lo è all’interno della propria cerchia recintata» (Ibidem). E l’autore di Teologia politica aggiunge a sua volta: «L’anello di recinzione, la cinta formata da uomini, il Mannring, sono forme originarie della comunità di culto, giuridica e politica» ( C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 65).
[13] Schmitt sottolinea l’importanza che, nella storia del nomos occidentale che egli traccia, assume la scoperta del Nuovo Mondo agli albori dell’età moderna. Di particolare rilievo, a suo giudizio, le cosiddette “linee d’amicizia” che vengono fissate da accordi tra le potenze coloniali già fra il XVI e il XVII secolo. La loro stessa esistenza dimostra che in quell’epoca era stato stabilito «il principio che i trattati, la pace e l’amicizia [concordati fra potenze europee] si riferiscono solo all’Europa, vale a dire al vecchio mondo, al territorio al di qua della linea» (Ibidem, p. 91). Al di là di queste linee, dove il diritto europeo non aveva più valore, «iniziava una zona “d’oltremare” dove, a causa della mancanza di ogni limitazione giuridica della guerra, valeva solo il diritto del più forte» (Ibidem, p. 92).
[14] W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, cit., p. 38. W. Brown rammenta (Ibidem): «In origine, il “pale”, un picchetto di legno usato per le palizzate, marcava il confine del territorio della colonia inglese in Irlanda. È significativo che questo territorio coloniale abbia finito per essere chiamato “The Pale”.»
[15] Carl Schmitt fa riferimento a Pascal, testimone di prim’ordine delle contraddizioni derivanti dalla creazione di una linea ideale che separa la “civiltà europea” dalle terre “assoggettabili”; quando Pascal scrive il celebre passo in cui commenta “Un méridien décide de la vérité”, secondo Schmitt ha in mente non tanto la varietà del diritto positivo alle diverse latitudini – considerazione che si presta a banali digressioni sul relativismo – quanto il fatto «che principi e popoli cristiani si fossero trovati d’accordo nel considerare come non esistente, per determinati spazi, la distinzione tra diritto e torto. Il meridiano di Pascal non è in realtà altro che il meridiano delle linee d’amicizia della sua epoca, che ha effettivamente aperto un abisso tra la libertà, ovvero l’assenza del diritto tipica dello stato di natura, e l’ambito di uno stato “civile” ordinato.» (C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 95).
[16] Almeno nella forma macroscopicamente evidente del colonialismo “classico”. Riguardo ad altre forme di “colonizzazione” più sofisticate, il discorso probabilmente è ancora aperto.
[17] W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, cit., p. 38.
[18] Ibidem, p. 43.
[19] Egli non parla apertamente di contraddizioni, anche se non nasconde le problematiche connesse ai processi di democratizzazione.
[20] Si veda R.A. Dahl, Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici (1971), F. Angeli, Milano, 1990.
[21] Wendy Brown elenca e analizza brevemente alcuni aspetti contraddittori o problematici della sovranità, fra cui: «1. Il termine sovranità indica sia il potere assoluto sia la libertà politica. 2. La sovranità genera l’ordine attraverso la subordinazione e la libertà attraverso l’autonomia. […] 5. La sovranità è segno dello Stato di diritto e della vigenza di un ordinamento giuridico, eppure li oltrepassa. […] è insieme origine ed eccedenza rispetto al giuridico. […] Ogni sua espressione è legge e senza legge.» (W. Brown, op. cit., pp. 47-48). Possiamo comunque rilevare che le contraddizioni della sovranità emergono proprio quando compare sulla scena la democrazia: nel momento nel quale la “libertà politica”, ad es., non si riferisce più alla libera volontà del sovrano (rispetto all’interferenza di autorità esterne), ovvero allo Stato-soggetto o Stato-apparato, bensì alla libertà di una moltitudine di persone (i cittadini e i “governati”), le implicazioni del concetto di sovranità appaiono nitidamente sotto la forma di una problematica “convivenza degli opposti”.
[22] Quando parliamo di “origine contingente”, ci riferiamo all’origine storica della democrazia “dei moderni”: la democrazia antica si pone al di fuori di questo discorso, poiché richiama un altro ordine di questioni (comunque non irrilevanti).
[23] In quest’ottica, il rifiuto dell’Unione Europea di farsi a sua volta Stato o super-Stato risulta motivato – anche se fonte di alcuni problemi, non ultimo dei quali il cosiddetto “deficit di democraticità” riscontrabile nei suoi processi decisionali e nella distribuzione dei poteri fra le sue massime istituzioni.
[24] E perciò viene svuotato di senso, falsato: il carattere universale di quella proposizione è un fondamento implicito del ragionamento, e se viene a cadere, l’imperativo stesso diventa qualcosa di profondamente diverso, anzi nega se stesso, viene piegato a dire l’opposto di ciò che, nella sua formulazione originaria, in realtà afferma.