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La questione del misticismo: l’accettazione d’una realtà sovrasensibile e di un raccoglimento interiore. Profili comparati tra buddhismo zen, shivaismo, sufismo e mistica cristiana
The trascendental reality’s acceptance and her interior meditation. A comparative approach to mysticism between Zen Buddhism, Shivaism, Sufism and Christian tradition
Gianfranco LONGO
Abstract. The mysticism’s problem begins when our knowledge of the world becomes search for the deep: the sorrow and the joy are the same moments of life, lived in a mirror in which to dwell. The kintsugi art is care and meditation about joy and sadness, about the past time and present moment where life and death have a common point that introduces us to the mystery of our beginning.
Keywords: God, Jesus, mysticism, sufi, kintsugi, man, life, startzy, Corano, mujahede, deep, consciousness, real, universal, sorrow.
Caratteri introduttivi
Il problema del misticismo si risolve nel contemperare due esigenze di tipo opposto: da un lato l’ineludibile constatazione di un varco esistente tra l’immanente e il trascendente e, dall’altro lato, la difficoltà nell’accettare, a causa della nostra realtà legata all’esperienza fenomenica, la presenza dello spirituale e di una vera e propria “consistenza intangibile” che percepiamo, non in base ai nostri sensi appunto, ma unicamente approfondendola mediante la meditazione e l’esperienza del raccoglimento, e che in ciò ci perviene completa nella sua evidenza.Meditazione e raccoglimento dunque sono gli inestricabili momenti in cui, quel tutto che si percepisce esclusivamente grazie ai nostri sensi, diviene constatazione di un profondo legato a noi stessi, e che tuttavia ci ritornadifficile da accogliere, poiché non dotato di quell’esperienza sensibile, ma intuito e percepito solo interiormente.
La contemplazione della ricostruzione: il kintsugi, estetica e misticismo zen
In Giappone,ad esempio, un vasellame, prezioso o significativo che si rompe, passa attraverso la tecnica del kintsugi (letteralmente “ricomporre con oro”) una tecnica di riparazione molto particolare, tramandata da tradizione zen, che nonmira a nascondere le linee di frattura dell’oggetto con un incollaggio perfetto e invisibile, piuttosto le stesse linee vengono rimarcate con una riparazione dettagliata: oro o argento fuso risaltano le fratture, e si direbbe che le esaltinosottolineando il motivo frastagliato della lesione, trasformando l’oggetto pertanto in una nuova opera, che non snatura la forma precedente, solo regala all’oggetto una cicatrice luminosa. Si tratta metaforicamente di quelle stesse cicatrici che noi uomini ci portiamo dentro, e che custodiamo come frutto della nostra esperienza materiale e spirituale insieme. Il principio del kintsugi infatti appare palesemente opposto a quello che anima tutti noi, quando comproviamo l’esperienza con la realtà dell’afflizione: frattura spirituale, pena morale, dolore fisico, colpa, vergogna, fallimento professionale, rovina umana, angoscia, lutto.
Ricolmando quella perdita ilkintsugiè come se ci dicesse: “La vita è integrità e lacerazione insieme. Quel vasellame ora in cocci ha una storia e diviene più bello. Il dolore insegna che sei vivo, il solco lasciato dal fallimento permette la valorizzazione dell’esperienza sensibile mediante la conoscenza di un legame più profondo, che raccoglie il discernimento della tua realtà da quella interiore che non si vede, ma che pulsa vivente in ognuno di noi. Per questo lo strappo si ricompone tramite una qualità, il coccio si unisce agli altri grazie ad oro e argento e il vasellame è ora addirittura più prezioso e pronto per continuare ad essere utile”.
La qualità del dolore e della pena si valorizza nella meditazione, e a tale meta appunto conduce a quanto si vuole intendere come misticismo, cioè esperienza di raccoglimento che coniuga immanente a trascendente, rendendo quest’ultimo vissuto e non un che di arcano, piuttosto conosciuto e riconosciuto credibile, non esoterico e sacerdotale, ma umano e rivelato, essoterico, comune a tutti perché possibile conoscenza valida ed efficace per chiunque.
Tale acquisizione però è verosimile unicamente quale frutto di un’esperienza, non solo sensibile, ma anche spirituale e di raccoglimento sul proprio dolore, affinché tutto ciò che si acquisisce come trascendente fortifichi la realtà sensibile e immanente.Nel kintsugi, anch’esso in-sé e per-sé esperienza, si afferma che quando qualcosa abbia subito una ferita,disvela una storia, ragion per cuidiventa più pregiato, sino ad essere raro e unico come ogni essere umano, portatore di una sua propria storia mistica, perché risultato di tanti cocci sparsi che sono stati riuniti nel crogiolo del dolore, forgiati infine come oro, tante crepe riunite dall’oro e dall’argento proprio del dolore.
Riferimenti a tal proposito sono molteplici e già noti: “Poiché egli conosce la mia condotta,se mi prova al crogiuolo, come oro puro io ne esco” (Gb, 23, 10); “Il crogiuolo è per l’argento e il forno per l’oro, ma chi prova i cuori è il Signore”, (Prv, 17, 3); e addirittura nel Siracide si legge: “Perché con il fuoco si prova l’oro, e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore” (Sir, 2, 5).
È tale tipo di esperienza vissuta pertanto che permette all’immanente di transitare al trascendente, percomprovarne la sua consistenza. Si perviene a ciò nel momento in cuila propriaconoscenza del dolore spezza il legame transitorio con la realtà, così compenetrandoci in una cognizione: è questo squarcio a rendere diverse e sempre più preziose le persone[1].
Tuttavia restituire belle e preziose le “persone” che hanno sofferto, assume un connotato che travalica la mera tecnica del kintsugi: questa tecnica si chiama amore, perché il dolore è stato parte della vita e perché grazie al dolore è possibile transitare alla salvezza, nella misura in cui la giustizia umana è stata ridimensionata dalla grazia cristiana. La dimensione peraltro di considerare l’esperienza mistica come un dolore intenso, ci permette di subordinare l’ordine delle cose e le aspettative connesse proprio con il fine di intuire la presenza, attraverso la rinuncia, la sconfitta, il fallimento, la malattia, di un segno che ci ha voluti, un segno di amore sino al gesto della morte.
Sofocle, nell’omonima tragedia, fa dire ad Elettra: “Costretta, chiusa fui/ orribilmente/ in orribili mali./ Oh sì questo furore/ mio non ignoro./ Ma finché vita mi tiene nella sventura mia non voglio/ porre fine all’affanno./ Chi mai potrà donarmi,/ o donne dilette,/ una parola consolante,/ un messaggio di gioia?/ Lasciatemi dunque,/ voi consolatrici./ Ché mai non finiranno/ questi mali per me,/ insolubili mali;/ mai avrà quiete il dolore,/ mai avrà fine il lamento”[2].
In tale lamentazione, quasi una geremiade, Elettra approfondisce il suo stesso dolore e ne vive il riscatto mediante il lamento: la catarsi dal male è provocata dall’agonia, dove il gemito, il pianto, diventano transiti all’essere-consapevoli del proprio destino per poterlo accettare e così guadagnarlo dal male, redimerlo appunto dal reale.
Nelle Trachinie, invece, una tragedia molto complessa, correlata al mistero del fato, cioè al non poter conoscere anteriormente quegli avvenimenti cui si attende e per i quali si spera ogni bene, Sofocle, immediatamente all’inizio, annuncia la tematica della vita e del suo stesso misticismo e senso misterico: “Esiste un detto tra gli uomini, antico/ e illuminato: non potrai conoscere/ mai di nessuno la vita mortale/ prima che lui muoia: né di chi l’ha buona/ né di chi l’ha cattiva./ Ed io, la mia,/ anche prima di scendere nell’Ade,/ pure già so che mi è di sventura e peso”[3].
È Deianira che parla, moglie di Eracle, ormai esule ed errante. Eppure in quella mestizia Deianira sprofonda nel misticismo che constata un esoterico e non rivelabile assoluto: quello della vita di ognuno, sconosciuta proprio perché ripetutamente considerata superficialmente già nota e conosciuta, e forse anche, troppe spesse volte, data per scontata, infine affatto resa preziosa dal quotidiano e che solo quel dolore, quella cicatrice e quel coccio saldato nel dolore, cioè vita forgiata nell’oro e nell’argento, impreziosiscono rendendola sacra a ognuno.
Ciononostante sfugge a Deianira l’istante del riscatto, obsoleto è il suo tempo perché il mistero sembra quasi esser stato relegato ad un segreto, posseduto dal dio e dal fato e resosi irrivelabile a lei. Deianira non comprende ancora che sarà proprio la sofferenza a liberarla da quel peso per farle accettare l’esistenza non come un imbroglio, ma come una storia.E questa storia è delle volte una parte grande, altre volte impercettibile della narrazione più ampia del dolore umano; ma in entrambi i casi, si tratta comunque di un tassello utile a coniugare il vasellame in frantumi a quel grande mosaico, di musica profonda, di grande gioco: lalīlayā[4], un concetto shivaita chein sanscrito può indicare sia il giocoche un ritorno insperato, sia labellezza che l’eleganza, ma anche la diversione e l’amabilità che si scoprono accomunate insieme in una tazza riparata, con tanta decisione e cura, sino a ri-farne opera d’arte.
La percezione del dolore e la rimessione mistica: il contenuto del mujahade sufista.
Considerando quindi come coccio che si frantuma, l’uomo si vede nella sua vita sorpassato dall’incertezza e dall’instabilità della sua sorte, ritrovando nell’esperienza del raccoglimento un punto di inizio per quanto non potrebbe spiegare né de-cifrare: ci si riferisce proprio al produrre una comprensione dal nulla, quel nulla (sifr, in arabo è lo zero) di cui si riveste il tempo, non percepito immediato e che potrebbe nella sua varia gamma di ipotesi e poi successivamente di vissuto (Erlebniss), lasciarci nuovamente ricostruiti e più preziosi, perché avremmo fatta ancora salda la vita. In fondo il dolore è momento mistico, perché traccia un segno inequivocabile ed ineludibile, assolutamente irripetibile in quella determinata e specifica condizione.
Si può faticare a fare pace con le nostre crepe, e le nascondiamo, non le valorizziamo. Meglio: agiamo per rimuoverle (meccanismo freudiano della Verdrängung), perché ci vergogniamo delle nostre cicatrici. In fondo non siamo atei, ma ateisti; non siamo più liberi, ma liberisti (proprio in senso economico), libertari, ponendo in tutto un che di agonistico, e così anche con le nostre ferite, accanendoci per nasconderle, mostrandoci intatti, apparendo pervicacemente, ma con stoltezza, privi di esperienza; siamo integristi, non integri, siamo cioè noiosi e mietuti da una cultura di morte e di indifferenza, affinché non appaiano le nostre ferite.
A volte ci è stato passato un po’ ovunque, anche in famiglia, il concetto di vergognarsi delle proprie pecche o cadute: non dire niente a nessuno renderebbe costretti ad una difesache non significa affatto lavoro sul proprio sé, come invece il mujahade nel sufismo descrive e che vuol significare andando a fondo del nostro dolore e della nostra consapevolezza con la vita.
Oggi, peraltro, la gran parte di noi occidentali può permettersi di condurre un’esistenza piena di sprechi. Ma in questo modo dimentichiamo che le nostre condizioni sono soggette al mutamento delle fluttuazioni e che potremmo non essere in grado di anticipare il momento in cui tutto cambierà: l’esempio della borsa cinese che fa tremare gli ingordi e gli Stati è cosa recentissima, e quel vento diverrà un uragano che ci travolgerà: saremo ormai troppo abituati a uno stile di vita dispendioso, per cui le uniche vie d’uscita potranno essere, sì una drastica riduzione del nostro tenore di vita, con le conseguenze di una bancarotta, ma soprattutto saremo ridotti al livello della barbarie, all’abominio della desolazione di cui parla il profeta Daniele[5], cioè avremo perso la speranza nell’essere divenuti disperati.
Eppure l’insieme della nostra cultura parte da una crepa, da un dolore, inizia con la ferita del costato di Cristo da cui sgorga acqua e sangue, rinnovando in quello stesso momento la nostra creazione[6]. Pertanto quando qualcosa abbia subito una spaccatura, quando un uomo subisce un dolore e una ferita, non si rottama, mostra invece di aver una storia rivelando la sua vita, affermando di aver vissuto, di essere stato presente fra noi, sopportando un carico terribile per farcela ed acquisire perciò… esperienza vissuta: questo perché poi un uomo, una donna, scavalcano l’immanente sempre con la forza di quella sofferenza che è amore per la loro stessa vita.
Ciò è accaduto alla Madre, Maria, Madre di Gesù; è accaduto al Figlio, Gesù, e suo figlio: quel dolore lancinante di madre per il proprio figlio condotto al patibolo e lì giustiziato, innocente, salva la nostra vita, riscatta la Creazione del Padre ed offre nel dolore, nella cicatrice, la Nuova Creazione[7]:lo stabat Maternon è lutto, è sacrificio che redime; è storia di un avvenimento, non di una narrazione fantastica, e per quante ferite e crepe possa avere quella vita, la nostra vita, esse sono sempre tenute insieme da un filo di oro, rinsaldate nel crogiuolo dall’oro di Cristo, cioè il suo sangue.
Non si tratta di una colla, ma dell’oro di Dio, il suo proprio sangue dato a noi per ricomporre le nostre ferite, le nostre crepe, i nostri fallimenti. E questi si vedono sì, ma fanno la storia di quell’uomo e di quella donna. Coloro che non mostrano nulla, sono i prototipi dei dittatori, dei falsi imborghesiti, degli ipocriti stessi, dei burocrati europei in doppiopetto che si scandalizzano all’arrivo di gente perseguitata dalla ferocia e dalla barbarie della guerra e che rifiutano il dolore dell’altro perché scomodo e fastidioso.
D’altronde l’esperienza mistica si incarna nella cura (la Sorge heideggeriana) dell’altro; solo in questo modo, infatti, la propria sofferenza comprende un’altrui dignità, senza divenirne estranea e senza rifiutarla per imborghesimento, o naturale grettezza di coloro che sfruttano inermi e religioni per accenderne un fuoco di lotta che in realtà sarebbe del tutto privo di fondamento ed assente: sia nell’Islam, come nel giudaismo o nel cristianesimo.
Nell’atto del mujahade sufista, peraltro, il lavorio sul proprio sé sicompenetra nell’accettazione del dolore altrui nella morte[8]; è proprio la fede che realizza la vita come un evento della grazia, perché se la fede muove il ritorno a Dio, quotidianamente, di certo non si può neppure dubitare come, a sua volta, sia la grazia di Dio ad imprimere alla vita dell’uomo la necessità della fede di fronte al mistero della sua vita.
E proprio Gesù, cioè la rivelazione di Dio nel tempo del mondo, soffre il mistero della necessità della salvezza del mondo attraverso quanto si oppone al potere politico, al dominio “semplice” del tiranno che saccheggia e umilia, infine attraverso quanto si oppone alla morte, cioè l’amore, quell’amore già narrato forte come la morte[9], ma che tuttavia necessita della morte per essere e per rivelarsi e per vivere, perché è in quell’istante in cui la vita soffre tale bisogno del mistero del suo proprio essere che la stessa vita, finalmente, risorge quale fulcro di pienezza della salvezza e diviene, la vita, evento nel mondo, contemporaneità assoluta nell’universo, senza inizio e senza fine.
Questo evento è appunto colto in un solo impercettibile istante, in cui Dio ha sofferto il mistero della sua necessità di oltrepassare l’apparente inaccessibile angoscia, al fine di vincerla a dispetto del pericolo della debolezza di essersi potuto rivelare politicamente, come capo per il dominio della storia e sul mondo. Piuttosto è nella salvezza del dolore che Gesù manifesta e dis-vela tutta la sua bellezza di essere Figlio di Dio, bellezza solo apparentemente e momentaneamente sconfitta dalla morte, bellezza però che risorge come amore di quella Vita che accade ancora nel tempo, perché memoria del mondo[10].
D’altronde, riflettendo sul mito di Er, narrato da Platone nel libro X de La Repubblica, non possiamo eludere la nostra attenzione da come ogni castigo possa essere temporaneo, tranne il castigo riservato ai tiranni, ai politici, al despota Ardieo che Platone nel mito ci racconta aver ucciso il proprio vecchio padre e il fratello maggiore e aver compiuto molte altre nefandezze pur di carpirne il regno.
Scrive Platone:
“Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si diceva, aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e si era macchiato di molte altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva risposto: ‘Non viene né potrebbe venir qui. Infatti tra gli altri orrendi spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso lo sbocco, lí lí per risalire e trovandoci ad aver subíto tutte le altre prove, d’improvviso scorgemmo lui e altri, perlopiú tiranni, ma c’era anche gente privata, colpevole di gravi peccati. Essi credevano ormai che sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un muggito ogni volta che uno di questi scellerati inguaribili o uno che non avesse ancora espiato nella misura dovuta tentava di salire. Lí presso, c’erano uomini feroci, tutti fuoco a vedersi, che sentendo quel boato afferravano gli uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad Ardieo e ad altri avevano legato mani, piedi e testa, li avevano gettati a terra e scorticati, e li trascinavano lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante spinose’. E a coloro che via via sopraggiungevano, spiegavano quali erano le ragioni di tutto questo aggiungendo che li conducevano via per gettarli nel Tartaro. Laggiú, continuava, avevano provato molti terrori di ogni genere, ma tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al momento di salire. E ciascuno era stato molto contento di venir su senza sentirlo. Queste erano all’incirca le pene e i castighi e le corrispondenti ricompense[11]”.
Il problema mondo nel misticismo islamico (sufismo) e nella mistica cristiano-ortodossa
Mostrare però orgogliosamente le cicatrici sembra essere una modalità proveniente da epoche passate, fa pensare a certi rituali d’iniziazione delle tribù arcaiche, o alternativamente a forme autopunitive ed esibizionistiche, ma anche, ad esempio, alla fierezza con la quale gli aborigeni australiani mostrano ai giovani iniziati l’orribile cicatrice sul proprio pene[12].
La svolta mistica nasce, nonostante strambi esibizionismi, sempre da un rapporto che si stima insufficiente tra l’uomo e il creato, tra l’uomo e la sua vita avvolta nel mistero della stessa creazione. Il mondo si costruisce per sua stessa specie nell’esperienza della sua trasformazione; e il tempo si rivela proprio in quel che noi viviamo: l’accadere del mondo caratterizzante il suo specifico spazio nella sua temporalizzazione. La forma del mondo, allora,emerge nel presente e la sua trasformazione profila il valore simbolico variabile del mondo, nelle pluralità all’interno della volontà creatrice di Dio. Se il tempo è forma continua e segna la materia, la storia ne è l’elemento suo discreto: ma non si potrebbe negare che la storia si componga di tempo, dunque come elemento possiede una sua forma.
Nel sufismo, che è la mistica islamica, proprio la forma rivela un fenomeno quando se ne percepisce il senso attraverso una ricerca cosmologica, cioè d’indagine nel mondo e nel suo tempo. L’interpretazione del senso del mondo, perciò, si rivela, secondo i mistici islamici, nel problema di un’asserzione positiva, di una presa di coscienza anche di fronte al proprio dolore che rivela la presenza dell’uomo nel mondo e la rassicurazione da parte di Dio di fronte alle iniquità dall’uomo stesso perpetrate[13], che può indurre a considerare diversa la circostanza della predilezione divina, sino ad un raccoglimento per meditare la purezza e la conversione[14].
Il mondo però può tradursi, aporeticamente, in un continuum che si caratterizza discretamente nel tempo. L’Universale permane come uno, inerente in molti, ed eterno in virtù della continua trasformazione del singolare su cui si poggia. Ciò che è interno alla storia si svolge nella qualità di un passaggio dal possibile al necessario: il mondo si trasforma nella contingenza del necessario, cioè del tempo della circostanza: καιρός, indicante temporalità e temporalizzazione. Ragion per cui esattamente lo svolgimento all’interno della tradizione, dalla possibilità alla necessità, viene colto come punto di vista della conoscenza. Il mondo,in una consapevolezza mistica del suo dolore, non sta dando di sé un presupposto ontologico che caratterizzerebbe la coscienza del tempo, cioè la rifrazione di esso in temporalità e temporalizzazione, piuttosto si definisce in base al suo continuo-dover-essere-presente[15].
La creazione del mondo si raccoglie e si enuclea nel tempo: la storia raffigura specifiche trasformazioni dell’ermeneuticità del senso del mondo, cioè denota esattamente la forma del tempo, sempre però all’interno del fenomeno della tradizione del mondo. Tuttavia non si può sostenere che la forma del mondo sia contraddizione di sé, giacché ogni contraddizione del mondo è legata alla sua temporalità. Peraltro le circostanze storiche rivelano gli elementi discreti del senso del mondo; in tal caso si opera una temporalizzazione del tempo. L’evento nell’accadere continuo è forma della realtà. Nell’evento che il concetto descrive, emerge ciò-che-può-divenire, condizione probabile di una trasformazione in atto, dunque “accadere del mondo”.
Il mondo, tuttavia, non è unicamente “tutto ciò che accade”, come intendeva Ludwig Wittgenstein, ma quel ciò-che-accade non avviene casualmente perché l’uomo slegato dalla possibilità di un vertice di Amore, piuttosto la Creazione del mondo e di tutto quel che accade è amore di Dio da cui l’uomo liberamente può determinarsi sciolto, svolgendo poi la sua azione diretta anche verso l’accadere della dualità bene/male, in cui l’uomo lascerà prevalere il male supponendolo un suo bene esclusivo e perciò egoistico.
Il ciò-che-accade nel mondo, pertanto, si concretizza misticamente nel tempo continuo di questo mondo, permettendo lo stesso accadere della forma del mondo come mondo nella temporalizzazione, nel suo presente, quanto sviluppa la tradizione in trasformazione.
Si può allora individuare esatto che il mero accadere non sia a-priori determinando il mondo; il mondo non è tutto-ciò-che-accade: è il tempo invece che trasforma il mondo in accadere mondano di tutto quanto diviene e si trasforma nel mondo, ma come avvenire del tempo nel mondo.
Ne segue che la persona umana è un mistero conosciuto pienamente solo da Dio e da coloro a cui Dio dà ciò che nel misticismo russo e di matrice ortodossa si definisce come cardiognosia: la conoscenza spirituale dei cuori umani. Se questi pensieri sono stati sviluppati solo dai pensatori russi recenti, l’atteggiamento personalistico fondamentale fu da secoli vissuto dagli startzy, le figure più tipiche della spiritualità russa.Il singolare fonda perciò un contenuto universale e lo rivela come unità di sé nella trasformazione del mondo: questo è un evento che nella spiritualità sia islamica come anche ortodossa, di meditazione del mistero umano e di raccoglimento sul dolore umano, si profila qualeunità di misura di ciò che è interrotto dal dolore.
Incarnandosi, Cristo rivela la desacralizzazione del mondo, benché ciò costituisca una prospettiva di sofferenza e di consapevolezza. Ma dopo la caduta dell’uomo, l’abisso tra la natura divina e la natura umana è diventato talmente profondo, che l’Incarnazione del Logos è una croce che l’uomo prende su di sé: la kenosi diventa sofferenza. Il fine dell’Incarnazione però è anche portare la felicità divina in questa sofferenza umana. Per questo motivo, i russi non vogliono separare troppo il Cristo sofferente dal Cristo glorioso: la sofferenza stessa, per mezzo di Lui, diventa gloriosa. Ciò comporta, nella spiritualità russa, il profilarsi di una vera e propria “mistica della sofferenza”.
Non si può prescindere dall’affermare, tuttavia, come l’insieme della filosofia post-scolastica, che prende le sue mosse particolarmente subito dopo la riforma protestante, abbia, piuttosto, lottato tenacemente contro Dio rivelato da Cristo, perché Figlio, confutandone l’istante del singolare nell’universale, la rivelazione del fondamento ontico nell’uomo, cioè Cristo: Cristo è il corpo mistico di Dio nel mondo e nel tempo dell’uomo, affinché quest’ultimo fosse stato salvato da un avvenimento ontologico e mondano; e Gesù accadde storicamente per continuare ad avvenire indeterminabile presente, quindi rivelata speranza dell’uomo nel suo tempo. L’incontro mistico con la certezza del presente indeterminabile rivelatosi in Cristo, poiché Figlio di Dio Padre, passa attraverso un riconoscimento, esattamente ciò che nella tradizione shivaitica potrebbe essere individuato come pratyabhijñâ, un riconoscimento, cioè, che abbia fatto salva la speranza perché dono dell’amore di Dio nell’istante della Creazione.
L’antico induismo d’altronde aveva reso propria nell’uomo la caratteristica di un suo impulso mistico (udyāma) all’essere in ricerca della parte mancante di sé nel mondo, raggiungibile unicamente mediante il superamento delle temporalità, una volta oltrepassati i limiti mondani delle temporalizzazioni. L’essere in ciò osserva una sola intrinseca luce alla quale si ricongiunge e dalla quale è attraversato, intersecandosi in un cuore universale, in cui esiste il tempo che è, per il sol fatto di accadere, presente ma indeterminabilmente duraturo, cioè interminabile: proprio Dio, la certezza che l’Amato non debba mai più rischiare l’abbandono dell’amante.
E.Miserere: principium et finis
Il mondo, mediante tale ermeneutica, non possiede in-sé principio e non prevede a-sé fine, perché divenga nuovamente totalità e unità di una congiunzione: quella tra il fondamento cosmologico singolare e l’universale rivelato, quella tra mondo e tempo, appunto tra uomo e Dio; dunque meditazione sulla cosmologia proprio quale specificità di indagine e di ricerca del paolino tutto in tutti[16], dove la rivelazione di Dio è compiuta da Gesù come il volto umano di Dio, l’Uomo che riscatta l’umanità e che nel compiere ciò, è insieme l’Uomo nel dolore, Cristo del riscatto nello scandalo del suo Amore, infine Dio della salvezza[17].
La libertà misticamente riscattata dal peccato, perché l’uomo viva il tempo continuo nella storia del mondo, completa il suo essere nella possibilità dell’amore e nella scelta del perdono, passando per la “porta stretta” del diritto naturale. Perciò senza grazia cristiana che si oppone alla vendetta umana, sovente etichettata quale “giustizia”, la libertà si trasformerebbe immediatamente in liberazione esistenzialistica e relativizzazione della morale, una sorta di diritto per cui ogni valore, privo di carità, non coinciderebbe con la virtù, e il valore si tradurrebbe nel contrario della qualità umana.
Ciò comporta che il rapporto tra l’uomo e la forma del mondo, nel tempo caratterizzante il mondo, di fronte a un evento tragico, risulterebbe totalmente dominato da pulsione e istinti, governato dall’ottenebramento del senso della ragione, trasformata in ideologia e perciò in terrore[18].
La storia, vero e proprio fardello che rende la vita un debito, finirebbe con l’essere un guardiano senza più nulla da custodire e da conservare, senza più nessuno da sorvegliare e da vigilare; il mondo infatti apparirebbe vuoto, pesantemente ricolmo di un nulla. Questo guardiano andrebbe a muoversi con circospezione, e indifferenza al tempo stesso, all’interno della prigione da custodire; compirebbe regolarmente i suoi giri di sorveglianza, aprendo e richiudendo le celle, osservando e annotando un κενόν (vuoto), compilerebbe per finzione i suoi rapporti: andrebbe a redigere la sua cultura, spacciata per vita; in realtà un’impostura della morte su quanto dato per esistente e per vero.
La prigione, ciononostante, è appunto vuota. Il suo dilemma si definisce infine attorno al senso della sua realtà: può considerevolmente andar via da quella prigione? Deve rimanervi in funzione di se stesso? Se decidesse di andar via, perderebbe consistenza la sua realtà, e prescindere da sé gli provocherebbe un riconoscimento del rifiuto del dono di amore: d’altronde egli esiste perché guardiano di quella prigione; ma al tempo stesso il suo incarico appare esaurito, ormai sostituito da una promessa vana, data a se stesso, per rendere credibile proprio se stesso.
Eppure ciò che lui sorveglia e osserva è unicamente quanto non potrebbe essere né ispezionato né controllato, giacché inesistente. E allora nel tentativo di venir fuori da questo dilemma, il guardiano decide di sorvegliare se stesso, di vigilare sui suoi stessi compiti, di punirsi e di lodarsi. In fondo dorme in una delle tante celle vuote come fosse un detenuto, possiede le chiavi di tutte le celle, può aprirle e richiuderle tutte, egli è prigioniero di se stesso, guardiano di se stesso. Crea il protagonista e l’antagonista della sua vicenda. Propone a se stesso, infine, di essere l’uomo che non accetta la libertà dell’amore, perché rifiuta il riscatto della vita nella grazia della sofferenza offerta quale dono, restando abbarbicato all’essere dell’uomo vecchio per non divenire libero in Cristo, cioè appunto nell’amore.
Il rifiuto del dono, in fondo, pone al centro tutta la problematica dell’orgoglio del peccato che non riconosciuto permette una servile sicurezza nel non darsi e nel restare unico, ma solo (nel senso di einsam).
Ecco perché il rifiuto della grazia in Cristo pervade l’uomo della sua onnipotenza che si sgretola ineludibile quando, alla libertà rigettata, s’insinua il ricorso a un rinvio come disperato strumento di rassicurazione: “prima o poi la mia prigione si riempirà ed io potrò assolvere al mio compito”. Tuttavia non è detto che ciò sia sperabile, perché nel momento stesso in cui ciò si verificasse, comunque la realtà avrebbe già dipanato soltanto l’angustia di un mondo senza più uscita, nell’immaginazione forzata di regolare le sorti di un mondo finto, che diverrebbe reale e unico sorvegliante e guardiano proprio dello stesso guardiano autoproclamatosi tale, nel vuoto del suo mondo voluto da lui stesso come prigione.
Su questa idolatria mondana dice Ugo Borghello: “Viviamo unicamente nella misura in cui moriamo con Cristo; nella misura in cui l’uomo vecchio, con le sue concupiscenze, è vinto dalla presenza dell’amore crocefisso. Lì mi vedo e mi sento amato oltre ogni timore. Stupendo è lo stacco del capitolo ottavo della lettera ai Romani: ‘Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e dalla morte’ (Rm, 8, 1)”[19]. Il guardiano però accetta la morte per salvare se stesso nel mondo facendosi proprietario proclamato da se medesimo e signore immaginifico del suo mondo, comunque ridotto a prigione di un’inaccessibile e tetra “cultura ideologica”, nuovo avvenimento di realtà illuministica, ottenebrata dalla dialettica antitetica e conflittuale, prigione nella quale comunque il guardiano potrà “sperare” di rinchiudere per sorvegliare, quale aguzzino, molti suoi simili[20]. La circolarità si è cosi realizzata, egli ha autoprodotto se stesso risolvendo quel dilemma che non lo voleva in realtà né come prigioniero, né come guardiano. Ha autoprodotto la sua immagine ponendo se stesso al di sopra del suo destino, ha creato una finzione e un artificio: se stesso.
Ciononostante se la vita nonfosse limitata dal traguardo della sua stessa fine, non ci sarebbe salvezza. È il tempo mistico a rivelare Dio in ognuno di noi, proprio nella sua speciale dimensione di dover racchiudere la vita e nella sua incontrovertibile condizione di dover comprendere la morte, oggetto di quel desiderio che nel mondo non potrebbe essere mai soddisfatto, perché privo di una durata necessaria a farlo, una misura per l’uomo sempre incompleta, non quantificabile. Tale ambito lascia d’altro canto intuire come, peculiarmente in questo limite, si riveli la condizione umana della vita indissolubilmente legata al suo contrario, e perciò, mediante tale contraddizione, altrettanto indissolubilmente stretta alla sua mistica dimensione divina. Solo un atto di raccoglimento meditativo che trascenda l’apparente che ci circonda, nel dolore come insegnano i mistici, rende concreto il passaggio al trascendente come esperienza.
La dilatazione, quindi, verso il passato e verso il futuro, converge nel presente, concreta eternità in Cristo, in Lui presente indeterminabile, vivibile perché da Cristo estesa forma dell’infinito che promana e che deriva da Dio perché in Dio, quale imperscrutabile evento: sia l’infinito sia l’intera compiutezza sussistono, seguitando ad accadere.In realtà quanto in noi invisibile, cioè la nostra coscienza, si perpetua nel tempo astratto come sostanza di quell’ora visibile, nel ricordo della trasformazione del proprio tempo concreto, della sua evoluzione misticamente storica e che riconduce quanto concreto all’esperienza astratta (qui nel senso di Erfahrung), esperienza impercettibile eppure percepibile del tempo esterno al nostro mondo, tempo da Aristotele[21] già individuato e posto nell’infinito, a sua volta aprendo a una grandezza analogamente infinita: quella di Dio, vissuta antropologicamente in Cristo rivelato nell’amore della Croce e nel limen tra la sua vita e la sua morte verso la sua Vita che risorge, testimonianza corporea per l’uomo della vittoria dell’amore sulla Croce.
La forza della santità accresce la speranza dell’uomo per la sua salvezza, quando il tempo pare ottundere il fulcro della grazia, di quella grazia cristiana che oltrepassa (überschreiten) la giustizia umana: in ciò emerge la consapevolezza di un tramite mistico di prospettiva del reale.
Eppure è esattamente in quel preciso istante che la luce della grazia cristiana, delinea in maniera del tutto in-sperata e inaspettata, ma per intero, ciò che sarà davvero l’avvenire, ciò che accadrà nell’avvenire, quel futuro della vita, atteso da ognuno di noi, che ritorna a Colui che ha donata questa vita a ognuno. Perciò il suo mistero, allo stesso modo di come avviene nella vita dell’uomo, Dio lo rivela esattamente a margine della sua stessa “Vita”, divenendo quest’ultima morte dell’uomo-Cristo, in quell’aporia mistica, cioè misterica e sacra, già evidenziata in precedenza, che indica la vita essere imprescindibile legame del suo opposto, proprio perché è da tale paradossalità che emerge poi quell’Amore a lungo atteso, in grado di lasciar risorgere Gesù alla Vita, avvenendo egli stesso Dio, perché Gesù accada anche nell’esistenza quale supremo sacrificio della nostra vita, lascito incommensurabile del tempo come durata eterna (αἰών)[22].
La santità d’altronde non potrebbe mai prescindere da un martirio, a volte visibilmente carnale, spesse volte assolutamente interiore e comunque solo apparentemente invisibile, un martirio che però lascia che da quella grazia, chissà non del tuttoin-attesa e inaspettata, sgorghi il ricongiungimento dell’uomo a Dio, mistico e misterico, tante volte invocato, altre volte invece insperato contro ogni speranza e razionalistica evidenza e materialità mondane.
Il senso della vita, ciononostante, non è commisurabile alla mondanizzazione del tempo, cioè al suo farlo dipendente dagli imperativi collettivi del mondo. La vita piuttosto ne è indipendente e acquisisce il suo valore, avendone senso. Ma quale poi? In che “senso” deve averne la vita?
Comunque la vita dell’uomopossiede sempre un senso, proprio nella misura in cui ognuno di noi, ha potuto già riconoscere ed ha letteralmente scoperto e constatato che la sua dignità non è stata mai legata a quanto “prezioso” fosse il suo tempo nel mondo, piuttosto la dignità umana era avvinta al fatto che la vita di ognuno di noi, fosse preziosa in sé e per sé, come una tazza rotta e riparata lasciando trasparire l’incrinatura. La vita infatti è essa stessa talento consegnatoci come un dono da parte di Colui che aveva già offerto la sua vita, affinché fosse stata fatta salva per sempre proprio l’esistenza di ognuno di noi e per ognuno di noi[23].
Il Dono, quindi, si pone imprescindibilmente al di là del senso che il mondo possa aver attribuito o sottratto, come in una sorta di gioco economico a somma zero, alla dignità umana della nostra vita. Il sacrificio di Cristo interseca l’indeterminabile presente nel comune cammino verso Dio: è allora il sacrificio, cioè il limes e il limen del martirio attraverso il tempo, che riflette la santità come unico senso mistico possibile della vita e a questa vita.
Invariabilità e molteplicità dell’istante: dal tempo mistico indeterminato all’esperienza mistica indeterminabile
In tale ambito ermeneutico del mistico, possiamo affermare come il concetto di universale si traduca in esperienza di rivelazione di Dio in Cristo. Questa esperienza però sarebbe impossibile se non fosse stata rivelata esclusivamente, ed in maniera irripetibile, da Gesù stesso,perché “vero Dio e vero uomo”[24], volto umano e visibile dell’invisibilità di Dio.Proprio in questo senso Dio è esperienza di tempo, tempo che si rivela, a sua volta, “indeterminabile presente”, perché Vita in-sé senza inizio, e per-sé senza fine. Eppure quell’imprescindibile consistenza e persistenza che profila l’esperienza umana quale indissolubile legame con Dio perché Cristo, quindi Dio in Cristo poiché connaturato vincolo tra Dio e l’uomo[25].
Già considerando quei contributi aristotelici, (ma anche il Platone del Timeo[26]), che hanno segnato, probabilmente ancor più della sua nota Metafisica, la rilevanza della questione tempo-infinito, si conseugue sviluppare, mediante un’assiomatizzazione critica, proprio quelle problematiche, svolgendo un’analisi della continuità della forma ed una riflessione dell’elemento tempo misticonella sua dimensione discreta. Tuttavia esattamente da una tale cesura di discontinuità il tempo ritrova la sua peculiarità di limitato-continuo/discreto-infinito: è il paradosso del tempo che sottolinea già l’illimitatezza dello spazio che misura e dal quale è costretto però a rendere misura del movimento di ciò che compone quello specifico spazio, indicato come una forma infinita nella sua continuità: cioè la coscienza dell’uomo in cui il moto del tempo raccoglie il soffio di Dio in quel determinato spazio che ci sforziamo di definire “vita”, ma che anche esprime pienamente, in maniera ineludibile, la singolare esistenza dell’uomo da un punto di vista ontico.
D’altro canto il problema dell’esistenza di Dio, configurato anche nella questione di cosa sia il tempo e di come si sviluppi, appare pian piano sovrapporsi per poi identificarsi. Dio è, in effetti, il tempo quale durata eterna, pienezza dell’universo, e di cui si perde irrimediabilmente coscienza, proprio perché ravvolge il mistero del nostro stesso esistere: aporia di una vita che deve ineluttabile raggiungere la sua “morte”, senza però che a nessuno sia dato sapere il quando, il dove e il come.
Tale stessa aporia ci permette di comprendere, nella sua indefinibilità, quello speciale limite rappresentato da inquietudini e da difficoltà, facendo sì che la nostra coscienza si orienti al tempo percependolo intrinseco alla nostra stessa natura umana.E se il tempo è Dio, Dio rivelatosi nel mondo in Cristo, Cristo diviene corrispondentemente possibilità dell’indeterminabile presente che ravvolge il nostro stesso esistere, assicurando la continuità del mondo nel tempo quale intrinseco presente da cui si dipana la forma del passato e l’elemento variabile e molteplice del futuro. In ciò Cristo rivela Dio, proprio perché Cristo stesso accade e avviene nel tempo del mondo quale Dio della salvezza. Tra Dio e il mondo esiste, pertanto, un passaggio che pone in evidenza due concetti fondamentali, concetti che non sono sfuggiti all’attenzione della religiosità universale: se, infatti, il mondo indiscutibilmente è reale, derivando da Dio, in-sé e per-sé bene assoluto, ciononostante lo stesso mondo è un contesto di bene e di male al di là del quale si concettualizza l’idea di Dio come la grande anima pura e perfetta, che non presuppone tale contesto caotico, ma lo dipana nella sua intelligenza infinita, soffrendo per il male e gioendo per il bene.
Tuttavia: qual è la relazione tra Dio e mondo? Come Dio rimane al di fuori della violenza tra bene e male di questo mondo pur avendo creato il mondo perfetto e in assenza di male?
Dice Giuseppe Tucci: “Il pensiero di Dio comprende dunque presente, passato e futuro; è assoluta contemplazione, non è induttivo. Perciò egli è immune dalle passioni e sensazioni, e non può avere desideri. Di lui si può dire che è legato come le anime che trasmigrano nel samsara, perché in lui non c’è ombra di passione; ma non è neppure un’anima che si possa chiamare liberata, perché non fu mai legata al samsara”[27].
In tale argomentazione tucciana emerge un aspetto rilevante nella questione del rapporto tra Dio, mondo e uomo: ci si potrebbe chiedere in fondo per quale ragione Dio abbia fatto il mondo se poi esso stesso sia stato pervaso dalla dualità bene-male; e ancora, quale sarebbe stata la ragione dell’impulso a creare? Perché tutti noi? Perché la storia? Perché il tempo del mondo come caratterizzazione e specificazione dell’esistenza indubitabile di un interrogativo senza risposta?
Ciò malgrado non avrebbe senso scegliere per il Bene, cioè per Dio, unicamente perché l’alternativa potrebbe e dovrebbe essere la solitudine da Dio e la sua eterna privazione (l’inferno) o la purificazione dal proprio male per un tempo ignoto (il purgatorio): scelgo Dio soltanto dal momento in cui acquisisco pienezza della mia fede riconoscendo Gesù “vero Dio e vero uomo”, perché è proprio Lui la scelta possibile e la mia unica alternativa, non perché io debba essere costretto a temere qualcosa. Insomma Dio non è un codice penale che mi obbliga a determinate scelte che non debbano violare le norme prescritte, giacché diversamente mi si prospetterebbero conseguenze di specifiche pene rispetto alla norma da me violata: Gesù rivela Dio e si rivela lui stesso Dio in quanto Bene in-evitabile e in-dubitabile per l’uomo. Questa acquisizione va oltre ogni esperienza possibile che in quanto tale si connatura della sua primaria specificità, cioè la scelta libera per l’uomo, scelta presente in maniera costante nella sua esistenza, sebbene sovente l’esperienza della propria vita, consapevolmente lontana da Dio, possa caratterizzarsi quale distruttiva dell’uomo stesso.
Si ritorna, quindi, all’interrogativo che lascia irrisolta un’inquietudine profonda: cosa può scindere la possibilità di una scelta che sia completamente sicura di non divenire distruttiva rispetto ad un’altra? Davvero scegliere per Dio, e dunque per Gesù, rassicura le proprie aspettative sull’evolversi della vita di ognuno? Evidentemente percuotersi l’intelletto con tali questioni non conduce alla certezza della scelta migliore, che rimane appunto sospesa nella consapevolezza di essere Dio indubitabilmente al di fuori della misura, al di là di ogni ordo et ratio, eppure, esattamente come l’amore, Dio ritorna ad essere nel proprio cuore, anche dopo una lunghissima lontananza, un inspiegabile ristoro, un’ineludibile traccia per riconoscere sé stessi nella Bellezza di Dio, un’irremovibile fortezza per la nostra speranza in quella metamorfosi già indicata da André Malraux[28].
Chi pervicacemente ne rimane lontano, in un eterno goliardico orgoglio, lascia razionalizzato e misurato ogni attimo della sua vita, che si rivela sì, come sosteneva André Malraux, un destino dettato dalla morte, perché si è consentito alla morte, tacitamente e accidiosamente, di trasformare appunto la vita in destino. Lo si è fatto mentre la propria vita andava asciugandosi tenacemente nel comporre un canone di proporzioni, senza aver mai lasciato fluttuare la propria anima verso la gioia di quell’Amore ricercato dall’anima, cioè Dio.
Il male, peraltro, non è soltanto l’obbrobrio dei propri sensi, la rottura del vincolo di amore, ma in maniera più profonda si rivela essere la perdita di sé stessi in un rinvio senza fine ad un giorno in realtà improrogabilmente diverso e di mutamento del proprio cammino.La differenza tra il bene e il male si situa esattamente nell’intorpidimento della verità, che fugacemente s’intravede chiara, inseguibile, afferrabile un po’ ovunque, nonostante rimanga sempre ottusamente indistinguibile e sfuggente.
Esattamente perché “altrove”: si tratta di un qualsiasi ovunque che si radicalizza purché non sia in Cristo, appunto un qualsivoglia altrove fuorché in Dio. Perciò non potrebbe avere un senso l’affermazione sartriana secondo cui “l’enfer, c’est les autres”. Piuttosto scegliamo noi stessi liberi e liberamente per l’inferno già nella nostra stessa vita, senza timori e tremori, semmai costantemente rancorosi nei confronti di un dio che non soddisfa le pretese di una vita che si vorrebbe diversa. Dio, invece, vive nell’uomo come peculiarità di essere l’esatto contrario, il più concreto opposto antropologico del timore e del tremore: Dio completa continuamente la nostra esistenza nell’esperienza del suo amore rivelato in Cristo universalmente e donato da Cristo antropologicamente; e Dio dona il suo amore per l’uomo nell’essere di Cristo in quanto Figlio del Padre e a sua volta indeterminabile presente nella vita dell’uomo e nella storia del mondo.
Si deduce da tale acquisizione quell’indefettibile vincolo d’amore perpetuo di Dio per l’uomo, realisticamente possibile solo in Cristo, perché antropologicamente perfetto, misticamente vivo, umanamente reale nell’esperienza del tempo nel mondo nascendo e morendo, e risorgendo in quel corpo materiale che ha segnato lo stesso tempo del mondo.
È specificamente in quel vertice del tempo che culmina la convergenza verso un presente continuo, primo, fondamentale moto immobile (unbewegte Ur- und Grundbewegende), tempo perpetuamente presente che rivela il suo moto senza dover essere “prima” e senza profilarsi rispetto a un “dopo”, comunque determinabili. Si tratta piuttosto di un tempo completo che racchiude conformemente contingenza, epoca o eternità nell’immobilità permanente del presente-in-Cristo (Gegenwart-an-Christus). Da questo presente-in-Cristo risorge, quale fulcro di grazia, la salvezza dell’uomo nella sua dimensione priva di tempo, ma da cui accade per l’uomo il bagliore dell’amore fatto salvo in Cristo e determinabile a ogni istante dell’esistenza dell’uomo, proprio come se questa stessa esistenza non fosse più soltanto individuabile nel tempo passato o nell’aspettativa futura, ma anche unicamente determinabile nel presente della fede in Cristo, da cui tutto è origine e moto, durata e fondamento e misura indefinibili in quanto imperscrutabili, cioè definitivi proprio perché constatazione diretta di una testimonianza viva da parte dell’uomo di rinunciare e di rifiutarsi un ritorno al giorno della disperazione.
Per questo la speranza diviene imprescindibile avvenimento della fede nel momento in cui però l’Amore è accaduto (geschehen), e avviene per divenire Presente ormai indeterminabile per l’uomo, impeccabile realtà per l’uomo stesso di conoscere e vivere Cristo.
E allora il fatto che Dio sia stato creatore del mondo senza strumenti è facile presupporlo anche non volendo ricorrere alla sua Onnipotenza: un artigiano, per esempio, costruisce quegli stessi strumenti utili successivamente alla creazione dell’oggetto desiderato. Pertanto è proprio nella non-simultaneità-degli-eventi della Creazione il luogo filosofico dove Dio esprime quell’intelligenza, quella volontà e quella memoria che daranno oggetto a quanto maturo nelle sue premesse causali, appunto perché le condizioni causali delle cose non si producono tutte simultaneamente ed allo stesso modo: è sull’indifferenza alla presenza o meno delle concomitanze causali che Dio poggia la sua stessa attività creatrice.
Dio, quindi, è una sostanza che ha per qualità l’intelligenza, non essendo però accomunabile alle altre anime (umane) in qualcosa di assolutamente imprescindibile: il tempo senza mondo, il tempo privo della temporalità e della temporalizzazione, cioè una forma continua che non necessita elemento discreto che possa intersecarla per contestualizzarla all’interno del mondo, quale funzione del tempo di questo mondo.
Dio e il tempo mistico: il πρότερον fisico aristotelico e lo ΰστερον metafisico
L’essenzialità del tempo, proprio come l’unione della vita prima e dopo l’incontro fra l’uomo e la donna, si risolve nell’immediatezza di uno sguardo fugace su un altrettanto fugacissimo istante: è l’eternità di Dio che crea il mondo e il tempo nel mondo nella sua indeterminabilità comunque presente, incontro tra noi e Lui, gioia della ricerca del suo Amore. Dio pur non influendo su ciò che facciamo, nella ragione del libero arbitrio, tuttavia sa come la nostra stessa vita si dipanerà in esistenza perché attraversata dal tempo, sino a tradursi in “destino”, destino che diviene tale e si configura tale solo nel momento finale, nell’istante che prescinde dal precedente e che non riconduce più l’esistenza dell’uomo a una prova successiva, ma che riscatta piuttosto o danna senza appello una vita intera: il momento della morte[29].
Dio dunque vede la storia universale, quello che in essa accade; vede tutto in un unico splendido, vertiginoso istante che è l’eternità[30], potendo perciò imprimere un movimento al tempo nel mondo, non dovendolo subire pur restando Dio, moto che, nell’immobilità sua perenne, tutto perpetua e muove, rivelandosi l’espressione fondamentale e non contestualizzabile del tempo, perché privo del “prima” aristotelico e assente nella successione del tempo: cioè presente indeterminabile, forma di Dio. E Dio si delinea in completezza perfetta del moto, il cui corpo non subisce la corruttibilità dovuta al movimento stesso, ma accade, tale corpo, quale moto di un avvenimento assoluto, indeterminabile ma anche indeterminato nel tempo e nello spazio. Cristo è, quindi, rivelazione del tempo nel mondo e rottura del vincolo tra semplice e complesso, come pure del legame tra astrattezza e transitorietà della materia caratterizzante l’universo.
In tale acquisizione si ravvisa, inoltre, l’espressione dell’essere che divieneperché accada: Dio che è, è tempo nel mondo perché divenganatura amoris unicamente accadendo nella sua morte il rivolgimento di quanto è stato, nel momento in cui la resurrezione della sua Vita rivela pienamente la salvezza dell’uomo nel mondo. Da ciò si può pervenire a delineare essere Dio materialità, non strumentalità, della causa dell’universo: peraltro è sempre attraverso il concetto di sacrificio assoluto che transita la possibilità di rivelarsi Dio come ontico del mondo, mondo che si consuma nel tempo. Se allora Dio consiste impenetrabile nel mondo, è, ciononostante, intuibile dalla coscienza umana nel mondo; se Dio è impalpabile e invisibile, avviene continuo e incommensurabile nell’esistenza dell’uomo; se Dio è inscrutabile e impercettibile, imperscrutabile nella datità del mondo, accade nell’interiorità come l’ineludibile dell’evento umano, avvenimento vero, tale come lo è l’esperienza umana che rimane involucro mortale.
Dice a proposito Aristotele: “Dunque tre sono gli argomenti di ricerca: da un lato ciò che è immobile, dall’altro lato ciò che è mosso, ma è incorruttibile, infine le cose corruttibili”[31]. Più avanti nella sua trattazione della natura e del mondo, del movimento del tempo nel mondo, lo Stagirita non esiterà a concettualizzare la questione tempo-mondo relativa alla mutabilità degli enti e delle loro proporzioni quale riflessione generale del mutamento e del cambiamento della tradizione che noi ci rappresentiamo del mondo stesso, sostenendo che: “Tutto ciò che muta, è necessario che sia divisibile. D’altronde, poiché ogni mutamento è da qualcosa verso qualcosa, quando la cosa è giunta al termine finale del suo cambiamento, non muta più; mentre, quando è nel termine iniziale, essa non cambia né in se stessa né in tutte le sue parti, poiché ciò che sta sempre nello stesso modo non muta né in-sé, né nelle sue parti”[32].
Queste riflessioni aristoteliche rilevano, infine, il mondo rispetto al tempo-nel-mondo e il tempo rispetto alla percezione che noi abbiamo di esso quale caratterizzante la rappresentazione del mondo nel suo complesso. D’altro canto la corruttibilità è inerente al mutamento dell’ente-mondo nel tempo e delle sue proporzioni nello spazio; tuttavia la perfezione del tempo quale misura del movimento non esclude l’inalterabilità del mondo, anzi ne individua esattamente nel moto la possibilità del mutamento a sua volta infinito, infinito che in sé non è perfetto rispetto al concetto di eterno, inalterabilità della potenza e dell’atto, congiunzione dell’essere poiché divenire continuo.
Proprio secondo questa prospettiva Aristotele non mancherà di cogliere in seguito ne Il cielo, perfezionando le posizioni qui riportate della Fisica, come l’infinito risalti per discontinuità, quelle discontinuità che coinvolgono il mondo che per il suo stesso implicito e ineluttabile mutamento è presente nel tempo, determinandosi in temporalità e temporalizzazioni, cioè in elementi discreti (discontinui) che tuttavia profilano la tangibilità di una regolare cadenza dello sviluppo dell’essere nel divenire[33].
La differenza, allora, tra il continuo e il discreto è esattamente nel movimento scandito dal tempo[34]: ogni forma continua delinea la temporalità del fenomeno del mondo quando se ne interpreta il senso, possibile nella scansione di ogni temporalizzazione di questo mondo: è da tale acquisizione che possiamo individuare l’elemento discreto, cioè quella interruzione che distingue il prima e il dopo aristotelici. Così la coscienza, la stessa capacità di cogliere il senso del mondo, diviene per il sol fatto di essere-stata, determinandosi nella possibilità di continuare a essere per divenire poi infinito accadere.
In tale prospettiva la Vita di Cristo, la sua nascita, il suo avvento, il suo essere che si conforma al suo divenire, la sua Morte che trasmette nuovamente la Vita nella Resurrezione come dono di amore, per rivelarsi l’annunciato Dio della salvezza del mondo, focalizza tutto ciò il concetto d’infinito postosi verso il “dopo rivelazione”, momento in cui il tempo stesso risulta comprensibile perché scansiona quanto ha avuto principio senza che debba mai più aver fine: l’amore di Dio nel martirio e nella resurrezione di Gesù rivelato Dio. Si vuole sottolineare come il concetto di infinito si storicizzi,temporalizzandosi a-posteriori rispetto all’eterno, cioè Dio, che prescinde singolarmente dal “prima” e dal “dopo” giacché universalmente si configura in Cristo quale annuncio senza più fine di Dio, perché Cristo stesso Dio nel mondo, tempo del mondo.
E allora nell’ambito di tale irrisolvibile indecidibilità si perviene alla concretezza dello spirito ermeneutico aristotelico che segna il tempo pervaso dal prima e dal poi, successiva acquisizione in Sant’Agostino, il quale constata tuttavia la percezione di Dio non poter essere più accantonabile e separabile dalla vita dell’uomo e dalla sua “esistenza”. Perciò intuendo in maniera obiettiva la vita come cammino, come destino, che, suo malgrado, deve raggiungere un traguardo paradossale nel suo opposto, la vita stessa colta e interpretata in esistenza, rivela l’antinomia del tempo essere esplicazione del dilemma teologico e immediatamente mistico: credo?
In sostanza la fede acquisisce certezza nel momento in cui si è altrettanto sicuri di non poter mai decidere, allo stesso modo di quando si decide nella quotidianità, scelte razionalmente esistenziali, proprio perché Dio è una scelta irrazionalmente esistenziale, e specificamente in tale prospettiva anche una scelta mistica; altrettanto di come la vita è paradossalmente legata in maniera inscindibile al suo opposto, la morte. Eppure è in questa paradossalità della vita che si afferra il suo riconoscimento quale realtà incontrovertibile che esiste solo, e solo se, non-morta.
L’accadimento più irrazionale nella vita, il verificarsi del suo contrario, necessita esistenzialmente il mistero di Dio, legittima ontologicamente proprio la vita dell’uomo, permette uno sguardo sul tempo, quasi che la morte fosse la “carta d’identità” della vita. Ecco perché il mistero della salvezza in Cristo libera definitivamente l’amore verso di Lui, amore costretto a lottare contro la prigione dell’esistenza per testimoniare la sua vita, e che è sciolto dalle catene solo quando il paradosso torna alla sua ricomposizione finale. A tal proposito Edith Stein individua la passione dell’uomo quale sofferenza e ingabbiamento dell’anima nel mortale corpo, corpo che ottiene una sua fisica aristotelica di essere moto nella misura del movimento del tempo, confessando la prodigalità del peccato, che ritorna a divenire membrana di vita per l’amore donato da chi imprime movimento alla vita dell’uomo nell’universo.
Nella Scienza della Croce Edith Stein, filosofa crocifissa e martire, parla di Dio quale mistero che avvolge il nostro proprio essere, perché è nell’anima di ognuno di noi che Dio si riserva di divenire nella presenza di Cristo, in quell’inconsumabile anelito verso di Lui che ci lega all’Immortalità. Questo mistero è svolto dalla Stein come resurrezione della carne che si eleva dal Verbo per assurgere ad opera santificata della vita dell’uomo. Il mistero dell’essere avvolge l’anima di ognuno come un involucro donato da Dio che noi possiamo aprire verso l’Altro, per cogliere nella congiunzione terrena il verso poetico che permette il divenire in un al di là eterno e privo di corpo.
Parallelamente il corpo dell’uomo lega ogni suo attaccamento terreno alla speranza di elevarlo a dignità di un mistero sovrannaturale, che congiungerebbe la propria anima al senso del Verbo il quale a sua volta avvolge ogni singolo atto umano. Così ogni tratto della forma del mondo è movimento e misura del tempo che ravvolge il Creato, perché l’uomo ne sia partecipe come dimensione di colui-creato, come acqua che sgorga dalla fonte di Cristo, vita assoluta, primo e sidereo moto della stessa vita in cui il mistero dell’uomo contempla il suo scopo e la sua ragion d’essere.
L’anima stessa trova perciò la consapevolezza del ritorno celeste soltanto conoscendo e amando Dio: la Stein ci dice chiaramente che l’anima acquisisce possesso e intensità della sua dimensione creata, quando si unisce ed è in corrispondenza con Dio. Questa condizione, che non è sempre comune tra gli uomini, è però vera sempre per l’uomo, ponendo quest’ultimo al centro della sua meditazione la tendenza a precipitarsi in un centro, come sostiene ancora Edith Stein, effettivamente in grado di condurre l’uomo a contatto con il suo Creatore. Cristo stesso nell’ora del Getsemani trova profondità alla sua meditazione nel farsi raggiungere dalla volontà paterna, cui riconosce tutto, anche la sofferenza che di lì a poco tormenterà il suo corpo e la sua anima, anticipando la Croce[35]. Si comprende dunque san Giovanni della Croce – uno dei maggiori misticità della cristianità – quando sostiene in Fiamma d’amor viva, 11, 4: “Poco m’importa che un uccello sia legato a un filo sottile invece che a uno grosso, perché per quanto sia sottile, rimarrà legato come al grosso, fin tanto che non lo romperà per volare. La verità è che quello sottile è più facile da rompere; però, per facile che sia, se non lo rompe, non volerà”.
L’amore, in effetti, riuscirà a essere, se consapevole della sua libertà nella felicità che ritroverà soltanto e unicamente nel volersi immolare e donare. L’avvicendamento di legami costruiti nel guscio della dipendenza ha eliminato dall’uomo ogni confine di libertà, ingannandolo con la liberazione da sovranità storico-mondane. Piuttosto l’umanità della morte riaffiora in un anelito al divino, in una primigenia fonte che riconduce l’essere a poter ancora volere, nell’istinto dell’anima verso il Creatore, e desiderare così la dimensione di una finalità espressa per la riunione di ogni elemento terreno che assurge a consistenza celeste. In una prospettiva analoga Edith Stein, riprendendo proprio San Giovanni della Croce, ci riconduce direttamente verso la mistica dell’Eternità, mistica e ascetica che si rendono possibili nell’anima dell’uomo nel momento in cui egli intravede il passo verso la Croce, quale Amore divino che tocca i suoi occhi e la sua anima aprendoli e rapendoli verso Dio.
L’altro come esperienza mistica di amore
Amare il prossimo significa però amarlo nella visione di un amore verticale, che proviene e che si dirige a Dio, cioè un amore divino che nella meditazione possiamo scoprire totalmente e infinitamente.
“Dio può concedere all’anima un’oscura e amorosa conoscenza di Se stesso, anche senza quell’allenamento preparatorio che è la meditazione. Egli può portarla di peso, improvvisamente, nello stato di contemplazione e d’amore, vale a dire infonderle la contemplazione”[36].
Ci si potrebbe legittimamente chiedere, dove sia finita e sin dove arrivi quella storia della libertà di fronte alle scelte possibili, anche quelle della propria morte, così fortemente propagandata dall’esistenzialismo nonché, precedentemente, dall’illuminismo; ma anche dove sia finita, dunque, la tolleranza illuministica?
D’altronde l’onticità del mondo, cioè il suo specifico essere ermeneuticità, fonda ogni segmento della ricostruzione della sua forma nel tempo del mondo, nella temporalità della storia perché la temporalizzazione riveli la trasformazione ontica del mondo nella ricostruzione della storia del mondo quale larghezza del tempo, appunto sua temporalizzazione. Se dunque il mondo rimane forma di un segreto raccolto nella continuità del tempo, seppure unicamente nel continuo del tempo il mondo può essere rivelato e compreso, la vita diviene un mistero di cui percepiamo contorni della sua forma: la forma della nostra storia, sempre nascosta, appena sussurrata dalla nostra quotidianità; dolcezza di un istante in cui si distingue nel mondo l’indomabile nascita e morte di forme continue ed elementidiscreti, perché Nel suo profondo vidi che s’interna/legato con amore in un volume,/ciò che per l’universo si squaderna;/sustanze e accidenti e lor costume,/quasi conflati insieme, per tal modo/che ciò ch’i’ dicoè un semplice lume[37]; in quell’amore che muove il sole e le altre stelle.
Le circostanze di una vita evidenziano metamorfosi della tradizione, coesione nelle trasformazioni degli elementi della natura nel mondo, perché la potenza, quale intesa da Schelling, svolga la determinatezza nel mondo e nel tempo provocata e accesa dalla Creazione. Con Schelling[38], nella Naturphilosophie, l’elemento del mondo si fenomenizza alla sua forma: il discreto si differenzia dal continuo perché sintesi della forma e del fenomeno tra natura e mondo, tra tempo del movimento e misura dello spazio nel mondo, rivelazione dell’intelligibilità della Creazione a opera di Dio.
Secondo Schelling, che si riporta a filosofi cristiani a lui precedenti quali Eckhart o anche Bruno, ciò che differenza la filosofia della natura dalla precedente teoria dei fenomeni naturali risiede esattamente nel superamento delle definizioni: i fenomeni che nella natura appaiono, pongono in-sé principi necessari e non unicamente possibili. La stessa Creazione, pertanto, sorge come coesione dell’amore di Dio alla sua stessa volontà di estrinsecare ex-sibi il Dono dell’amore che, tuttavia, diviene parte di-sé e dunque uomo: Adamo, e successivamente Dio stesso in Cristo che s’incarna per riscattare quell’Adamo e riamarlo, offrendo nuovamente un Dono di amore, paradossalmente proprio con la sua stessa Vita. Pertanto nella Passione e nella Morte di Gesù, nella sua vicenda umana che è congiuntamente e inseparabilmente anche divina, si assiste alla rinnovata Genesi, alla donazione nuova della Creazione dell’uomo e del mondo, a quel fiat scaturigine della storia umana e del tempo, con la conseguente trasformazione dell’Amore crocifisso in un Dono: dal fiat del Padre in cui l’uomo era stato creato ed era sorto, quella vicenda umana e quell’evento uomo passano al consumatum est del Figlio, in cui l’uomo ritrova la sua salvezza per la sua nuova Creazione.
Ancora: quel Dono è esattamente Gesù, Figlio di Dio, il quale contempla la sua Passione e la sua Morte come corroborata e ribadita Creazione che al momento della sua salita al Calvario, Cristo riforma e ricrea quel mondo e quell’uomo voluto con un soffio dal Padre e a cui il Padre nel suo Verbo e mediante esso aveva dato vita: infine elemento discreto e forma continua, l’uomo e il mondo, creato e Creazione, alla Resurrezione di Gesù deflagrano tutti insieme in quella luce che intaglia l’impercettibilità di un istante e che permette in quell’attimo inafferrabile il ritorno nuovamente inscindibile del Tutto (Weltall), l’agostiniano “anima del mondo”, la schellinghiana Weltseele, per accadere come quella speciale esplosione del discreto nell’ordine della natura e del mondo, ordine congiunto al continuo nella definizione del tempo all’interno del mondo e dell’uomo nell’universo.
Nel concetto schellinghiano di Weltseele il filosofo tedesco volle imprimere identità alla natura in un mondo creato che avrebbe ancora generato l’adynaton di una dimensione cosmologica della Creazione assente da un Creatore, invece possibile unicamente mediante Dio, essendo unitariamente l’uomo in Lui. Consustanziandosi in una forma perfetta di vita che resuscita nell’amore di Dio Padre, – evento impossibile all’uomo perché la vita di quest’ultimo subordinata alla singolarità di un ciclo nel mondo della natura irreversibile, concretizzare cioè il ritorno dalla morte alla vita –, proprio tale forma perfetta è donata al momento della Resurrezione di Gesù: Gesù scardina l’ordine della natura, condizione possibile solo a Dio perché Creatore della Vita, per divenire Lui stesso nell’ordine del Creato e accadere nella vicenda dell’uomo come quel Dono di amore specificato per l’uomo stesso, ricompiendo così Gesù, esattamente in quell’attimo e in quella dimensione di evento, proprio la stessa genesi della Creazione nella certezza dell’Amore rinnovato.
Il Dono, dunque, ritrova l’uomo e lo riscatta; riscatta quell’uomo creato da Dio insieme alla natura del mondo nello spazio e nel tempo, nel moto e nel discreto dell’universo, nell’uniforme e nel continuo del movimento dei corpi nel tempo e nello spazio. Trattasi, peculiarmente, dell’analessi (ripetizione) rispetto alla condizione ontologica dell’amore di Dio per l’uomo, cioè quella ripetizione costante mediante la quale il Figlio offre nuovamente con il suo Amore sacrificato quello del Padre al fiat, sino al compimento del Figlio stesso che ripercorre per intero la storia d’amore tra Dio e l’uomo, sua Creatura, in quello specialissimo istante in cui l’amore vive costantemente del ritorno, ripetuto (analessi), di sentirsi amato e gioiosamente riamato dall’uomo.
Così la stessa ricerca di Dio da parte dell’uomo reca con sé inevitabilmente un vuoto (il κενόν), un bisogno di rincorrere quanto si suppone andato perduto per sempre o quanto non si è mai stati in grado di possedere, ma che Dio desidera donare ancora: la quotidiana speranza e l’indubitabile certezza del Suo essere approdo perenne per l’uomo già nella sua esistenza, affinché la stessa vita dell’uomo si completi e addirittura si compia (cioè accada) proprio in quella ricerca di Dio e in quell’anelito umano di rinascere in Dio durante la stessa vita.
Lo sguardo verso la nostra interiorità è riconoscimento della caducità del corpo materiale e del suo silenzio. Bellezza e mistero s’intrecciano e l’incantesimo avvolge gli occhi della coscienza, di un io dissolto, naufragato, ma che giusto in questo naufragio lascia una traccia visibile di sé che lo assolve dalla sua colpa perché potrà sempre far ritorno al Padre grazie al compimento avvenuto del sacrificio di Cristo e all’accadimento della sua Resurrezione. È perciò nella metamorfosi del tempo che si osserva lo spazio della propria individualità dilatarsi e caratterizzarsi; nulla pare scomparire inghiottito dallo specchio senza immagini in cui si riflette, morta, la parola degli uomini.
La visibilità del semplice scompare dietro la multiforme varietà di una metamorfosi, dietro tutto quanto conduce quella stessa struttura sempre al di là della sua forma originaria. L’invisibile si cela all’interno dell’origine inespressa della struttura, il meccanismo rivela a quel modo la sua unità in cui la singolarità dei suoi elementi e delle sue funzioni scompare nell’insieme, nel cuore di quella metamorfosi che svuota lo spazio, centellinando il tempo, sorseggiando il vuoto che circonda e che infine racchiude l’esperienza possibile dell’universo.
Prospettive finali: misticismo e uomo creato
Tutto quanto apparentemente immoto risorge per manifestare la propria presenza, affinché si abbia una descrizione perfetta di quelle che sono state la realtà, l’ars poetica e la vita: si può così raccontare a un moribondo cosa sia stata la sua vita, si può essere certi che egli ascolti le nostre parole sperando di trovarvi in esse la soluzione all’enigma dell’intera esistenza, enigma che si scioglie d’ogni artificiale costruzione nell’Amore di Dio e della Sua Creazione. Così ascoltare è più che tacere; si odono le terre e i venti dell’amore, i brusii e i silenzi dell’animaal cospetto di Dio.
E udire diviene allora ascoltare con l’anima della propria memoria.
La natura non soffre alcun velo d’illusione di cui sovente soffrono gli uomini, perché la natura è perfetta offrendo ciò per cui è stata creata a favore dell’uomo, senza mai potersi contraddire con se stessa: un albero di mele darà solo mele e non arance. Ma l’uomo può rovinare la natura di albero di mele e distruggere lentamente e pervicacemente la natura in-sé e per-sé, o addirittura utilizzarla pervertendone il fine, il fine proprio della Creazione. Di fronte alla natura non ci si può mai attendere un evento imprevisto nelle cause e negli effetti: il mare può insorgere improvvisamente e farsi minaccioso all’uomo, ma solo perché un vento, una tempesta possono raggiungere i naviganti improvvisamente. Tuttavia si conoscono le cause e soprattutto quelli che sarebbero gli effetti, prevedendone la loro portata proprio perché ogni evento naturale è preceduto da segni ineludibili nella gravità di possibili conseguenze.
Un uomo invece è imprevedibile come il suo stesso destino; incerto come la sua vita; indeterminabile nelle sue reazioni sia di fronte ad un evento lieto sia di fronte al lutto. Permane, come canta il Salmo 63, un mistero, e si sprofonda senza fine nell’abisso che è il suo cuore. L’uomo è avvolto da un velo di illusioni, meglio: vere e proprie infatuazioni, che si perpetuano nella sua vita, sino ad annebbiarne i suoi sensi, gli ambiti di azione, i margini di manovra e gli obiettivi.
Tale perpetuarsi di nebbie e ombre che apparentemente afferrano come se lasciassero prospettare chiaramente il proprio tragitto di vita, diviene talmente ingannevole che solo quando tutti gli anni si sono consumati in un’avvolgente e infernale impostura, ci si accorge che esattamente di quel velo altro non essere stato che drappo mortuario, di cui non si è stati consapevoli e in grado di liberarsene con un gesto deciso e irremovibile, anche a sacrificio di quanto di più caro si potesse sperare di ottenere e di raggiungere. In fondo solo menzogna di speranza e sortilegio di risultati avvinti e afferrati dalle proprie mani ormai lerce del sangue altrui, vuoi concretamente, vuoi come metafora della conflittualità tra individui.
Il tutto lo si percepisce, quando ormai ogni cammino a ritroso e ogni prospettiva di cambiamento risultano irraggiungibili e senza scampo inaccessibili, quale compiutezza di passi perduti verso veri e propri vaneggiamenti continui, intrappolamenti concentrici e infatuazioni ammorbanti e pruriginose in un gioco del mondo diabolico, che annichilisce ed ha già devastato irrimediabilmente chi vi casca per suoi impulsi (udyama) e chi vi è caduto per sua stessa brama di contingente e cupidigie di carnalità e denari, di successi che perpetuano e rinnovano diabolicamente ambizioni, proprio come una sabbia mobile inghiottisce lentamente ma inesorabilmente l’uomo e lo stesso destino della sua vita.
Un sortilegio costituito da queste sole separazioni dà senso all’attimo della creazione. L’ultima frase equivale allo sgretolamento di un sogno: l’opera al suo inizio, ora al suo termine. In quel sogno resta ancora il simulacro di un’incantata trasformazione del reale che appanna la possibilità che il miserere della propria vita si coniughi al kyrie eleison dell’ultimo attimo percepito possibile. La molteplicità della parola acquisisce la dimensione cosmologica di una forma che tramuta continuamente in fenomeno di epoche, di tempo, di scansione dell’essere e del divenire. Il trucco rischiato di un inganno contro la morte consegue collocare il paradosso di congiunzioni che in realtà disgiungono e allontanano l’onticità della vita dall’onticizzazione della morte, cioè l’entrata di quest’ultima nel senso della vita.
Quante esistenze ci sono in una sola vita?
Molte più dei mesi e degli anni componenti quella vita. Vivere è infatti essere esistiti nella moltitudine delle stagioni, nella pluralità delle metamorfosi e degli elementi corrispondenti quelle metamorfosi, sempre nuovi, diversi eppure riconducibili ad una vita passata osservando il presente, deliziandosi dei ricordi, sperando il futuro.
Non desiderando addentrarsi in queste considerazioni finali nella nozione di “mente”, così comune in Cartesio, Locke e Kant, mente intesa come uno speciale oggetto di studio, collocato nello spazio interno, contenente gli elementi o i processi che rendono possibile la conoscenza, si vuol nondimeno sottolineare come si sia giunti nella mondanizzazione pervicacemente protetta e millantata quale post-modernità, nonostante ogni buon tentativo, a quanto Norbet Elias definì homo clausus, un uomo cioè che ha rifiutato l’esterno del mondo poiché vi si è sovrapposto attraverso processi culturali, finendo con il rendere se stesso “uomo contingente” rispetto alla realtà, e non trascendente. Il processo di civilizzazione, infatti, non sarebbe secondo Elias un processo di civiltà, quanto piuttosto diventerebbe un processo in cui l’osservazione della realtà e del mondo esterno abbia subito uno slittamento di significato: ciò che noi stiamo osservando è proprio ciò che noi abbiamo già in mente di osservare; e la descrizione di un concetto di questo mondo è il concetto che corrisponde al nostro ordine mentale formale, ma non all’ordine universale[39].
Questa incontrovertibile rilevanza non andrà a rinserrare l’osservazione, piuttosto riuscirà ad aprirla al tempo quale concetto trascendente il tempo continuo-del-mondo (cioè il χρόνος), poiché il tempo è concetto, tuttavia contemporaneamente delinea l’ermeneutica del mondo tout court, ed è cardine della cosmologia intesa quale discorso e riflessione sul mondo, dove lo stesso concetto di tempo, però, individua il mondo essendo-nel-mondo, caratterizzando altresì l’universo come sua forma imprescindibile e come suo elemento ineludibile (l’αἰών). Esattamente su tale versante interpretativo, nel corso della trattazione della problematica tempo legata alla Creazione, l’analisi si è andata caratterizzando per essere interpretazione ontologica della forma del mondo, continua nel tempo come sua pienezza in un determinato assetto della sua evoluzione e della sua trasformazione, secondo la pluralità e la variabilità del tempo, nella sua dimensione formante il mondo (nell’accezione greca di κόσμος, cioè ordine), quel tempo che specifica circostanze ristrette della stessa forma continua e della forza storica e fisica del mondo.
Per tale ragione l’attenzione è stata soprattutto poi rivolta a una meditazione generale sul volto dell’eterno che si configura in Cristo: è infatti proprio tale accezione di tempo continuo che scandisce l’avvenire molteplice del mondo e il divenire suo variabile, denotando lo sviluppo della forma, perenne nella continuità del fenomeno che ravvolge ogni luce, permettendone poi l’accadimento. E ciò avviene esclusivamente in Dio. Perciò si è voluto interpretare il percorso del mondo tra tempo e trasformazione, in una dimensione non circoscrivibile unicamente al suo essere, ma anche secondo un elemento discreto del suo tangibile e costante divenire.
Esiste, comunque, una luce che pervade ogni osservazione della sfera dello spazio che si allarga alternandosi però su quanto non ha limite, ma che permea, ciononostante, una dimensione finita: l’uomo, in grado di comprendere e valutare l’universo quale realtà presente, allo stesso modo del mondo afferrato e risolto (nella semantica di erfassen) nella sua illimitatezza, sebbene differenziabile nelle molteplicità del senso e nelle variabilità del tempo e delle sue interpretazioni. Ogni metamorfosi ha il suo tempo che non muta mai e che resta appeso a quella linea che s’intravede chiara e pulita all’orizzonte, luce che sgorga dalla volontà di amore al vertice di questa terra nell’attimo stesso in cui il cielo pare unirsi a essa. Quella stessa luce, però, percepisce pur sempre qualcos’altro quasi ignorato, che aveva canzonato la sua attenzione eppure canonizzato la sua minuziosa osservazione, qualcosa di maggiore che non oppone all’illimitatezza l’indeterminato, che non colpisce la pluralità di osservazioni dello spazio e del tempo, cioè un’isometria che non possiede questi ultimi principi, ma che tuttavia li consuma e li rigenera in una forma del mondo continuamente eterna perché indeterminabilmente accanto all’uomo, accanto a noi sempre presente: il Verbo di Dio e la sua Creazione.
L’evento temporale si traduce, perciò, in un’unità di misura continua di quanto può essere discreto: infatti così come l’entropia rivela uno stato di crisi all’interno di un sistema termodinamico (ma non solo), allo stesso modo l’evento, in-sé sempre entropico, evidenzia elementi discreti del mondo e della natura, cioè proprio le temporalizzazioni che tuttavia permettono le continue trasformazioni della forma del mondo.
Il significato temporale del mondo indica, dunque, il riconoscimento del tempo(Zeiterkennung), sostanza dello stesso concetto: s’individua il concetto e dalla sua interpretazione si ottiene il significato di una temporalità definita, segmentodella forma continua del tempo cosmologico, primo passaggio verso la rivelazione del mondo quale segreto racchiuso nel tempo. Peraltro il confine ultimo aristotelico, l’αἰών, ultimo in quanto però comprendente di ogni possibile confine del cielo, cioè proprio l’intero tempo mistico nella sua pienezza di svolgimento in uno spazio indefinibile, in virtù del fatto di comprendere ogni cosa, questione posta già da Anassagora, ritorna a un livello di riflessione superiore e però nuova, giacché questo limite è “incorporeo” e ci introduce all’Empireo.
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[1] Cfr. Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2008.
[2]Elettra, in Il teatro greco. Le tragedie, a cura di Carlo Diano, Sansoni, Firenze 1975, p. 228. Si veda anche di Giuseppe Fornari, La conoscenza tragica in Euripide e in Sofocle, Transeuropa Edizioni, Massa, 2013, pp. 215 e ss.
[3]Le Trachinie, ibid., p. 249.
[4]Cfr. Śrī Bṛhad-bhāgavatāmṛta, cap. VI, vv. 2, 6.222.
[5] “Egli stringerà una forte alleanza con molti/per una settimana e, nello spazio di metà settimana,/farà cessare il sacrificio e l’offerta;/sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione/e ciò sarà sino alla fine,/fino al termine segnato sul devastatore”, Dn, 9, 27; ma anche ibid., 11, 31; 12, 11; poi Mt, 24, 15.
[6]Gv, 19, 34.
[7] Cfr. Corano, Sura XXIX, vv. 20-23.
[8] Cfr. Corano, Sura LXXVII, vv. 45-50.
[9]Ct, 8, 6-7.
[10] Dice Javier Echevarría: “Non riusciremo mai a farci carico pienamente del male che noi uomini abbiamo commesso nel corso della storia. Gesù, che percepisce in tutta chiarezza quella mole di immondizia scagliata contro Dio, si sprofonda esterrefatto perché la sua perfezione di intelligenza e di amore lo porta a penetrare tutta la degradazione alla quale noi creature abbiamo condisceso. Ma a tanta malvagità, che lo colpisce nell’anima e nel corpo con una sofferenza indescrivibile, risponde con quella pienezza di amore, così immensa da cancellare quella progressione di miserie: Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi (Lc, 5, 20)”, così Javier. Echevarria, Getsemani, Ares, Milano 2011, pp. 219-220.
[11] Platone, La Repubblica, libro X, 615 (a-b), nell’edizione a cura di a cura di Mario Vegetti, Rizzoli, Milano 2007.
[12] Cfr. Géza Roheim, Gli eterni del sogno, Guaraldi, Rimini, 1972.
[13] Cfr. Corano, Sura XVI, vv. 72-99.
[14] Cfr. Corano, Sura LXII, vv. 6-9.
[15] Il mondo è in grado di generare la sua tradizione soltanto stabilendo discontinuità; infatti proprio come la materia, naturata dall’equilibrio degli elementi che la costituiscono, può diventare causa di rottura e disordine attraverso lo squilibrio dei suoi stessi elementi. Cfr. di JorgKerschensteiner, Kosmos. Quellenkritische Untersuchungen zu den Vorsokratikern, Beck, München, 1962, pp. 35 e ss.
[16]Cor, 15, 28.
[17] Si rinvia alle pagine che Giuseppe Fornari dedica al tema dello scandalo, tra bellezza e infinità dell’amore, in Giuseppe Fornari, La bellezza e il nulla. L’antropologia cristiana di Leonardo da Vinci, Marietti, Genova-Milano, 2005, pp. 357 e ss.
[18] Dice Amitav Ghosh: “Per Khieu Samphan e Pol Pot, la morte di Hou Youn e Hu Nim e di migliaia di altre persone che furono uccise nelle camere di tortura o sui luoghi di esecuzione non rappresentava una contraddizione, piuttosto una conferma del loro idealismo e purezza ideologica. Per loro il terrore era la componente essenziale nell’esercizio del potere. Era parte integrante non solo di quel sistema coercitivo, ma dell’ordine morale su cui si fondava il regime; una parte la cui migliore descrizione resta ancor oggi in quel verso che Büchner, il più preveggente degli autori di teatro, mette in bocca a Robespierre (eroe prediletto di Pol Pot): ‘La virtù è terrore, il terrore virtù’, parole che ben si prestano come epitaffio per il ventesimo secolo”, così Amitav Ghosh, Danzando in Cambogia, Linea d’ombra edizioni, Milano, 1994, pp. 60-61.
[19] Ugo Borghello, Liberare l’amore, Ares, Milano 1998, p. 345.
[20] Sulle rivoluzioni dell’uomo contro la natura del suo simile, contro la libertà dell’amore a favore delle libertà ideologiche, giuridiche, libertà che certo non si vuol sopprimere ma che esasperate politicamente finiscono con il sopprimere proprio colui che dovrebbero tutelare e paradossalmente garantire, cioè l’uomo, Amitav Ghosh riporta la testimonianza di Onesta Carpene, una volontaria cattolica italiana in missione in Cambogia nei mesi susseguenti alla caduta del regime di Pol Pot: “Non potevo pensare che in una situazione del genere la gente pensasse alla musica ed alla danza. Eppure la gente continuava ad affluire in teatro che era ormai strapieno. All’interno faceva un caldo insopportabile. Eva Mysliwic, una quacchera, era anche lei presente con me. Quando il primo musicista mise piede sul palcoscenico sentì intorno a sé la gente che singhiozzava. Poi, quando comparvero i ballerini con i loro costumi laceri, confezionati in casa alla meno peggio, tutti scoppiarono in lacrime: vecchi, bambini, giovani, soldati. Si sarebbe potuti uscire dal teatro in barca a remi. Quelli che mi sedevano accanto mi dissero: Pensavamo che fosse tutto perduto, che non avremmo mai più riascoltato la nostra musica, né rivisto la nostra danza. Mi accorsi che il pubblico pianse singhiozzando terribilmente per tutto l’intero spettacolo. Fu una sorta di rinascita, un momento in cui il dolore di sopravvivere si fuse inestricabilmente con la gioia di vivere”, così Amitav Ghosh, cit., p. 64.
[21] Aristotele, Fisica, a cura di Luigi Ruggiu, Mimesis Edizioni, Milano, 2007, pp. 243-249. Su questo si rinvia all’ascolto dell’opera di Arvo Pärt, Da pacem, Domine (2004), in Da pacem, Estonian Philharmonic Chamber Choir, Paul Hillier, 2006.
[22] Cfr. Giuseppe Fornari, La bellezza e il nulla. L’antropologia cristiana di Leonardo da Vinci, cit., pp. 316-322.
[23]Es, 37, 24; Mt, 25, 18-28.
[24] “Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui.In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”, Eb, 9, 24-26. Imprescindibile ritengo qui l’ascolto di La Sindone(2006), specialmente quel che accade di strabiliante dal minuto 13 sino al 15.40, del compositore estone, già citato, Arvo Pärt, il quale con rare forze timbrica e sonora disvela la forza della luce della resurrezione, annunciata in quel velo che colma di salvezza la storia dell’uomo.
[25] “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me”, Gv, 12, 44-50. Si veda anche Gv, 8, 12-20.
[26] Cfr. Aristotele, Il cielo, a cura di Alberto Jori, Bompiani, Milano 2002; Aristotele, Fisica, cit.; Platone, Timeo, Platone, Timeo, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani testi a fronte, 2000.
[27] Così Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana (1957), Laterza, Roma-Bari 1987, p. 227.
[28] “Ciò che vi è di tragico nella morte è che trasforma la vita in destino”, così André Malraux, La condizione umana (La condition humaine, 1933), citato in Jean.-Paul Sartre, L’essere e il nulla, (1943), trad. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 2008, p. 153.
[29] Cfr. supra nota 28, e anche J.-P. Sartre, op. ult. cit., p. 160.
[30] Cfr. Jorge Luis Borges, Sette notti, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 33.
[31] Cfr. Aristotele, Fisica, cit., p.75.
[32]Ibid., p. 249.
[33] “Inoltre, che cos’è che muove l’infinito? Se l’infinito si muove da sé, sarà animato. Ma come può esistere un vivente infinito? Se invece è qualcosa di diverso che lo muove, si avranno due infiniti, il motore e il mosso, differenti per forma e potenza”, così Aristotele, Il cielo, cit., p. 171. Su tali questioni si rinvia alla critica posta da Santo Mazzarino in idem, Il pensiero storico classico, vol. III, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 453-457.
[34]Ibid., pp. 145 e 173.
[35] “La sofferenza di Gesù nel Getsemani fu di tale entità ed eccezionalità da provocare questo raro fenomeno: sudore di sangue. Sangue di Gesù che affiora sul suo volto e cade in terra; sangue che è un’altra – o l’identica – manifestazione del rinnovato ‘sì’ di Gesù al piano di redenzione del Padre e che si sparge già a remissione dei nostri peccati, anticipando la Croce”, così Javier Echevarria, cit., p. 247.
[36] Cfr. Edith Stein, Scientia Crucis, Ed. OCD, Roma 1998, p. 205. Cfr. di Fernando Inciarte, Unsterblichkeit der Seele und Auferstehung des Leibes, in Leben zur Gänze.Das Leib-Seele-Problem, vol. 7, Religion, Wissenschaft, Kultur, Schriftenreihe der Wiener katholischen Akademie, ed. G. Pöltner, H. Vetter, Präsidium der Wiener Katholischen Akademie, Wien/München, Herold, 1986, p. 82-95.
[37]Paradiso, XXXIII, 85–91.
[38] Friedrich W. J. Schelling, Ideen zu einer Philosophie der Natur als Einleitung in das Studium dieser Wissenschaft, Krüll, Ladshut 1803, pp. 35-48, (cfr. trad. it. a cura di Giulio Preti, in Friedrich W. J. Schelling, L’empirismo filosofico e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze 1967; ma si è anche esaminata un’altra traduzione italiana specifica del testo schellinghiano a cura di Carlo Tatasciore, Friedrich W. J. SchellingFilosofia della natura e dell’identità. Scritti del 1802, Guerini e Associati, Milano, 2002, in particolare pp. 56 e ss.).
[39] Cfr. Norbert Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 45 e ss.