Coordonat de Federico SOLLAZZO
Volum IV, Nr. 4 (14), Serie nouă, 2016
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L’antropotecnica e le sue declinazioni in Sloterdijk
(Anthropotechnics and its declinations in Sloterdijk)
Maria Teresa PANSERA
Abstract: Sloterdijk considers human beings to be the only beings that have succeeded in detaching themselves from the evolutionary development of their own species by means of a new way of relating with the environment that surrounds them. This process, which allows them to pass from a natural environment to a cultural society, is expressed by the term “anthropotecnichs”, a concept that can be considered the leitmotif that is present in all of his work and is fundamental for the understanding of his thinking.
The way in which the relation is carried out between the technique and the world involves not only an enslavement of nature, but also a possible use of the human being as an available “base” on which to operate with the most modern technological procedures. From here the disquieting panoramas that could conceivably result from the development of an anthropotechnology, which could reach the point of an ecological catastrophe or a genetic mutation for our species. In his last works Sloterdijk entrusts to human beings, considered in their ability to act upon themselves by means of philosophical practices and “athletic” exercise, the hope of passing beyond the abyss and thus opening a new horizon, which should allow them to confront the challenges presented by our disquieting times, by means of procedures capable of actualizing the potentialities of nature without forcing or modifying it.
Keywords: Anthropotechnics, Globalization, Production, Provocation.
Peter Sloterdijk è uno degli studiosi più interessanti e poliedrici nell’ambito del panorama culturale contemporaneo. Le sue riflessioni si articolano sulla possibilità di una nuova filosofia critica che, ponendosi nel filone della Teoria critica classica,1 vada oltre e getti le basi per una nuova impostazione delle problematiche inerenti la costituzione del soggetto singolo e collettivo, analizzi le diverse immagini del mondo che si sono storicamente succedute e infine descriva approfonditamente, a livello storico, sociale e psicologico, il processo di globalizzazione e la successiva costellazione post-storica, espressa nel concetto di schiuma, entità interconnessa e multisfaccettata di microindividualità instabili e residuali rispetto a un’epoca irrimediabilmente giunta al suo termine.2
Per Sloterdijk l’intera storia dell’Occidente può essere vista come una lunga sequenza di ondate di globalizzazione. Nel momento in cui la Terra ha svelato la sua sfericità, ha cessato di essere bella e perfetta, ma è sicuramente divenuta più interessante ed è per questo che
nell’età moderna non sono più i metafisici, bensì i geografi e i marinai coloro ai quali tocca il decisivo compito di fornire un’immagine del mondo: la loro missione è quella di presentare in immagine l’ultima sfera.3
Il passaggio da una visione aurorale del mondo ad una pragmatica e calcolante si afferma quando «la globalizzazione terrestre costituisce proprio la vittoria dell’interessante sull’ideale»4 cioè quando la Terra di cui si constata la rotondità non è più bella, liscia e perfetta ma interessante, sia pure contaminata da crepe, cicatrici, irregolarità. Il globo esplorato e conosciuto in ogni angolo diventa «come un segreto orologio che in uno spazio lontano, sotto le immagini dei mari, delle isole e dei continenti, batte le ore del profitto».5
Il mercato globale ha avuto origine proprio con le scoperte geografiche, quando il denaro inizia a girare intorno alla Terra e l’allargarsi degli orizzonti diviene ragione di profitto. In questo panorama di spaesamento e di crescente sfruttamento, l’uomo non può far altro che sentirsi disorientato per la perdita di contatto con un mondo che gli appare completamente diverso da quello che gli è stato tramandato e con la perdita del legame con la Terra e con il mondo l’essere umano perde drammaticamente anche la sua consistenza. La contingenza è la cifra della moderna condizione umana, esposta sull’orlo dell’abisso (cosmologico) che è perdita di mondo e di centro. L’uomo diviene così un para-soggetto incerto e frantumato di una storia universale della contingenza.6 Il mondo moderno, dunque, è un luogo dove l’assoluta esteriorità ed estraneità hanno preso il sopravvento sulla familiarità e la vicinanza; nell’era post-metafisica gli uomini non possono più costruire nulla a partire dalla loro esigenza di intimità e debbono fare i conti col fatto che, ovunque siamo o ci troviamo, ci viene incontro l’estraneo.
Questo scenario dell’età moderna, i cui simboli sono mappamondi e planisferi, spazza via modelli, visioni del mondo, credenze, barriere, confini e protezioni e muta con insolita radicalità la posizione dell’uomo nel mondo. L’epoca del globo – sostiene Sloterdijk – è un’epoca di assoluto spaesamento degli uomini che non riescono più a sentirsi a casa negli “spazi interiori del mondo” che sono stati loro tramandati. La mutazione antropologica è senza precedenti e si ricollega alla realizzazione di una antropotecnica, una nuova tecnologia che potrebbe arrivare a pianificare e a progettare le caratteristiche dell’umanità futura, fino a cancellare il fatalismo e la casualità nella nascita e sostituirli con la scelta predeterminata e la conseguente selezione dei caratteri ereditari. Le nuove tecnologie, dunque, non sono più rivolte soltanto verso il dominio della natura esterna, ma anche verso la manipolazione della natura umana, della stessa sfera del bios.
Sloterdijk considera l’uomo come l’unico essere che sia riuscito a staccarsi dalla linea evolutiva seguita dalla propria specie per mezzo di un nuovo modo di rapportarsi con l’ambiente che lo circonda. Questo procedimento, attraverso cui si passa da un ambiente naturale ad una società culturale è espresso dal termine “antropotecnica”. Questo concetto può essere considerato come una cifra che percorre tutto il suo pensiero e che è fondamentale per la sua comprensione.
L’espressione antropotecnica spiega quello che è un semplice teorema dell’antropologia storica, secondo il quale “l’uomo” è da capo a piedi un prodotto e, nei limiti del sapere odierno, può essere compreso solo seguendo in maniera analitica il suo processo produttivo e i suoi rapporti di produzione. […] Difatti “l’uomo” in quanto specie, e in quanto matrice degli individui possibili, è una grandezza che non può mai darsi nella semplice natura, e che si è potuta formare solo come effetto di ritorno di prototecniche spontanee nelle “comunità abitative” con cose e animali, in processi di formazione lunghissimi, in cui ben presto si mostra una tendenza paranaturale.7
Il concetto di humanitas sarebbe quindi il prodotto di tecniche di addomesticamento, di addestramento e di educazione altamente selettive, come ad esempio la lettura, la scrittura, il contare, il prestare attenzione e tutti quegli altri aspetti che rientrano nel concetto generale di cultura e che permettono l’istituzione della società civile.
Delle tecniche di formazione dell’uomo che agiscono a livello culturale fanno parte le istituzioni simboliche come le lingue, le storie di fondazione, le regole matrimoniali, le logiche di parentela, le tecniche educative, la codificazione dei ruoli per sesso ed età e, non ultimi, i preparativi per la guerra, così come i calendari e la divisione del lavoro; tutti quegli ordinamenti, tecniche, rituali e abitudinarietà insomma con cui i gruppi umani hanno preso “in mano” da soli la propria formazione simbolica e disciplinare. E con questa mano, potremmo dire più esattamente, essi stessi sono diventati per la prima volta degli uomini appartenenti a una cultura concreta. Questi ordinamenti e forze formative vengono indicati in modo appropriato con l’espressione di antropotecniche.8
A partire dalla mano che afferra la pietra, l’uomo ha sempre cercato di superare i limiti imposti dall’ambiente naturale e, attraverso l’uso delle più moderne tecnologie, ha avviato quel processo di “domesticazione” che lo ha portato a far parte del “parco umano”. «Se ‘c’è’ un uomo è solo perché una tecnica l’ha prodotto a partire dalla preumanità»,9 egli, quindi, non si dà mai come semplice essere naturale, ma, al contrario, è sempre il risultato di un artificio, per cui l’agire tecnico è, come sostiene anche Gehlen,10 la vera essenza dell’uomo, in quanto gli permette di superare i suoi inadattamenti, primitivismi e carenze grazie alla sua capacità di creare un modo culturale.
Se la tecnica è secondo Heidegger un «modo del disvelamento»,11 intendendo così un produrre e rendere presente l’ente attraverso l’uso di strumenti adeguati, per Sloterdijk la storia della civiltà è rappresentata da un susseguirsi di forme diverse di antropotecnica. Nel suo saggio La questione della tecnica Heidegger aveva sottolineato come per l’uomo “essere nel mondo” significhi prendersi cura delle cose, manipolarle trasformarle ed essere così in relazione con l’ambiente che lo circonda. Ciò che qualifica l’esistenza umana consiste proprio in questa capacità di progettare, di trascendersi, di superare la propria singolarità e di procedere verso il mondo, facendo di esso il progetto delle proprie azioni e delle proprie possibilità.
Quindi, per Heidegger, l’uomo è provocato dall’essere a ricercare le diverse forme dell’ente o, in altri termini, a rivelare gli enti nel loro essere, sperimentandosi egli stesso come esserci (Dasein). Pur essendo per sua natura ciò che vi è di più inquietante, non prende l’iniziativa in prima persona e sarebbe costretto a rimanere nella sfera dell’inautenticità e della banalità, se non avesse ricevuto quell’iniziale provocazione. Il mezzo attraverso cui l’uomo realizza questa ricerca è la tecnica, nel senso della techne, intesa come produzione o poiesis. Essa può prendere la forma dell’arte o della conoscenza, resta comunque un modo dello svelamento, è aletheia. La tecnica appartiene, dunque, al campo ontologico ed è quindi inseparabile dall’essere e dal suo manifestarsi nella storia.
Per Heidegger la tecnica moderna, dunque, non è una produzione di tipo “poietico”, ma è una pro-vocazione, la quale pretende dalla natura che fornisca energia che possa essere estratta e accumulata. L’attuale tecnologia rappresenta così il compimento, la conseguenza della volontà di potenza che provoca l’essente e lo mette al proprio servizio. È il regno dello strapotere del soggetto che riduce l’oggetto al suo dominio; l’ente è completamente sopraffatto dalla volontà di potenza del soggetto che lo utilizza per accrescere il suo potere. Se anticamente il contadino «nel seminare il grano affidava le sementi alla forza di crescita della natura che veglia sul loro sviluppo», oggi la scienza meccanizzata dell’alimentazione «è presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione che richiede la natura. Essa richiede la natura nel senso della provocazione».12
La natura provocata dalla tecnica moderna viene aperta e da essa viene estratto quanto l’uomo richiede secondo il principio della «massima utilizzazione con il minimo sforzo».13 La provocazione implica il trarre fuori le energie richieste e trovare il modo di utilizzarle in base alle necessità. La differenza che c’è tra l’antico ponte di legno che unisce le due opposte rive del Reno e la centrale elettrica, impiantata nelle acque dello stesso fiume, mette chiaramente in luce la differenza tra disvelamento pro-ducente e disvelamento pro-vocante. Il ponte si inserisce in un contesto naturale e sembra quasi venir a completare il paesaggio, come se l’opera dell’uomo agisse di concerto con quella della natura; la centrale elettrica, invece, «è impiantata»14 nelle acque del Reno, a cui si richiede di fornire la pressione idrica necessaria per far girare le turbine che producono la corrente elettrica. In questo caso il fiume è impiegato al fine di produrre una certa quantità di energia elettrica occorrente per soddisfare il fabbisogno di una certa regione.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen, del “richiedere” nel senso della provocazione. Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni.15
Si evidenzia così la differenza tra disvelamento pro-ducente e disvelamento pro-vocante, tra l’antica e la moderna concezione della tecnica. La prima asseconda la natura, di cui seguiva la forza, che impiegava dopo averla estratta, senza accumularla. La seconda tratta la natura come fondo a disposizione (Bestand), dove l’energia es-tratta è accumulata e disposta in modo da poter essere commissionata in qualsiasi momento si decida di farlo. Questo disvelamento aggressivo che spinge a considerare la natura come un fondo, un deposito di energie da sfruttare, impedisce a qualsiasi altra forma di disvelamento di tipo poietico di venire ad utilizzarlo, rendendo, quindi, impossibile accogliere un altro messaggio, mettere in atto un diverso tipo di approccio.
L’uomo è colui che compie il richiedere provocante, che svela il reale come «fondo» e tuttavia «solo nella misura in cui l’uomo è già, da parte sua provocato a mettere allo scoperto le energie della natura, questo disvelamento impiegante può verificarsi».16 Tutto ciò non può significare un semplice ridurre l’uomo stesso a fondo, cioè ad un suo utilizzo passivo al pari di ogni altra realtà fisica. L’uomo che provoca la natura compie tale azione non perché è egli stesso un “fondo” da impiegare, ma perché vive nella dimensione della provocazione. Questa provocazione rivolta all’uomo è diversa da quella che la natura riceve dall’uomo stesso; in quanto quest’ultimo è provocato in modo più originario, non diventa mai un puro fondo, ma prende parte all’impiego come modo del disvelamento.
La tecnica moderna non è, quindi, soltanto un operare umano, una dimensione esclusivamente antropologica, ma un elemento essenziale della civiltà moderna, capace di ridefinire lo stesso concetto di ente. L’uomo impiega il reale come fondo da utilizzare, ma non diviene a sua volta fondo, la sua azione si compie sempre in risposta ad un appello. A questo punto l’analisi heideggeriana supera ed abbandona la concezione esclusivamente antropologico-strumentale della tecnica, in quanto l’essenza della tecnologia definisce storicamente il destino dell’uomo. Si tratta di scoprire, all’interno del rischio e del pericolo che la tecnologia rappresenta per l’umanità, il principio della salvezza.
Vi è, infatti, un’ambiguità nella provocazione tecnico-scientifica, che la fa essere contemporaneamente pericolosa, ma anche aperta ad assumere il suo ruolo di guida verso l’autentico destino dell’uomo. Il pericolo insito nel disvelamento, che diventa massimo nel dominio dell’im-posizione, è che l’uomo, precludendosi ogni altra possibilità, rimanga chiuso nell’alienazione tecnica. La vera minaccia per l’uomo non è costituita dagli apparati e dalle macchine, che possono esporre a danni anche mortali, ma dal dominio dell’imposizione su cui si fonda «la possibilità che all’uomo possa esser negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale».17
Nell’essenza del pericolo si cela dunque la possibilità di una svolta (Kehre) nella quale la dimenticanza dell’essere si rivolta in modo tale che con questa svolta la verità dell’essenza dell’essere si raccoglie (einkehrt) espressamente nell’ente.18
La tecnica, nella sua essenza, è un “conoscere” che porta l’uomo a prender parte al disvelamento; ed è proprio in questa partecipazione che egli viene adoperato, salvaguardato e, così, “traspropriato all’evento della verità”. Ciò che salva, quindi, si annuncia nella tecnica, ma solo come ciò che profondamente si nasconde e, insieme, si sottrae. L’uomo deve cercare, quindi, di penetrare nel mistero della tecnica per comprendere la «costellazione in cui accade disvelamento e nascondimento, in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità».19
L’impianto è il pericolo non in quanto tecnica bensì in quanto essere. L’elemento essenziale del pericolo è l’essere stesso, nella misura in cui dà la caccia alla verità della sua essenza con la dimenticanza di questa essenza. L’essenza della tecnica è chiamata con lo strano nome di Ge-stell, “impianto”, proprio perché tale essenza non è niente di meno che l’essere stesso.20
L’abbandono e il mistero permettono all’uomo di rapportarsi in modo diverso agli sviluppi della tecnica. «Quando nella svolta del pericolo lampeggia la verità dell’essere, l’essenza dell’essere si apre nella radura, e la verità dell’essenza dell’essere si raccoglie».21 Ebbene l’essenza della tecnica risiede in ciò che tecnico non è, in quanto «tutto ciò che è soltanto tecnico non giunge mai a penetrare nell’essenza della tecnica»;22 infatti mentre avverte la dimensione alienante, reificante e oggettivante della civiltà tecnologica, l’uomo è già trasportato in una dimensione «altra» e si concentra, attraverso un «pensiero incessante e appassionato», sulla verità dell’essere che si annuncia come «mistero» e che si può ascoltare soltanto in un atteggiamento di essenziale abbandono (Gelassenheit).23
Riprendendo la concezione heideggeriana secondo cui l’uomo come essere-nel-mondo, pur relazionandosi con l’esterno, mantiene sempre la sua essenza ontologica, Sloterdijk approfondisce gli aspetti del venir al mondo dell’umano esaminandoli, per così dire, dal basso. Se la venuta al mondo dell’uomo ha il carattere della Lichtung, di un’apertura verso la luce proveniente dalla radura dopo il fitto buio del bosco, tutto ciò non è un segno della priorità ontologica dell’essere-uomo, ma diviene per l’autore di Karlsruhe la condizione fisica, neurologica e tecnica della specie umana, che per costituzione sperimenta il suo venir al mondo come un’irruzione fuori dal grembo materno.24
Bisogna ora chiedersi attraverso quali processi ci si può liberare dalle pastoie del mondo naturale per andare verso il mondo culturale, in che modo “qualcosa di preumano”, “qualcosa di premondano”, “qualcosa di animale” si supera come tale e si apre verso l’uomo? Per Sloterdijk, diversamente da Heidegger, il fenomeno umano non può essere declinato in senso ontologico o ermeneutico, ma va inteso esclusivamente in senso antropologico, come risultato di cause concrete, di azioni e situazioni gestite in modo tecnico. Da tutto ciò deriva «il principio secondo cui l’uomo è un prodotto, naturalmente non un prodotto finito, ma aperto a ulteriori elaborazioni»25 e quindi il concetto di antropotecnica emerge in tutta la sua importanza. Al suo interno si distinguono le antropotecniche primarie e le antropotecniche secondarie.
Possiamo collocare le antropotecniche primarie all’interno delle allotecniche, inserendo in questa categoria sia il relazionarsi dell’uomo sia con se stesso che con il mondo circostante attraverso meccanismi tecnologici di modificazione trasformazione del dato naturale. Tutti questi procedimenti tecnici sono caratterizzati dall’esigenza di modificare quanto è stato dato dalla natura in qualcosa di artificiale più consono alle proprie esigenze e necessità. Se queste esigenze riguardano esclusivamente l’uomo abbiamo l’antropotecnica primaria.
Le antropotecniche primarie compensano ed elaborano la plasticità dell’uomo, nata attraverso la ridefinizione dell’essere vivente “uomo” nell’evoluzione nelle serre. Tali tecniche possono chiamarsi così poiché indicano il modellamento diretto dell’uomo attraverso una messa in forma civilizzante: esse raccolgono ciò che tradizionalmente, ma anche nella modernità, viene reso con espressioni come educazione, allevamento, disciplinamento, formazione.26
Mentre, quando ci riferiamo ad una tecnica più generale che si serve della natura come un fondo a sua disposizione, come un materiale pronto ad essere usato e sfruttato, intendiamo l’allotecnica, questo termine corrisponde a quello di disvelamento provocante usato da Heidegger. Si riscontra qui una profonda consonanza tra i due autori, in quanto per entrambi non è possibile impedire il divenire della tecnica, non è possibile evitare il dispiegarsi dell’allotecnica, in tal senso in essa è implicito il destino dell’uomo, ma anche il pericolo che essa comporta. Nella volontà di dominio e nel furioso movimento dell’impiegare che caratterizzano la realizzazione dei manufatti tecnologici risiede il nucleo distruttivo della tecnica che «traspone il mondo delle cose in una condizione di schiavismo ontologico».27
Mentre Heidegger vede la possibilità di salvezza dell’uomo nel recupero di quella dimensione di mistero e di abbandono che lo “traspropria” all’evento della verità, Sloterdijk sostiene la necessità di una riforma dell’ontologia, che permetta il superamento del dualismo tra una natura-oggetto e un uomo-soggetto, che la usava come un Bestand, un fondo a disposizione. La modalità di questo rapporto tra la tecnica e il mondo comporta non solo un asservimento della natura, ma anche un possibile uso dell’uomo come fondo a disposizione su cui operare con i più moderni procedimenti tecnologici. Di qui l’antropotecnica secondaria e gli inquietanti scenari da essa ipotizzati.
Se poi lo sviluppo a lungo termine condurrà anche alla riforma genetica dei caratteri della specie, se una futura antropotecnologia giungerà fino a un’esplicita pianificazione delle caratteristiche umane, e se l’umanità, dal punto di vista della specie, potrà compiere il sovvertimento dal fatalismo della nascita in una nascita opzionale e in una selezione prenatale, tutte queste sono questioni nelle quali inizia ad albeggiare l’orizzonte dell’evoluzione, anche se in modo ancora confuso e inquietante.28
Queste antropotecniche secondarie si basano sullo sviluppo delle biotecnologie e sulle moderne conquiste dell’ingegneria genetica, le quali, per la prima volta nella storia, permetteranno all’uomo di collaborare alla sua stessa evoluzione. Ora egli è in grado di affrontare il tema di una selezione genetica dei caratteri umani, che potrebbe addirittura portare ad un “parco” uomini progettato con determinate caratteristiche. Infatti «non è poi così sorprendente che questa traccia si sviluppi in particolare come un discorso sulla custodia dell’uomo e sul suo allevamento».29
Una tale provocazione deriva direttamente dalla costituzione antropotecnica dell’essere umano che lo ha portato fin sulla soglia del pericolo maggiore: mettere a rischio la sua stessa vita. Il progresso della tecnica sembra non essere più controllabile, cresce lo spazio dell’estraneo, l’estensione dell’inabitabile, aspetti che anche Heidegger ha evidenziato come spossatezza, assenza di patria, epoca della metafisica compiuta.30 In questo difficile momento ciò che può salvarci è ancora la tecnica, che Sloterdijk identifica come “omeotecnica” in contrapposizione all’“allotecnica”, una tecnica in grado di utilizzare le cose senza provocarle, senza assumere nei loro confronti un atteggiamento provocante e violento.
In antitesi con il concetto di tecnica come allotecnica Sloterdijk introduce come possibilità alternativa l’omeotecnica. Quest’ultima,
poiché ha a che fare con un’informazione realmente esistente, procede solo sulla via del non fare violenza a ciò che ha davanti. Essa apprende intelligentemente l’intelligenza e produce nuove occasioni di intelligenza: difatti è solo come non-ignoranza che essa può avere successo di fronte all’informazione incarnata. L’omeotecnica deve rifarsi alle strategie co-intelligenti e co-informative anche là dove viene applicata in modo così egoistico e regionale come in ogni tecnica convenzionale; dunque ha più il carattere di una cooperazione che della signoria, anche nei rapporti asimmetrici.31
Anche se l’autore non chiarisce quali siano effettivamente le omeotecniche, possiamo dire che essa è costituita da
un insieme di pratiche che vanno dalla biologia all’ecologia e rappresenta l’orizzonte di un nuovo umanismo, in cui la (co)scienza della complessità del vivere-insieme nel medesimo Umwelt potrebbe fare da molla per il cambiamento delle modalità di comprensione dei rapporti uomo-ambiente in direzione di prassi che non vedano più nelle possibilità di asservimento del mondo della cosalità (natura/animale/alterità) la via per il futuro umano.32
Sviluppare l’omeotecnica diviene una necessità per noi che viviamo quotidianamente nel rischio di una catastrofe ecologica per il nostro pianeta e di un mutamento genetico per la nostra specie; in questa direzione si colloca il testo di Sloterdijk del 2009 Devi cambiare la tua vita33 dove l’antropotecnica assorbe le istanze omeotecniche attraverso una nuova prospettiva che non considera più gli individui nella loro costituzione psico-biologica e sociale, ma nella loro capacità di agire su se stessi attraverso le pratiche filosofiche e l’esercizio atletico.
Con un concetto di esercizio ben fondato dal punto di vista antropologico acquistiamo finalmente uno strumento idoneo per oltrepassare il baratro, che si presume metodologicamente insuperabile, tra i fenomeni immunitari di origine biologica e quelli di origine culturale, quindi tra i processi naturali da un lato e le azioni dall’altro.34
Al concetto di esercizio sono connessi quello di ascesi e quello di acrobatica; l’inserimento dell’esercizio nell’ambito dell’antropotecnica porta il superamento di quelle primarie e secondarie in quelle terziarie. Le antropotecniche terziarie sono le pratiche per mezzo delle quali
l’uomo produce l’uomo attraverso una vita di esercizi. Definisco “esercizio” ogni operazione mediante la quale la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio.35
Il concetto di antropotecnica va sempre declinato in accordo con quello di esercizio, in quanto gli uomini non possono fare a meno di esercitarsi in quanto «l’essere umano è un animale che si esercita».36 Le pratiche attraverso cui gli uomini agiranno su se stessi porteranno cambiamenti nella loro esistenza, nella mentalità del loro tempo, nelle strutture sociali di cui fanno parte. L’esercizio diviene così la costante antropologica dell’essere umano, di un soggetto al contempo singolare e plurale, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra singolarità e collettività, tra unità e molteplicità. Al centro di questa pluralità di differenze vi è l’antropotecnica, come una corda che l’essere umano deve percorrere conservando a fatica l’equilibrio. «In qualunque luogo si incontrino membri del genere umano, essi rivelano ovunque i tratti di un essere condannato a compiere una fatica surreale. Chi cerca esseri umani troverà acrobati».37
Le antropotecniche terziarie assorbono così le omeotecniche e aprono un nuovo orizzonte che, partendo da un complesso lavoro su se stessi, dovrebbe permetterci di affrontare le sfide che il nostro inquieto tempo ci pone, di agire con procedimenti in grado di attualizzare le potenzialità della natura senza forzarla o modificarla. Con questo nuovo tipo di approccio Sloterdijk sostiene l’impossibilità di piegare la natura ai propri fini, come l’uomo faceva in precedenza, mentre favorisce la possibilità di usare i mezzi naturali solo per quegli scopi che essi sono capaci di produrre. Tuttavia ipotizzare questa svolta è comunque utopistico, l’orizzonte in cui si delinea il concetto di omeotecnica è indubbiamente incerto e inquietante, in quanto permangono i pericoli dovuti alla tecnica intesa come prevaricazione e aggressione, ma questa prospettiva deve essere superata se vogliamo sperare che gli uomini di domani abbiano un mondo in cui vivere e anche nella tecnica possano trovare una via di salvezza.
Dopo che la modernità, con il suo illimitato sperimentare, ha fatto esplodere i sistemi di misura della vecchia Europa, la saggezza del futuro sarà nel contemperare l’uno con l’altra l’eccesso e l’avvedutezza. La società mondiale sarà una società dell’avvedutezza o non ci sarà affatto.38
Note
1 Vogliamo inoltre ricordare la polemica che sorse tra uno dei più importanti rappresentanti della Teoria critica, Jürgen Habermas, e Sloterdijk dopo che quest’ultimo pubblicò nel 1999 Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’umanismo di Heidegger (in Id., Nichtgerettet. Versuche nach Heidegger, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001, trad. it. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano, 2004). Nella sua opera Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (Die Zukunft der menschlichen Natur: Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001, trad. it. Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino, 2002) Habermas si interroga sui problemi che una pianificazione delle nascite potrà creare in una società futura e sui rischi che le pratiche relative all’ingegneria genetica potrebbero avere sia sul piano etico che politico. A suo parere l’intervento sul patrimonio genetico di un individuo può essere condivisibile solo nella prospettiva di eliminare tare ereditarie con il possibile consenso della persona interessata, mentre per Sloterdijk l’uomo è interamente un prodotto, è quindi impossibile considerare l’esistenza di una natura umana indipendente dalle determinazioni antropotecniche che la modificano fin dalla sua origine e la programmano per il futuro.
2 Cfr. P. Sloterdijk, Sphären I – Blasen, Mikrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1993, trad. it. Sfere I. Bolle, Meltemi, Roma, 2009; Id., Sphären II – Globen, Makrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1999; Id., Sphären III – Schäume, Plurale Sphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004.
3 P.Sloterdijk, Die letzte Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, in Id., Sphären II, Globen, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001, trad. it. L’ultima sfera. Breve storia della globalizzazione, Carocci, Roma, 2005, p. 17.
4 Ibid., p. 15.
5 Ibid., p. 49.
6 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, éd. de Minuit, Paris, 1980, trad. it. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1987.
7 P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, cit., p. 121.
8 Ibid., pp. 158-159.
9 Ibid., p. 177.
10 Cfr. A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter, Rowohlts, Hamburg, 1957, trad. it. L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma, 2003.
11 M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Id., Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen, 1954, trad. it. La questione dellatecnica, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 9.
12 Ibid., p. 11.
13 Ibid.
14 Ibid.
15 Ibid., p. 12.
16 Ibid., p. 13.
17 Ibid., p. 21.
18 M. Heidegger, Die Kehre (1949), trad. it. La svolta, in Id., Bremer und Freiburger Vorträge, Klostermann, Frankfurt am Main, 1994, trad. it. Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002, p. 101.
19 M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 25.
20 Id., Die Gefahr (1949), trad. it. Il pericolo, in Id., Bremer und Freiburger Vorträge, cit., trad. it. Conferenze di Brema e Friburgo, cit., p. 90.
21 Id., Die Kehre (1949), trad. it. La svolta, in Id., Bremer und Freiburger Vorträge, cit., trad. it. Conferenze di Brema e Friburgo, cit., p. 104.
22 Ibid., p. 107.
23 Id, Gelassenheit (1955), Neske, Pfullingen, 1959, trad. it. L’abbandono, Il Melangolo, Genova, 1998, p. 40.
24 P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, cit. p. 218.
25 Ibid., p. 132.
26 Ibid., p. 159.
27 Ibid., p. 178.
28 Ibid., p. 260.
29 Ibid., p. 261.
30 Cfr. M. Heidegger, Brief über den “Humanismus” (1947), Klostermann, Frankfurt am Main, 1976, trad. it. Lettera sull’“umanismo”, Adelphi, Milano, 2005.
31 P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, cit. p. 179.
32 A. Lucci, Un’acrobatica del pensiero. La filosofia dell’esercizio di Peter Sloterdijk, Aracne, Roma, 2014, p. 107.
33 P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über anthropotechnik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2009, trad. it. Devi cambiare la tua vita, Cortina, Milano, 2010.
34 Ibid., p. 15.
35 Ibid., p. 7.
36 A. Lucci, Un’acrobatica del pensiero, cit., p. 148.
37 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 19.
38 P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, cit., p. 238.
Bibliografia
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