Coordonat de Gabriella FALCICCHIO & Viorella MANOLACHE
Volum IV, Nr. 3 (13), Serie nouă, iunie-august 2016
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The responsibility for one’s words. A nonviolent proposal for a new linguistic dynamics
Alessandro PERTOSA
Abstract. The article deals with the complex dynamics between violence, power and the words we use in everyday life. According to the violent Western culture we belong to, not always aware of our responsibilities, language is metaphorically a murderous dispute between speakers struggling to assert an incontrovertible truth, although they have no monopoly on it. Those who talk with pretensions to truth have a fundamentalist attitude and speak in a belligerent manner. Basically we can avoid it only by changing our reference conceptual system as well as the way we observe reality.
A sort of linguistic violence occurs because dialogue takes place “in a state of war” according to the stringent logic of the principle of non-contradiction. But we should consider the multifaceted dimensions of reality and also that complexity cannot be said once and for all, nor can it be resolved according to the principle of non-contradiction.
We should then make a theoretical effort, i.e. get accustomed to considering the single opening of the ego to reality as a mere relative point of view among many other relative points of view. Different opinions can stand together with/in a plurality of positions according to a non-belligerent confrontation style.
However, the words which “save” us from violence are not saved once and for all. The one who linguistically acts in a libertarian and nonviolent area should always bear in mind that his words can turn fundamentalist and shouldn’t forget that, despite an attitude based on mutual understanding and reciprocal inter-esse, the total liberation from dominion is not a fixed goal but a moving one, because the liberation from tyranny is not either a fact or an object but a process, something you achieve (if ever) along the way.
Keywords: nonviolence, reciprocity, conviviality, responsibility, utopia, eutéleia
La realtà indicibile
La realtà non sarebbe ciò che appare – e non si darebbe a ognuno di noi nelle forme in cui siamo abituati a ri-conoscerla – se non esistesse la possibilità di dire le cose (enti) che appaiono, chiamandole per nome. E dare un nome agli enti significa de-finirli, porli in ordine, collocarli all’interno di un contesto ontologico unitario, costituito dai variegati ‘modi d’essere’ (forme delle res), che chiamiamo realtà.
Se si scava in profondità, le cose – prese per sé stesse – sarebbero ontologicamente innominabili, perché il nome comporta una definizione sostanziale della cosa che non possiamo dare. Definire è, infatti, dire ciò che la cosa è. Ma la cosa è in sé inconoscibile, e per certi versi è inconoscibile anche la sua forma esterna, il suo fenomeno, il modo d’essere, che non si dà a tutti nello stesso modo e una volta per sempre, ma si mostra nel corso del tempo e nelle relazioni in-numerabili (in-numerabili dal singolo parlante) con il contesto. Chi ‘dice la cosa’, dice solo la relazione che lo lega, in quel preciso momento in cui parla, alla cosa: ma nomina la relazione alla cosa, non la cosa stessa. E nel nominare, nomina un aspetto del fenomeno; nomina quel fenomeno che lo costituisce come parlante, perché proprio nella relazione con la cosa chiamata, il parlante è appunto un parlante.
L’essere è uno in tutte le cose, che si distinguono per il «modo d’essere» (che i filosofi chiamano forma, i cristiani anima, e i greci ψυχή-psyché). Ogni fenomeno-«modo d’essere» è ciò che è, in virtù dei legami che costituisce con gli altri modi d’essere, con le altre cose. Per questo, nel ‘chiamare’ le cose, il parlante (ovvero, il modo d’essere di chi si esprime a voce nominando le cose) costituisce una relazione ontologica con la cosa chiamata, tanto che il suo modo d’essere ne risulta condizionato.
Reciprocamente, le parole, che dicono i nomi di ciò che appare, non sarebbero proprio quelle stesse parole, se non esistesse la realtà (che ad ognuno si mostra nei modi e nelle forme del suo linguaggio, ovvero nei modi e nelle forme condizionati dalle relazioni linguistiche, oltre che fisiche) a renderle precisamente in quel dato modo. Ciò sta a significare che, per un verso, la parola dice la realtà – e nel dirla la rende al suo cospetto tale – ma, per un altro, la realtà condiziona la parola nominante e tutti gli altri insiemi di parole che formano quel linguaggio che usiamo per dare un nome all’essere che ci circonda e che chiamiamo realtà.
La realtà viene dunque chiamata ma non definita, dal momento che eccede il linguaggio. E la realtà non può essere pienamente significata in parole, non solo perché non tutto può esser detto, ma anche perché essa contiene il parlante: questi, infatti, ne è parte (appartiene alla realtà), e ciò che è parte non può dire ciò di cui è parte. La realtà di cui si parla non è dunque la realtà in sé, bensì la realtà apparente, ovvero la realtà con cui il parlante si relazione.
Questa prima considerazione fa sorgere una questione irresolubile, ma che ciononostante non possiamo evitare di porre: è la realtà che apparendo ci fa dire le cose nel modo in cui le diciamo, o è il linguaggio che chiamando le cose apparenti in un certo modo, le fa essere proprio in quel modo e non in un altro? Più semplicemente: è la parola che crea la realtà apparente, o è la realtà apparente che modella il linguaggio condizionandolo?
La domanda non ha una risposta risolutiva, dicevo, non solo perché non siamo in grado di abitare l’origine, ovvero il momento in cui la parola originaria e la realtà apparente si sono incontrate per la prima volta. Ma anche perché la parola è sempre originaria, ovvero origina una realtà apparente; e parimenti ogni realtà apparente è sempre originaria, conformando un linguaggio a se stessa. Mi pare si possa quindi pensare che il linguaggio e la realtà apparente si presentino come rapporto originario e inscindibile: in tal senso, affermiamo con Wittgenstein che «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (Tractatus logico-philosophicus, 5.6)1. Con ciò si vuole intendere che la realtà apparente condiziona le nostre parole, e che viceversa le parole nominanti conferiscono alle varie forme dell’essere circostante lo status di realtà. E se si può dire che la realtà apparente è tale in virtù della parola nominante, si può anche sostenere che la parola e la realtà apparente esistono solo in un contesto relazionale. Ovvero, esistono come parola nominante detta di qualcosa a qualcuno con cui si può entrare in relazione. Non basta, infatti, dire la cosa e darle realtà, ma bisogna anche comunicare la realtà apparente di questo qualcosa a qualcuno, che possa ascoltarci e che presumibilmente crediamo ci comprenda.
Orbene, se i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, e se il mio modo d’essere è un modo d’essere diverso nella forma (anche se non nella sostanza, perché l’essere è lo stesso in tutti) rispetto agli altri modi d’essere, allora il linguaggio è di fatto incomunicabile. Il singolo parlante – ovvero il modo d’essere di quell’essere che attualmente parla – si relaziona al mondo dal suo angolo prospettico. Egli instaura una serie di relazioni, con la realtà apparente, diverse dalle relazioni instaurate dagli altri parlanti. La realtà apparente, allora, non è la stessa in tutti: ognuno, dal suo angolo visuale, abita i limiti del proprio mondo, quindi abita anche un linguaggio singolare, incomunicabile.
Chi dice che il verde che vedo è lo stesso verde dell’altro qui davanti a me? Chi può dire se le parole che ascolto, e a cui credo di dare il medesimo significato del mio interlocutore, dicano davvero a tutti la stessa cosa? Se i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, nulla è comunicabile: eppure parliamo, esprimiamo idee, sensazioni e finiamo persino per comprenderci: o forse è solo un’illusione?
Da questo punto di vista, le parole alla base del linguaggio assumono il ruolo di legante relazionale fra chi parla e chi ascolta, fungendo da vettore sociale e politico interpersonale. Ciò sta a significare che la parola non esiste di per sé, non potrebbe essere pronunciata senza un ascoltatore: chi parla da solo, infatti, non sta parlando, ma ragiona ad alta voce. La parola pronunciata diventa linguaggio solo nella relazione interpersonale e comunitaria: si parla a qualcuno, si parla per qualcuno e con qualcuno.
La parola che dice gli enti è un vettore sociale che parla a qualcuno – con cui si entra in relazione dialogica – non a qualcosa. Essa viene quindi detta solo agli esseri senzienti in grado di capirla. Ma la realtà è costituita dall’insieme degli esseri senzienti e non senzienti, che si trovano fra loro in un rapporto ontologico inscindibile2. Gli enti, infatti, sono proprio quegli enti in virtù dei legami ontologici che costituiscono con l’essere circostante di cui fanno parte. Ciò che distingue ogni singolo ente dagli altri, l’abbiamo visto, non è l’essere – che è unitario in tutti – ma il modo d’essere. I modi d’essere – senzienti e non senzienti – sono fra loro in un rapporto ontologico costitutivo: e la modifica di un polo della relazione comporta la modifica del contesto, perché tutto è in relazione con tutto.
La parola, però, viene detta solo ai parlanti, che dopo averla ascoltata ne subiscono la «potenza» e finiscono per assumerla modificando il proprio modo d’essere. Questa trasformazione diventa ontologica, perché l’essere del senziente si trova in un rapporto ontologico inscindibile col contesto.
Pertanto, la realtà tutta intera – senziente e non senziente – condiziona il linguaggio: perché il parlante è in relazione ontologica con tutta la realtà. Mentre la parola condiziona direttamente i senzienti, e solo attraverso questi anche la realtà.
Possiamo presumere che prima della parola in relazione con la realtà c’era l’essere indicibile, che costituiva il modo d’essere del non-ancora-parlante e il modo d’essere del contesto con cui questi era in relazione fisica, anche se non linguistica. Ma, a questo livello, il contesto di cui si parla non era ancora la realtà. Perché la realtà esiste solo nel momento in cui la si può nominare e se ne ha, quindi, coscienza. Aver coscienza di qualcosa significa saper collocare questo qualcosa nel contesto che si abita. Per questo motivo, senza linguaggio non c’è realtà; non c’è consapevolezza della realtà. La realtà esiste dal momento in cui la si chiama, non prima, e la parola dice solo ciò che può esser detto nei limiti della realtà. Nel senso che oltre la realtà non c’è linguaggio, e allora, anche in questa prospettiva, la parola de-finisce la realtà, e la realtà de-finisce la parola.
La parola come veicolo relazionale
La parola di qualcuno è parola nominante o pronunciata, che fa da sempre tutte le cose. Le ha fatte in principio, le fa in ogni istante del divenire che chiamiamo presente, e continuerà a farle fino alla fine dei tempi. Ma questo fare le cose non consiste in un atto generatore ex nihilo, bensì in un atto di riconoscimento ontologico di ciò che c’è e che deve essere portato in superficie; che deve essere messo in vista; che deve essere chiamato. La parola, quindi, dice all’ente ciò che l’ente stesso è. Ma l’ente non è ciò che è prima di essere chiamato, in quanto assume il suo modo d’essere – la sua forma – nel momento in cui la parola lo de-finisce, lo inquadra all’interno di un contesto relazionale semantico facendolo essere proprio quella res e non un’altra. Per questo motivo le cose non sono mai né in assoluto, né in astratto, ma sono ciò che sono in virtù della relazione linguistica che costituiscono fra loro i parlanti quando nominano quelle cose.
La parola, quindi, riconosce l’ente attraverso il linguaggio, e nel riconoscerlo gli conferisce realtà, lo fa essere vivo.
Da questa prospettiva, la parola esiste come potenza relazionale generatrice. Crea, ordina e nomina le cose dandole realtà. Chiamare qualcosa, riconoscerlo come ente determinato con cui si è disposti ad entrare in rapporto, è dare a questo qualcosa dignità ontologica, è considerarlo un bene reale. E chiamare qualcosa vuol dire mettersi in relazione, collegare il proprio spirito a quell’ente che si ha dinanzi e a cui ci si rivolge nominandolo. In tal modo, la relazione parlante costituisce ontologicamente gli enti circostanti con i quali ci si pone in relazione. Da un certo punto di vista, possiamo dire che la realtà esiste proprio perché la chiamiamo, le parliamo, la riconosciamo come insieme di modi di quell’essere di cui siamo fatti.
Chiamare le cose col loro nome consente di stabilire un rapporto positivo e «buono» col mondo circostante. Mi pare, quindi, di poter leggere proprio in questo senso ciò che ebbe a scrivere Simone Weil nei suoi Quaderni: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie»3. Dare maggiore realtà agli esseri significa farli esistere per ciò che sono, ovvero consentire loro di mostrarsi nominalmente secondo il proprio modo d’essere.
La parola ha una realtà ontologica; è un essere che plasma la realtà di cui fa parte. Nel senso che è impossibile scindere la parola dal contesto entro cui viene pensata e detta, perché la parola è quel contesto. John L. Austin dice che le parole fanno le cose, ovvero creano e organizzano lo spazio circostante, e a loro volta da questo spazio vengono condizionate4. Tutto è in relazione, d’altronde, e l’essere della parola non può venire scisso dall’essere del contesto.
Ora, proprio perché le parole illuminano una realtà, fanno – e disfano – le cose, è importante avere lucida consapevolezza dei sistemi che determinano il funzionamento della realtà stessa, così come delle ragioni che ne producono il deterioramento.
Noi siamo le parole che parliamo, abitiamo quelle parole ed esse abitano noi. Proprio per questo sono importanti e non ne possiamo fare a meno. Le parole rendono possibile il dialogo, ci immettono in una trama relazionale che ci costituisce ontologicamente. Il nostro essere è il risultato delle relazioni che stringe con gli enti che gli sono contestuali. Nessuno di noi sarebbe pensabile senza ciò che lo circonda, perché con il contesto noi costituiamo delle relazioni, degli incroci di sguardi, che ci rendono proprio ciò che siamo e non un’altra res. Noi siamo le relazioni che instauriamo e che abitiamo. E alla radice della relazione costitutiva – per usare un tecnicismo, potrei dire della relazione ontologica, ovvero quella relazione che fa essere le cose –, c’è il linguaggio. Per questo il vangelo di Giovani, che rilegge l’incipit del libro in cui è riportato il mito fondatore della nostra civiltà, la Genesi, non poteva che iniziare con «in principio era la parola».
La parola è un atto performativo e generatore. La parola ordina le cose nominandole, le fa essere ciò che sono. Gli atti linguistici costruiscono letteralmente la realtà. Ma in un sistema di mutua relazione, la realtà, una volta costituita, finisce a sua volta per condizionare le parole che l’hanno nominata, e quindi «creata». Così, anche i termini che usiamo, delineano lo spazio che viviamo e subiscono da questo spazio delle spinte a compiere continue torsioni semantiche. È questo il senso dell’adagio wittgensteiniano di cui si è già detto: «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo». Il linguaggio e l’orizzonte estremo del «proprio mondo», entro cui si rendono pensabili e dicibili le parole, appaiono in una relazione ontologica inscindibile: l’uno condiziona l’altro e viceversa.
Se la parola costituisce la persona e il mondo, e se la realtà condiziona la realtà e la persona stessa, i singoli gesti compiuti, la volontà di rendere conviviale un rapporto, la tensione a rendere comunitaria e condivisa la vita sulla terra sono anch’essi gesti che comportano una trasformazione della realtà e del linguaggio. L’essere umano, quindi, non vive una condizione di passività. Il mondo in cui vive e le parole che parla non sono ineluttabili. Egli ne è responsabile fino in fondo. Un cambio di registro linguistico rende possibile un’altra realtà e quindi nuovi modi di abitare il mondo. In tal senso, il parlante abita le parole che dice, e nel dirle le condiziona inesorabilmente, le inserisce in un contesto relazionale che conferisce un significato esplicito alla parola stessa5.
Di conseguenza: se il parlante è responsabile delle parole che dice e delle relazioni che costituisce, parole di violenza daranno vita a rapporti verticali, basati sul dominio, sulla competizione e sul potere che schianta. La parola violenta abita la realtà violenta. Per ripensare i rapporti in senso nonviolento e libertario è necessario, allora, ripartire dagli atteggiamenti, dalle relazioni, dalla conformazione del mondo.
Dalla parola violenta al dialogo salvato
L’idea che la metafora costituisca la radice del nostro pensiero – e non sia invece solo una figura del linguaggio, o una forma estetica letteraria – è stata già ampiamente dimostrata da George Lakoff e Mark Johnson, in un loro lavoro divenuto ormai imprescindibile per qualsiasi studio dei nessi metaforici esistenti fra la cognizione, la realtà e il linguaggio, nonché fra la singola idea e la sua cultura di riferimento6. La tesi di fondo espressa da Lakoff e Johnson, da me condivisa, è che il sistema concettuale umano, in virtù del quale pensiamo e agiamo, sfrutta la metafora per tradursi in linguaggio. Sicché non può sfuggire all’osservatore accorto un dato piuttosto rilevante. Ovvero, se la metafora è il risultato di un determinato sistema concettuale reso con parole che concepiscono una cosa nei termini di un’altra, è chiaro che cambiando i riferimenti culturali (o anche solo le opinioni dei singoli soggetti appartenenti ad un medesimo contesto culturale) mutano pure i modelli metaforici dei parlanti.
Per chiarire quest’ultima affermazione si può forse dire meglio così: la relazione metaforica fra la cognizione e il linguaggio si strutturerà diversamente all’interno di linguaggi e culture differenti. Perciò, un italiano, un cinese e un americano elaboreranno modelli metaforici diversi, perché il loro sistema concettuale attinge a culture e tradizioni diverse. Ma vale la pena di ribadirlo, anche due italiani con culture e pensieri diversi daranno vita a metafore diverse, perché sebbene la loro cultura si riferisca ad un immaginario comune e condiviso, essi sviluppano comunque filtri o modelli alternativi di pensiero che modificano in modo sostanziale i loro personali sistemi concettuali.
Anche l’affermazione della verità incontrovertibile è sempre relativa ad un sistema concettuale definito linguisticamente dalla metafora. E chi, ad esempio, pensa nell’ottica del PNC afferma verità forti, percepite dai singoli parlanti come strumenti di battaglia. Il soggetto che elabora il proprio pensiero secondo questo sistema concettuale vive le discussioni nei termini di una guerra. Tanto che molte delle cose che fa, quando discute, sono il frutto di una strategia militare – assunta in linea di massima in modo inconsapevole – con cui difende le sue posizioni e attacca quelle avversarie. L’inconsapevolezza consiste nel fatto che il singolo è abituato a ragionare nei termini delle cosiddette verità incontrovertibili, tanto che abita senza accorgersene i luoghi metaforici della violenza e della guerra (da Parmenide ai nostri giorni, e tuttavia non senza qualche lodevole eccezione, questo modello culturale si è imposto in Occidente con palese predominio).
In linea generale, la cultura violenta dell’Occidente – di cui siamo figli non sempre consapevoli – esprime il senso metaforico del linguaggio dialogico come uno scontro mortale fra i parlanti, che combattono per affermare una verità incontrovertibile di cui tuttavia non dispongono. E il parlare con pretesa di verità è un’operazione fondamentalista che si sviluppa secondo modalità belliche, da cui possiamo salvarci solo rimodulando il sistema concettuale di riferimento, nonché lo sguardo con cui osserviamo la realtà che ci circonda. Lo sforzo teoretico consiste allora nell’abituarsi a considerare la singola apertura dell’Io, apertura all’essere circostante, come un semplice punto di vista relativo, fra tanti altri relativi, in grado di convivere colla/nella pluralità di posizioni, seguendo modalità di confronto non belligeranti.
Pensiamo infatti a come potrebbe strutturarsi un dialogo in cui, alla fine del confronto, nessuno pretenda di soffocare le singole aspirazioni dei parlanti, e dove le posizioni di ognuno, pur irriducibili una all’altra, manifestino appieno la loro gloria, dando conto della complessa poliedricità del reale. E a quel punto, solo a quel punto, i singoli interlocutori non fondamentalisti scamperebbero la guerra grazie ad un nuovo registro metaforico che salva dalla barbarie. Non è più una storia da homo puerilis del tipo mors tua, vita mea, ma diventa una narrazione gloriosa da homo vere sapiens che dice: vita tua et vita mea. L’altro, l’interlocutore, è il salvato da me, e a sua volta anche lui mi salva dal conflitto, perché solo attraverso il reciproco e universale riconoscimento di essere singoli soggetti relativi – che pretendono di dire indebitamente l’assoluto – la guerra viene scongiurata nel dià-lógos, ch’è un vero e proprio stare non violento fra parole mortali; ovvero fra parole che, prima di sparire nella dimenticanza, dicono solo ciò che possono, in modo esteticamente piacevole e il più possibile coerente con le premesse assunte per fede7.
Per quanto si provi a liberare il linguaggio dalle strettoie del dominio, il rischio di fare del bene ricorrendo alla violenza, seppure in modo inconsapevole, è sempre dietro l’angolo: e forse proprio quando il desiderio di sopraffare l’Altro matura senza consapevolezza, perché non si riconosce come tale, anzi vorrebbe apparire addirittura liberante, ecco quando un tale desiderio si manifesta, lo fa al massimo della potenza, non ha quasi rivali, perché appare più subdolo e sfuggente. Il linguaggio, allora, persino nel dialogo salvato presenta insidie costanti e rischia ogni momento di trasformarsi in lògos di guerra. I parlanti possono farsi del male nonostante si amino, ferirsi mentre si abbracciano, dominarsi a vicenda proprio quando pensano invece di liberarsi l’un l’altro, dichiararsi la guerra mentre predicano la pace. Il desiderio di sottomettere l’altro, di sottometterlo magari per fargli del bene, è infatti il male radicale dell’Occidente, è quel male che uccide senza accorgersi del livello di brutale predominio espresso dal soggetto anche quando desidera rivolgersi al bene, o a qualcosa che suppone tale.
Per spezzare la catena che lega l’uomo al male radicale – e per immaginare quindi una eradicazione di questo stesso male – è indispensabile avere la consapevolezza che la violenza è più forte e pervasiva di quanto comunemente si creda. La ragione di ciò non va rintracciata nella supposta propensione naturale dell’essere umano a fare del male, quanto piuttosto nell’incapacità del singolo di concedere al suo interlocutore uno spazio vitale autonomo, di lasciargli la sua libertà di scelta. E proprio per questo motivo anche «fare il bene» – ammesso ma non concesso che «fare il bene» sia possibile, e soprattutto che esista un unico bene universalmente riconosciuto – può uccidere con violenza: e in senso ancor più radicale, «fare il bene» uccide proprio perché è un fare che vuole salvare l’Altro ad ogni costo, uccide perché vuole disperatamente l’amore dell’Altro, che però non ha alcuna intenzione né di farsi salvare, né di essere amato nel modo in cui l’Io-dominatore(inconsapevole) lo desidera.
In questo volere oltre ogni misura il bene per l’Altro (e il bene voluto per l’Altro è un bene soggettivo, individuale, perché colto a partire da un certo punto di vista: ma nel momento in cui propongo all’Altro un bene che ritengo assoluto – un bene oltre misura – l’Altro subisce il dominio di questo mio bene parziale imposto come universale) si nasconde la forma radicale della violenza che si insinua fra le pieghe della realtà; violenza che penetra negli angoli più reconditi della coscienza umana, violenza che sembra quasi impossibile da estirpare, che assume atteggiamenti camaleontici e talvolta prende per l’appunto in modo subdolo la forma di ciò che gli si oppone con maggiore nettezza, l’amore. Sì perché, lo ribadisco, se l’uomo non si libera dalla colpa originaria di voler imporre la sua visione all’Altro, quand’anche desideri salvare l’umanità intera dal male che vede dilagare, trasforma il suo desiderio d’amore in autentica tirannia. Perché la potenza che esprime quel desiderio amoroso impone con violenza e senza condizioni – è per l’appunto incondizionato – agli interlocutori e alla realtà di diventare altro da ciò che sono, di trasformarsi in altro: l’amore dice all’odio che deve morire; l’amore dice all’odio che non ha alcuna speranza di sopravvivergli; l’amore dice all’odio che l’amore deve vincere e l’odio perdere, perché l’amore è un bene e l’odio un male.
Ma se la realtà è odio e se l’interlocutore che si presume malvagio adora il conflitto, la potenza che vuole l’amore – la potenza che impone all’odio di morire nell’amore – dice alla realtà e all’interlocutore che bisogna volere ad ogni costo l’amore e non l’odio. Ma questo volere ad ogni costo, questo volere assolutamente l’amore, è il vero problema. Perché un volere siffatto può giustificarsi solo nella verità incontrovertibile, che è appunto assoluta e incondizionata, ovvero priva di condizioni, una verità che non scende a patti, che non lascia all’altro la libertà di dire «no», che non gli consente di affermare la sua preferenza per l’odio, e pretende quindi l’asservimento – ch’è un farsi servo – dell’odio agli scopi dell’amore. Ma proprio nel momento in cui l’amore domina l’odio imponendogli la sua subordinazione al bene, la violenza emerge di nuovo dagli abissi in cui si pensava di averla ricacciata e torna – semmai se ne fosse davvero andata – a svolgere il suo potere onnipervasivo.
Ciò avviene se il dialogo persiste nella guerra e segue la logica stringente del principio di non contraddizione. Tuttavia, l’ho già accennato, anche il dialogo salvato, anzi anche il dialogo che si presume salvato, corre lo stesso rischio di far esplodere la violenza verbale.
Chi opera linguisticamente nel campo libertario e nonviolento deve allora tener sempre presente dinanzi a sé la possibilità della caduta fondamentalista del suo discorso, e non può dimenticare che per quanto si dialoghi seguendo il metodo della mutua comprensione e dell’inter-esse reciproco, la completa liberazione dal dominio è una meta in continuo movimento, perché la liberazione dalla tirannia non è un dato, un oggetto, ma è un percorso, una conquista che si ottiene (se si ottiene) lungo la via. Chi si ferma è perduto, elabora un’ideologia, un modello, un pensiero che si pretende fondato sulla roccia! E non c’è nulla di più pericoloso di un dialogo che formalmente si presume salvato dalla violenza e che invece parla con volontà di potenza violenta, che parla con una volontà violenta che vuole liberare dal dominio l’orizzonte dialogico, e nel farlo usa un linguaggio di guerra.
Quando avviene ciò, il desiderio più altruistico, l’aspirazione più solidale, l’intenzione più fraterna, la condivisione più ampia diventano volontà di potenza incondizionate, volontà di organizzare il mondo secondo principi e scopi ritenuti «buoni» e «giusti» in assoluto, e non rappresentano affatto una visione relativa a un singolo aspetto, a una cultura o a luoghi parziali. Ma in quel contesto, anche se verbalmente si predica l’amore e la condivisione, le relazioni umane continuano a strutturarsi secondo logiche di dominio verticale. Non è certo quello lo spazio dell’utopia, che altrove ho chiamato eutéleia8, né tanto meno la via di autentica liberazione dal dominio economico.
Chi infatti continua a ragionare nell’ottica del potere dispotico, anche quando vuole la bontà e la giustizia, radica il proprio desiderio sulla verità incontrovertibile e non sulla convivialità libertaria. In tal modo, però, rischia di far rientrare dalla finestra il dominio che aveva tentato di cacciare dalla porta. Perché il volere che vuole in assoluto la salvezza dalla tirannia, l’uguaglianza fra gli uomini, la liberazione di tutti, la giustizia distributiva e un conviviale accesso alle risorse (e la «salvezza dalla tirannia», l’«uguaglianza fra gli uomini», la «liberazione di tutti», la «giustizia distributiva» e un «conviviale accesso alle risorse» vengono concepiti dal teorico della verità incontrovertibile come assolutamente volibili perché buoni oltre ogni condizione) è un volere che la realtà si organizzi in un certo modo piuttosto che in un altro, è un volere che esprime una potenza rigida, una potenza che non ammette smentita, e che in tal senso assume proprio le sembianze della violenza cieca.
Chi resta nell’orizzonte della verità incontrovertibile è costretto ad ammettere allora che dal dominio non si esce, perché il solo tentativo di liberarsi dal potere che schiaccia il singolo dall’esterno verso l’interno, il solo desiderio di oltrepassare il potere dispotico, la mera aspirazione a rompere le imposizioni tiranniche provenienti dall’alto si configurerebbero a loro volta come dominio. Magari preferibile alla tirannia dei pochi sui molti, forse persino infarcito di buone intenzioni – così come la strada che condurrebbe all’inferno – e finanche ispirato dalle idee migliori, ma resterebbe pur sempre un dominio, un volere dispotico che la realtà funzioni in un modo piuttosto che in un altro.
Ribadisco: non è certo questo l’orizzonte entro cui pensare l’utopia fragile della convivialità libertaria: l’euteleia. Perché la via o le vie di liberazione dal dominio possono concretizzarsi realmente solo nel momento in cui il singolo individuo comprende che la sua volontà di potenza deve limitarsi a pro-porre e non im-porre una visione, perché la condizione relativa da cui matura la visione personale non consente alcuna universalizzazione di sorta. E allora se si esce dalla logica stringente del principio di non contraddizione, che costringe il linguaggio nel recinto della violenza, il discorso autenticamente salvato potrebbe manifestarsi come un dipinto o una sinfonia polifonica. La filosofia, a quel punto, si configurerebbe come «gesto estetico» e con la dovuta saggezza che la contraddistingue (la filo-sofia è infatti l’arte del sophós, del saggio, che si prende cura di ciò che è saphés, di ciò che sta nella luce) potrebbe davvero esimersi dall’esercitare violenza, assumendo come suo oggetto non la verità incontrovertibile, ma la buona conformazione del discorso, il cui obiettivo consisterebbe nella messa in discussione, con una certa coerenza logica (che, lo ribadisco, non può avere alcuna pretesa oggettiva), dei pre-giudizi e del pensiero comune.
Un discorso coerente diverrebbe quindi discorso filosofico presentato all’interlocutore: posto e non im-posto nel dià-lógos. In questo senso la volontà di liberare il dominio assumerebbe il carattere di una pro-posta libertaria e non di un’imposizione ideologica che tende a produrre modelli buoni di libertà, conformati una volta e per sempre.
La consapevolezza di non poter dire nulla con pretesa oggettiva spalanca le porte alla gloria pacifica della salvezza, libera il dialogo dalla barbarie della violenza e converte finalmente i lógoi di guerra in lógoi salvati dal dominio dispotico. Ma, attenzione, questi lógoi non sono mai salvati in modo definitivo, perché se lo fossero, ovvero se si dicesse una volta per tutte «questo, e solo questo, è il modo di liberare la parola dalla violenza» si cadrebbe di nuovo nel gorgo della violenza. La liberazione dalla violenza è infatti una promessa an-ideologica che dobbiamo rinnovarci insieme ogni giorno: ogni giorno dobbiamo volere – con volontà di potenza salvata dal dominio – che l’Altro esprima pienamente se stesso, e nell’esprimere se stesso, in virtù della comune esperienza di umanità, dobbiamo sperare e desiderare che l’Altro con cui siamo in relazione sia capace di manifestare in se stesso e agli Altri la gloria dell’amore fraterno, nonché il tramonto definitivo della violenza dispotica. Violenza che nell’orizzonte dell’oikonomia in cui ci troviamo a vivere ha assunto ormai le sembianze gloriose della tecnica, che ora è davvero in grado di spalancare davanti ai nostri occhi le porte della notte. Di quella notte annichilente, che inghiotte tutto.
Ma la gloria della tecnica e il buio della notte, è questo il punto, non sono un destino! Perché oltre la nebulosa del presente, piagato dalla violenza del linguaggio economico e tecnologico, si profila, infatti, la speranza di riuscire ad organizzare lo spazio umano secondo dinamiche orizzontali che non medino rapporti di forza e di potere violento. Questo nuovo spazio umano è l’utopia libertaria, che chiamo eutéleia; è uno spazio che illumina un immaginario popolato dalla fraternità di stampo evangelico (si tratta della fraternità che dona senza aspettarsi nulla in cambio, che dona gratuitamente sé stessa senza risparmiarsi). Ma non è tutto, perché verso quell’orizzonte bisogna costantemente tendere con pratiche buone, convincenti, de-potenziate, frugali, capaci di mettere in crisi la razionalità dispotica dell’oikonomia.
Note
1. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino, 2009, p. 88.
2. Sul modo in cui intendo l’essere come relazione ho già scritto nel mio Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2014 (in particolare si veda il capitolo V, pp. 249-265).
3. Simone Weil, Quaderni I, Adelphi, Milano, 1982, p. 199 (or. Cahiers, I, Librairie Plon, Paris, 1970).
4. John L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987 (or., How to Do Things with Words, Clarendon Press, Oxford, 1962).
5. Sul rapporto tra il linguaggio e il potere ho già scritto in Alessandro Pertosa, Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2014: si veda in particolare il capitolo IV; e in Alessandro Pertosa – Lucilio Santoni, Maledetta la repubblica fondata sul lavoro, Gwynplaine, Camerano, An, 2015.
6. George Lakoff – Mark Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2012 (titolo originale, Metaphors We Live By, University of Chicago Press, Chicago, 1980).
7. Per fede si intenda il dare l’assenso a ciò che non si vede. Il termine non rimanda quindi immediatamente alle fedi riconosciute come tali. Ma in senso più generale a tutte quelle «convinzioni» prese per vere, anche se non lo sono. Io sono seduto su una sedia. Non posso dire, incontrovertibilmente, se questa sedia mi reggerà. Assumo per fede, mi affido, e dico: la sedia mi regge. Ma potrebbe darsi benissimo che io cada fra due secondi. In tal senso, tutti gli uomini vivono compiendo in ogni istante della loro vita, un’infinità di atti di fede.
8. Cfr. Alessandro Pertosa, op. cit.
Bibliografia
AUSTIN John L., Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.
LAKOFF George, JOHNSON Mark, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2012.
PERTOSA Alessandro, Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2014.
Idem, SANTONI Lucilio, Maledetta la repubblica fondata sul lavoro, Gwynplaine, Camerano, An, 2015.
WEIL Simone, Quaderni I, Adelphi, Milano, 1982.
WITTGENSTEIN Ludwig, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino, 2009.