Coordonat de Elias VAVOURAS
Volum IX, Nr. 3 (33), Serie nouă, iunie-august 2021
Drammatizzazione e innovazione
nel Machiavelli di Gramsci
[Dramatization and innovation in Gramsci’s Machiavelli]
Silvio SUPPA
Abstract: The paper concerns three moments of Gramsci’s thought, and starts from his critical position about the statute of sciences, which is particularly focused on the figure of the constitutionalist and politic science’s professor Gaetano Mosca. Mosca’s theory is considered too conservative, and therefore rejected as unable to inspire politic innovation. On the other hand, Gramsci takes into account the worth of Will, which he resumes from his youthful writings and reconnects here with dramatic and theatral aspects of his interpretation around “The Prince” of Machiavelli. In this way a good impulse to changing and innovation it’s found again, and the idea of politics as a permanent theorem collapses. Finally, on the same line of “will to act”, Gramsci comes to repudiate the binding nature of present time and aims to an ideal escape which could free us from the immobilism of a present without Will.
Keywords: Critique, Science, Changing, Will, Drama.
Nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, le pagine su Machiavelli hanno riscosso grande attenzione degli studiosi, per il loro ampio telaio di suggestioni e problemi, in parte ancora attuali, non ostante queste scritture siano nate fra gli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, nel carcere fascista. Oggi è possibile interrogare ulteriormente le riflessioni mature di un intellettuale e dirigente politico come Gramsci, protagonista della vita civile italiana prima a Torino, dove era giunto dalla Sardegna, e poi su scala nazionale. Più arduo è riprendere il discorso sul “moderno Principe”, dopo l’enorme numero di pubblicazioni – italiane ed estere – sorte in tale paradigma tipico del Sardo, ripreso ininterrottamente, dagli anni ‘50 del Novecento fino ad oggi, per più di un settantennio. Resta tuttavia utile rileggere le note gramsciane su Machiavelli, a partire dalle prime osservazioni del Quaderno 1 e da quelle del Q. 8,1 poi riprese in modo più ampio, alla ricerca di una nuova teoria della politica, in grado di correggere la narrazione storica di fatti e atteggiamenti ideologici, e di decifrare gli spazi sottili negli antagonismi intorno al potere, oltre che di sperimentare categorie politiche mirate alla discontinuità.
Nei molti “ritorni” sul Segretario fiorentino, nei Q. prende corpo, com’è noto, una rubrica intitolata Machiavelli, dai contenuti molto vari, nella quale, come in un laboratorio mai concluso, il pensiero del Sardo annoda continuamente temi critici, polemiche intellettuali, riflesioni socio-letterarie. Ma, più in generale, nelle note carcerarie ricorre un intreccio fecondo fra pagine consolidate della storia, e ripensamenti critici sulle esperienze del proprio Paese, del Vecchio e del Nuovo Continente, in un caleidoscopio concettuale largamente filtrato attraverso la specificità e l’intelligenza politica dell’autore del Principe. In questo spazio, Gramsci non può essere ricondotto a un’accezione di machiavellismo o di antimachiavellismo, secondo la tradizione che i due termini hanno segnato in Europa, fra età moderna e cultura successiva alla Rivoluzione Francese. Si tratta di argomenti molto noti agli specialisti del Fiorentino, ma lontani dalle ragioni per le quali Gramsci si è misurato con la portata epocale di questo “classico” del Rinascimento2.
Nei Q., invece, le riflessioni su Machiavelli nascono da motivazioni decisamente contemporanee, insorte dal bisogno di un riordino complessivo dell’esito delle lotte sociali in Italia, e non solo, precedenti quel 1926 in cui Gramsci fu arrestato dalla polizia fascista, e incarcerato fino a pochi giorni prima di morire. Negli anni di libertà egli si era misurato con la crisi sempre più grave dello Stato liberale, non senza un aspro contrasto con i socialisti. In questo breve tornante, il nome di Machiavelli ricorre saltuariamente negli articoli di Gramsci, mentre è indubbio che egli, più tardi, si sia accostato al Fiorentino da recluso, certo, ma con precisi intenti di aggiornamento teorico, riaprendo uno studio sospeso negli anni torinesi, e poi definitivamente troncato. Come risulta dalle sue lettere ai familiari, egli apre il campo dei suoi studi, e ricomincia a scrivere, rivolto a una politica su cui ha due certezze: da un lato gli enormi cambiamenti intervenuti nel mondo «grande e terribile”, come lo definisce dopo la prima Guerra Mondiale, e dall’altro la consapevolezza di una sconfitta storica intervenuta fra gli ideali e le forze del socialismo in Europa, con la sola eccezione della svolta rivoluzionaria nella Russia del 1917.3 Nel primo ventennio del Novecento, la “crisi organica” di cui Gramsci ha insistentemente parlato negli scritti giovanili e nella sua rivista “L’Ordine Nuovo”, ha preso un indirizzo diverso dal disegno del movimento operaio italiano. Nel cuore dell’ Europa, uscita stravolta e duramente ferita dalla sua stessa guerra, si dividono i destini delle nazioni, fino alla soluzione totalitaria del fascismo, in Italia. Più tardi, a battaglia persa per sempre, Gramsci, separato dallo svolgimento degli avvenimenti più immediati e ridotto al silenzio, si pone quesiti che mettono in primo piano la necessità di un profondo riposizionamento teorico e di una revisione acuta del recente passato, caratterizzato dallo smarrimento del nesso fra azione dei partiti e stravolgimento delle forme del conflitto. In questo percorso, che nei Q. ricomincia quasi da zero, un primo nodo di rilievo è il rifiuto del Sardo di riaccostarsi all’antagonismo fra ceti e classi, seguendo schemi astrattamente intellettuali, o modelli di pensiero di tipo “scientifico”. In questo senso, nelle pagine in cui si fa più acuta la polemica gramsciana, molto emblematica è la figura di Gaetano Mosca, centrale nel cerchio dei liberali italiani e dei costituzionalisti più sensibili alla definizione di una scienza politica.
Gramsci si muove come in una doppia visuale, fra il Fiorentino e il vecchio professore siciliano, il quale ormai sa di dover tentare di congiungere i principi liberali con un ordine politico che va mutando, e che punta a coniare regole più autoritarie tanto verso i cittadini-individui, quanto verso le grandi masse, dall’inizio del ‘900 cresciute nella quantità e nel grado di inquietudine sociale. Il Sardo contesta in modo acuto lo spessore di un accademico della portata di Mosca, sospeso fra studi giuridici e attenzione al mondo materiale, e di lui non accetta la possibilità – con la quale il professore siciliano si misura a fondo – di sintetizzare il cambiamento travolgente della società capitalistica, in un quadro sistematico, in un “codice” di scienza politica finalizzato a ricondurre i movimenti della società a una logica astratta e specialistica, cioè separata da un’umanità che sta cambiando e che sfugge alle facili classificazioni4. Il nodo in discussione, in piena crisi del positivismo di eredità ottocentesca, è l’ingenua fiducia di Gaetano Mosca in un approccio scientifico ai cambiamenti sociali, valido anche per la comprensione del doppio trauma del XX secolo, consistente nell’esilità delle istituzioni postrisorgimentali, e nella contestuale crescita disordinata delle masse. Nella posizione del professore costituzionalista, Gramsci vede il rischio di legittimare uno specialismo della politica ad uso di una élite che consegni a sé medesima una funzione di diagnosi sociale, apparentemente senza “passioni”, pur riconoscendo la scomposizione in atto del tessuto democratico. Dietro questo compito da meri studiosi, lontani dalla realtà in evoluzione, Gramsci ritiene possibile un arretramento dell’intelligenza della politica in uno spazio di cultura codificata e non più in grado di offrire analisi critiche di fronte ad uno sconvolgimento storico sempre più accelerato, che tocca i partiti, le esigenze popolari e lo Stato. Scrive Gramsci, non a caso sotto la rubrica Machiavelli. Il moderno principe:
[…] La deficienza del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo complesso il problema del «partito politico» e si capisce, dato il carattere dei suoi libri e specialmente degli Elementi di scienza politica. L’interesse del Mosca ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vuole reagire. Le due parti del libro scritte in due momenti tipici della storia politico-sociale italiana, nel 1895 e nel 1923, mentre la classe politica si disintegra e non riesce a trovare un terreno solido di organizzazione5.
La distanza fra il distacco dello sguardo scientifico e la percezione dello stadio irreversibile della crisi liberale, a partire dalla fine degli equilibri fra ceti urbani e campagne, è il segno evidente di una più profonda contraddizione fra lo statuto di obiettività dello scienziato, e la comprensione del tempo nuovo della politica, che comunque non sarà possibile interpretare nel profondo, senza fare i conti con il concetto di classe e con il fattore volontà, o intenzione. In un passo del Q. 13, la critica di quella sorta di guado intellettuale, che Mosca rappresenta in termini definitivi, è netta. Scrive Gramsci:
La quistione della classe politica, come è presentata nelle opere di Gaetano Mosca, è diventata un puzzle. Non si capisce esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe politica, tanto la nozione è elastica ed ondeggiante. Talvolta pare che per classe politica si intenda la classe media, altre volte l’insieme delle classi possidenti, altre volte ciò che si chiama la «parte colta» della società, o il «personale politico» (ceto parlamentare) dello Stato: talvolta pare che la burocrazia, anche nel suo strato superiore, sia esclusa dalla classe politica in quanto deve appunto essere controllata e guidata dalla classe politica. La deficienza della trattazione del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo complesso il problema del «partito politico» e ciò si capisce, dato il carattere dei libri del Mosca e specialmente degli Elementi di scienza politica: l’interesse del Mosca infatti ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte […]6.
Il brano riprende e accentua quanto già affermato nella prima versione del Q. 8; la ferma ripulsa delle tesi di Gaetano Mosca contiene già il senso di una delle domande che Gramsci rivolge a Machiavelli, non solo in ordine al partito politico, ribattezzato dal Sardo come innovativo versante di un intelletto collettivo, ma anche, e forse soprattutto, in ordine all’improduttività di un lavoro intellettuale che, di fronte ai grandi rivolgimenti storici, non rigetti la pretesa dell’ “oggettività”, nel pensiero e nell’esperienza politica. Gramsci rilegge il professore siciliano come chiuso nella sua miscela di costituzionalismo e di elitismo, di fronte alla gravità della crisi dello Stato liberale; egli muove dal mutamento intervenuto nei rapporti fra le classi, spinto a uno stadio quasi “catastrofico” e a uno sbocco autoritario già consolidato, quando scrive le sue note carcerarie. La possibilità di ridurre i ritmi della storia a regole astrattamente razionali si infrange sull’insufficienza della sola ragione per comprendere le crisi politiche intorno alle funzioni dello Stato. In queste note contro Mosca, con la sua confusione fra questione della classe politica e grandi cambiamenti nei rapporti fra le classi, per Gramsci è impossibile un atteggiamento di neutralità, specialmente di fronte alla fine di un vecchio abito delle scienze sociali, mentre l’iniziativa sta passando, o è già passata, alle forze antidemocratiche. Il primo dopo-guerra ha mostrato la fragilità di un movimento operaio limitato alla fabbrica, e dopo il biennio 1919-20 la risposta antagonista non è venuta dai vari modelli di “studio”, ma dalla fine del garantismo costituzionale. In questo spazio di riflessioni e di esperienze concrete, la sconfitta è arrivata e non si è fatta fermare dalla scienza. Il nodo della questione diventa il punto di vista da cui deve muovere ora l’analisi, che in Gramsci matura per fasi successive proprio nei Q., e si arricchisce attraverso l’incontro con Machiavelli, rispecchiato nell’intenzione del Sardo di far emergere una moderna teoria delle lotte sociali dal corpo storico della tradizione italiana, più che dall’utilizzo delle sole fonti marxiane, complesse e nemmeno completamente disponibili nella condizione del carcere. Anima di una simile operazione, incomprensibile senza la valorizzazione del profilo intellettuale della lotta politica, è in Gramsci l’essenza del Segretario fiorentino, per come egli la legge, incardinata sul nesso strettissimo fra conflitti e Stato. Il fattore passionale, che Gramsci ha già menzionato come corollario inevitabile del ragionamento politico, contrapponendosi a Mosca, ritorna, nel dialogo con Machiavelli, ma questa volta l’alternativa non è l’equilibrio, logico-scientifico o storico, con la sua vena di sottile rischio di resa. Lo studio appassionato del Principe va oltre gli avvenimenti più immediati, e oltre la svolta autoritaria italiana fra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento. Ora il tema è spiegare l’intera congiuntura di crisi epocale in una fase tempestosa del XX secolo, riconoscere in essa la fine di un ordine che non ignorava la democrazia, e quindi acquisire una visione della politica in cui volontà e consapevolezza dei soggetti sociali in urto fra loro, siano i primi segni di un cambiamento possibile, di una modificazione del senso della storia. In una simile tensione fra domande di approfondimento, e relativa scarsezza di fonti e di risposte, Gramsci si rivolge a Niccolò Machiavelli, in una progressione di argomenti che si intensifica per cerchi concentrici, fino ad arrivare al fuoco del problema della politica, nella sua duplice anima di studio e di cambiamento pratico. Ma il ragionamento di Gramsci va seguito nelle sue pieghe.
Nella fitta scrittura dei Q., un passo assai noto7 mette in evidenza il legame dell’opera del Fiorentino con la tradizione nazionale e, in un senso più ampio, con i caratteri della storia europea. Ma in quel brano filtra anche una deduzione provvisoria, circa il valore di Machiavelli, circoscritto ai rapporti reciproci fra i piccoli Stati italiani, e alle loro attenzioni verso le grandi monarchie nazionali in Europa, a fini sostanzialmente auto-conservativi o di alleanze dettate da opportunismo politico. Da questo giudizio parziale, deriva quella figura di un Machiavelli storicamente delimitato – «legato al suo tempo» scrive Gramsci»8 –che poi si modificherà totalmente nella prosecuzione delle note carcerarie. Ma non basta questa sorta di relativizzazione storica del Fiorentino; accanto vi è anche una connotazione politica che vede in lui «la filosofia del tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta»,9 forma tipica dello Stato della borghesia, come il Sardo sottolinea più volte nelle sue note. A riprova della corrispondenza fra borghesia e Stato, anche la sottovalutazione delle moderne armi di artiglieria sottolinea una concezione della guerra fondata sull’im-piego della fanteria, corpo militare di una massa di contadini, legati da fedeltà certa al signore. L’inquadramento, che traspare in Gramsci, di tutto il saggio machiavelliano sull’Arte della guerra in una dialettica fra borghesia urbana e massa agricola subalterna, rafforza il senso di parzialità del tempo in cui il Fiorentino sembra attestato, a una prima lettura, rispetto ai successivi approfondimenti che emergono in tutto il Q. 13. Ma nel primo approccio di Gramsci a Machiavelli, si nota l’uso di categorie analitiche di sapore marxiano, applicate tal quali a uno scenario cinquecentesco, che alla fine si profila – per il Sardo – come l’intuizione di fondo del Segretario fiorentino, e forse anche come un punto di riferimento interpretativo, che induce a un’analisi piegata dentro lo scontro sociale tipico dell’epoca precapitalistica; in questa fase la borghesia ha puntato alla direzione dello Stato che stessa andava costruendo, e lo faceva utilizzando la massa di urto dei ceti subalterni in armi, in primis il contado privo di soggettività ideale e politica. Se così si disegna una attenzione di Gramsci a Machiavelli, dopo gli scarni accenni degli anni giovanili, un elemento interessante non è solo la qualità provvisoria delle considerazioni iniziali sul Segretario, ma anche la tendenza a interpretare la sua figura complessiva come deposito di un’epoca passata o, al massimo, da ridurre allo schema logico delle forme di dominio che precedono il moderno capitalismo e le sue aspirazioni egemoniche. Ma si tratta di un’impressione da correggere.
Proseguendo, infatti, nello studio su Machiavelli, il Q. 13 concentra e mette a punto tutte le precedenti riflessioni, e le unifica secondo un’interpretazione del Fiorentino più originale e più dinamica. Il presente saggio non tornerà sul tema dell’intellettuale collettivo, visitato a lungo dagli studiosi e divenuto, negli anni, persino una lente di polemiche sulla storia del gruppo dirigente del partito comunista italiano, oppure un paniere tematico proiettato sul futuro, e in particolare sulla qualità intellettuale di cui deve dotarsi un partito operaio nella sua lotta prima contro il fascismo e poi per una democrazia di tipo progressivo.10 L’argomento ha trovato indirizzi assai distinti fra loro, basati su tracce diverse di lettura delle pagine carcerarie di Gramsci e, alla fine, pur senza aver mai appianato tutte le differenze, ha toccato temi più fecondi sull’incontro fra il Sardo e il Fiorentino, soprattutto se si guarda alla completa re-impostazione della teoria politica, che Gramsci prova a definire di fronte a una sconfitta “catastrofica”. In questa linea di studio, riaffiora in Gramsci il suo mai sopito motivo dell’importanza, nei processi di trasformazione e di rinnovamento sociale, della “volontà concreta”, espressione presente fin dagli scritti giovanili del Sardo. Reimpostando il concetto di volontà, presupposto di qualsiasi iniziativa politica, Machiavelli assume immediatamente un’altra veste, rispetto a quella del Q. 1 e 8, che quasi fuoriesce dalle sue stesse pagine, in parte per un non lieve impulso provocato dalla lettura di un saggio di Luigi Russo, menzionato nei Q.,11 e in parte perché la riduzione del Fiorentino a nome del suo tempo, per il Sardo è diventata troppo stretta, troppo povera rispetto alla carica rivelatrice, via via montante, più che della “lettera”, dello “spirito” delle opere machiavelliane, elevate nelle riflessioni carcerarie a patrimonio oltre la spiegazione della risposta possibile alla crisi della borghesia dirigente. Ormai Il Principe consente la completa rifondazione della forma della politica, fondendo teoria e azione concreta, e infrange il limite del tempo, perché si muove fra passato e presente, congiunti nella loro intensità drammatica, nel loro denominatore comune di fasi di un cambiamento. L’equazione fra politica e cambiamento è entrata nella mente di Gramsci, il quale in Machiavelli ritiene di aver trovato le grandi motivazioni per rigettare il principio immobilistico che razionalizza la realtà per salvarla dalla critica. Ora la spinta predominate è la libertà di pensare e immaginare un diverso universo sociale. Così scrive Gramsci, in un passo assai noto:
il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva».12
Il celeberrimo brano, fra i più citati degli scritti del carcere, per taluni potrebbe apparire scontato, definitivamente codificato nel suo significato di stampo quasi “eroico” e di “strappo”, circa il valore da attribuire al linguaggio del Principe. Tuttavia, giova ripercorrere queste righe, evidenziandone le parole di rinvio puntiglioso a generi culturali inconsueti, o almeno esterni, rispetto alla politica, e sospesi fra il letterario, il teatrale e il libro umanizzato. Per di più, questa intenzionale mescolanza di forme espressive, disomogenee fra loro, interviene in Gramsci come suggerita da una miscela concettuale di forte valenza emozionale, e destinata a scuotere gli animi. Qui il Sardo, nel definire il confine culturale e teorico che egli può ormai segnare fra la densità civile di un tempo ante-Machiavelli, e quella di un tempo post-Machiavelli – ma tutto il discorso gramsciano è una sostanziale metafora del presente – fa trasparire l’intenzione di evidenziare vie diverse di approccio alla politica, marcate ma indipendenti dalle tattiche necessarie ai governi, o alla guida stabile di un popolo, o alle fredde grammatiche dell’immobilismo. Gramsci si pone fuori dalle logiche di corto respiro, attratto dell’incalzare del ritmo del volumetto machiavelliano; da un lato egli mette in discussione, di questa opera cinquecentesca per lui sorprendente, la natura di «trattazione sistematica» e di «trattato scolastico», e dall’altro lato, fa ricorso alla «forma drammatica del mito», per annunciare un avanzamento della politica lontano da esperienze libresche o trattati dottrinari. Il mito, nell’accezione gramsciana, esprime la discontinuità, il salto da un registro mentale a un altro, e l’accesso a un sistema non codificabile delle tensioni intime al mondo umano, alla vita concreta e alla sua necessaria mutevolezza. La stessa utopia, pur con il suo carico di desiderio, o di speranza dettata da un immaginario alternativo – la voglia di un altrove migliore della condizione storica data – è menzionata espressamente da Gramsci, ma in confini prossimi all’esercizio mentale, al pensiero pressoché solitario.13 L’uso di immagini che evocano più la passione, che l’equidistanza prudenziale, attribuisce a Machiavelli la fine di ogni ragione meramente dichiarativa – la politica non è un teorema – mentre si riscopre la potenza del Principe-condottiero; si evidenzia così l’influenza di un’anima attiva e materializzata, di una componente antropologica che non intende ridursi a soggettività solitaria, e quasi a irrazionalità sfrenata, per spingersi invece alla sua funzione teatralizzata in un personaggio che susciti una motivata “volontà collettiva”. Machiavelli è l’artefice “plastico” dell’eliminazione di ogni preteso fondamento metafisico della politica, di ogni tentazione di continuità senza fantasia. Guardandosi dal finire nel volontarismo, o nella speranza di un nuovo “eroe ex machina”, deputato a mutare il destino delle relazioni sociali, Gramsci profila il passaggio, dopo la lettura di Machiavelli, a una nuova impostazione del pensiero e dell’iniziativa politica, in cui la ragione “geometrica” non basta più, non è più la forma mentis del dirigente politico. Questi, per guardare al futuro, dovrà assumere la mentalità creativa e dovrà servirsi della «fantasia artistica», (termine gramsciano) per educare il suo pensiero al livello più difficile e più proprio della politica, quello alimentato dalla tendenza alla libertà da ogni regola, all’inedito, alla narrazione che cresce mentre viene scritta, o addirittura è ancora da scrivere. Perciò Il Principe è un “libro vivente”, nel senso che a Gramsci non interessa più – il Q. 13 è degli ultimi anni della sua vita – un cam-biamento razionalizzato in quanto moderato, convenzionale e prevedibile, o addirittura “regolato” e scritto in codice. Quando la scienza non è più adeguata, né nella sua pretesa di oggettività senza desiderio, né nel suo rifugio testimoniale e libresco, allora la politica consapevole dei suoi scopi inclina verso la drammatizzazione, verso il fantastico nei modi dell’arte e verso i soggetti collettivi, tutti elementi di un’umanità viva che – grazie al Principe – prima si rivela come forza etico-spirituale, e poi irrompe nel mondo materiale, nel profondo dell’umanità concreta, che esce dalla dispersione individualistica e guarda allo Stato nuovo, allo Stato senza antecedenti storici. In questa dimensione risiede la temperie “artistica” e, insieme, la legittimazione di una coscienza politica che non ignora il passato – le cose “antique” – ma solo per cambiarlo. Il testo del Segretario fiorentino si presenta, così, come un nuovo logos, una logica complessa, attraverso cui prende sempre più consistenza un processo che agirà sulla base di princìpi di nuovo conio morale, princìpi non derivati da nessuna delle regole o dottrine già conosciute. Alla fine, il linguaggio si fa esso stesso scopo, passione per una politica in simbiosi con l’azione concreta. Afferma Gramsci:
Nell’intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione di un nuovo Stato, […] nella conclusione Machiavelli stesso si fa popolo, ma non con un popolo «genericamente esteso» ma col popolo […] di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato”14.
È un brano che comprende due ordini di considerazioni. Da un lato, il Sardo disvela, scrivendo sul Fiorentino, l’obiettivo di creare uno Stato corrispondente al suo popolo, seguendo un’omologa logica, a livello del principe e a livello dello Stato; nessuno Stato esisterà mai senza un principe che lo susciti e lo ponga per scopo, o senza immedesimarsi nel suo popolo. Viceversa, nessun principe uscirà mai dalla solitudine del potere, se non adotterà una visione innovativa dello Stato, dotata di concretezza storica e affidata a un nuovo ordine capace di formarsi attraverso il popolo organizzato. Dall’altro lato, acquisito il nesso fra politica e Stato, Machiavelli per Gramsci dischiude una nuova scienza politica, che vive nella tensione per un compito liberante dell’intera esperienza politica, senza ripetere i percorsi del passato. Il nuovo soggetto pensante, o nuovo Principe – in senso ideale e storico – vive accanto al suo popolo, e assume su di sé in termini «immediati», dice Gramsci, cioè di comune consapevolezza, il compito di aprire un rapporto fra passato e presente valido in un orizzonte di trasformazione sociale, inedita nozione della scienza e della politica. Nel rapporto attivo fra popolo e Stato, nessuno dei due termini può restare indifferente o assente all’altro. Qui muta la soggettività della storia e, anche se queste pagine – e altre dei Q. – hanno alimentato un fervido e contrastato dibattito sull’intellettuale collettivo, paradigma mascherato del partito, tuttavia esse confermano la fine della scienza separata, propria dei cosiddetti “scienziati” della politica, ora chiamati a cedere il loro “mestiere” proprio nelle mani di quel soggetto collettivo che essi hanno temuto e, in buona misura, misconosciuto. La scienza ora si compendia in progetti e in esiti dinamici – «drammatici», dice Gramsci – in premesse e in prospettive perseguite da un punto di elaborazione che ha per scopo la negazione degli equilibri statici15. E anche il rapporto stretto fra Principe, Stato e popolo, indica che la direzione politica non potrà essere un lavoro di motivazione dello Stato su un paradigma di autorità chiusa. La prospettiva di valorizzazione della soggettività attiva si compendia nell’endiadi del «grido appassionato, immediato»16. Si riaffaccia, così, l’im magine-anima del giornale operaio torinese Il grido del popolo, nel quale lo stesso Gramsci pubblicò tanta parte dei suoi articoli giovanili, e che assunse il valore di tribuna per l’insurrezione morale di una coscienza collettiva alle sue prime prove di esodo dalla subalternità, proprio attraverso l’intelligenza critica. Il lessico binario del grido e del popolo ora ritorna, quasi restituito alla storia dalle pagine machiavelliane, come una riemersione dalle cavità dei terreni carsici. Nei Q. affiorano, e subito si celano, per poi tornare a mostrarsi, i termini di un denominatore culturale del popolo, alternativo all’intreccio disordinato e inconsapevole, fra etica astratta ed economia spicciola, miscela tipica dei fenomeni sociali più irriflessi. Sensibile, insomma, alla vitalità delle pagine machiavelliane, Gramsci vuole affermare che non si può più pensare alla politica come ad uno spazio ancora occupato da un popolo ridotto a domanda senza mente. Ora il “grido” è nella fecondità di un’osmosi razionale, fra governo – o Principe – e suo complemento immediato, o popolo pensante, pronto a raccogliere l’idea che neanche il più duro dei Principi possa mai disporre di una forza collettiva senza una politica di ricongiungimento con il suo popolo. Il finale appello di Machiavelli a trasformare l’Italia in uno Stato moderno e socialmente coeso, che conclude il volumetto machiavelliano nel nome di Petrarca, è la rivelazione di un approdo teorico che è anche affrancamento dalle astrazioni o dalle speranze individualistiche. La conclusione del Principe è il momento della rivelazione di tutto il suo valore di “manifesto”, di comunicazione al pubblico di un programma politico. Ora Machiavelli è completamente liberato dai limiti del suo tempo come, al primo contatto con il Fiorentino, Gramsci ha invece affermato; ora il tempo del Segretario è diventato teoria spinta nell’avvenire, luogo universale di una nuova accezione della politica. Scrive Gramsci:
Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato» dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera, anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa un «manifesto politico»17.
L’incidenza di Machiavelli culmina nella comunicazione di un progetto, concentrato nella coppia teorica Principe/innovazione, e che produce una nuova forma di interpretazione della politica, arricchita dalla rilettura critica della storia.
In questo impianto si rivela, quasi puntigliosamente, la lontananza di Gramsci dall’idea del “mito” adottata da Sorel,18 pure carica di passionalità, ma senza forza progettuale. L’esaltazione della lotta violenta e confusa, secondo uno schema da rudimentale protesta sindacale, propria dell’impianto soreliano, non possiede nessuna capacità di trasporto ideale, per Gramsci, né dal lato del disegno di un governo possibile, né dal lato del rinnovamento della cultura civile, anima di una nazione. La violenza, anzi, cerca di servirsi del suo stesso mito perché nasce nell’immaginario senza progetto, cresce come potenza della volontà, e si motiva su sé medesima, sulla sfera dell’immediato, ovvero della scomposizione sociale più banalmente economica, fatta di interessi del microcosmo individuale. Il carattere contraddittorio di questo esiguo supporto del mito, nelle pagine gramsciane è sottolineato da una critica che travolge Sorel, quando lo colloca a mezza via fra l’arbitrio puro del gesto fisico, e la ricaduta nel profilo più inerte dell’utopia, quello che confina con lo spazio passivo dell’impotenza. Il limite maggiore dell’autore francese è per Gramsci il suo mancato appuntamento con una teoria del partito politico, con un organismo storico deputato a organizzare la volontà del popolo. A quest’altezza, il Sardo non concede indulgenze a Sorel che, pur con un’importante attenzione al fattore ideologico, in quanto fonte di volontà e di opzioni pratiche, resta prigioniero di una teoria concentrata nell’atto supremo dello sciopero generale, in un respiro complessivamente mutilo e improduttivo. Scrive Gramsci:
Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La soluzione era abbandonata all’impulso dell’irrazionale, dell’«arbitrario» (nel senso bergsoniano di «impulso vitale») […]. Può un mito però essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell’ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma questa volontà collettiva, così formata elementarmente, non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole, che per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti?19
L’interrogativo retorico di Gramsci punta ad evidenziare l’assenza di carica sociale e innovativa nel mito di Sorel, riassunto in un’azione simbolica, o in un momento di antagonismo concentrato nel dissenso eruttivo, privo di progetto e di riferimenti ad un soggetto sociale definito. Se lo sciopero generale è «attività passiva»,20 come Gramsci scrive, allora va evidenziata la posizione contraddittoria di Sorel, diviso fra le suggestioni irrazionali della politica, e la loro valenza di viatico al trionfo dell’azione ridotta a gesto, senza passato, e senza prospettiva. In questa modalità espressiva si annida la peggiore accezione dell’utopia, vissuta dentro un complesso mentale senza sbocchi programmatici, vera paralisi del cambiamento. La critica rivela tutta la differenza fra la sostanza etico-politica del mito incontrato nella lettura di Machiavelli, e la mera frattura indotta dalla raffigurazione iper-volontaristica di un utopismo nato nell’eccitazione della coscienza soggettiva, qual è quello tendente alla «scomposizione» sociale, caratteristica dell’opzione di Sorel. Il problema è proprio la scomposizione, l’esatto contrario della lezione di aggregazione delle forze, che Gramsci coglie in Machiavelli, nella posizione di un obiettivo – lo Stato nazionale – e nella concentrazione di idee innovative, riconcepite nel blocco – secondo il lessico gramsciano – fra borghesia urbana e popolo pronto a seguirla. Qui si tocca il livello della politica come pensiero organico e come progettualità di un nuovo ordine sociale, di una lezione di scienza politica ispirata al valore di libertà di un nuovo inizio. Problema di fondo è evitare l’utopia sognante, ma anche la sopravalutazione dei vincoli derivanti dalla situazione immediatamente fattuale. Scrive Gramsci a proposito della «realtà effettuale», da non assumersi in senso positivistico e assolutamente impediente:
Il «troppo» […] realismo politico porta spesso ad affermare che l’uomo di Stato deve operare solo nell’ambito della «realtà effettuale», non interessarsi del «dover essere», ma solo dell’«essere». Ciò significherebbe che l’uomo di Stato non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha condotto Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero politico». Bisogna distinguere oltre che tra «diplomatico» e «politico», anche tra scienziato della politica e politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi solo nella realtà effettuale, perché la sua attività specifica non è quella di creare nuovi equilibri, ma di conservare entro certi quadri giuridici un equilibrio esistente. Così anche lo scienziato deve muoversi solo nella realtà effettuale in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del «dover essere», certo non inteso in senso moralistico21.
Gramsci ora distingue l’obbligo di non ignorare la situazione data, dalla creatività del «politico in atto». In polemica con il socialista Treves, che ingenuamente pone in Guicciardini, di contro a Machiavelli, il dirigente prudenziale e perciò il politico autentico, i Q. vedono nella tensione al cambiamento un atto di libertà, di fuga dal presente, quando questo abbia assunto la rigidità di un carcere morale, di un dominio asfissiante. Facile leggere, in un simile urto, un’impostazione di movimento nella dialettica fra la portata quasi “metafisica” del presente, ostacolo al cominciare, e l’ispirazione di libertà e di deontologia che motiva il passo in avanti e la sua destinazione al capovolgimento del vecchio mondo. Pensare la politica – sembra avvertire Gramsci, sull’onda della sintesi di sentimenti e ragione drammatica, ispirata dallo studio di Machiavelli – rinvia innanzitutto a un dover essere come luogo di coscienza civile, concepito grazie alla fantasia dell’altrimenti, a un atto di liberazione mentale, di ripulsa passionale di un universo di potere non più capace di guardare lontano22. Il discorso potrebbe articolarsi in ulteriori passaggi, e in particolare su quel “Centauro” machiavelliano, che esprime la struttura binaria della politica, mai riducibile ad una sola logica, compatta e senza fratture. La contrapposizione fra necessità e libertà, altro lessico per alludere all’urto fra realtà effettuale e deontologia creativa, o dovere di andare avanti, ritorna nella fisionomia più propria del politico, metà bestia e metà uomo. Gramsci ridefinisce la complementarietà fra la coercizione – linguaggio ferino – e l’egemonia – prodotto del consenso – nessuno dei due termini può mancare al politico, che nell’esercizio del governo deve dividere la sua azione in due punti di osservazione diversi e complementari, l’uno che scinde necessità e libertà, e l’altro che distingue la forza-determinazione dall’egemonia-convincimento ideale23. In questo senso, dal dualismo intrinseco all’esperienza politica, prende origine, di quest’ultima, una ricomposizione ideale più ricca, concretizzata nel compimento effettivo della sua funzione di discontinuità, prima ideale, e poi più concreta.
Notes
- Una prima riflessione, poi ampliata nel Quaderno 13 (da ora i poi i Quaderni saranno indicati con la formula “classica” di Q. con i tre numeri relativi al Quaderno stesso, al paragrafo e alla pagina), appare in Q, 8, 21, 951, dell’edizione di Valentino Gerratana (a cura di), Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975. Da questa opera provengono tutti i brani gramsciani del presente contributo.
- È appena il caso di notare che nei Q. Gramsci ripetutamente ha imputato alla Chiesa cattolica, in quanto soggetto secolarizzato, la paternità di un antimachiavellismo duro, dettato dal timore che il realismo laico del Fiorentino potesse mettere a nudo quale ostacolo la stessa Chiesa abbia rappresentato per la ricomposizione della penisola italiana in Stato unitario. Ma nei Q. un cenno meritano anche i pochi e penetranti riferimenti a Jean Bodin, riassumibili in un passaggio politicamente molto avvertito, dove Gramsci scrive: «Mi pare evidente che classificare il Bodin fra gli “antimachiavellici” sia quistione assolutamente estrinseca e superficiale. Il Bodin fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto più avanzato e complesso di quello che l’Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all’epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell’interno di questo Stato già forte e radicato; non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col Bodin si tende a sviluppare la monarchia assoluta». Q, 13,13,1574. L’espressione “antimachiavellici” Gramsci la deduce dall’omonimo testo di Antonio Panella, cui egli rinvia, precisandone l’edizione (Marzocco), con l’incertezza dell’anno, se 1926 o 1927. Da questo saggio egli ha raccolto sia il tema dell’antimachivellismo, sia il ruolo di Jean Bodin (Ibidem, 1575).
- La rivoluzione russa, non prevista dagli osservatori dell’epoca, non era sfuggita a Gramsci, nella sua portata di sommovimento fuori da ogni codificazione del marxismo di quegli anni. La sua interpretazione è compresa in due articoli, molto appassionati e oggi ben noti, dove è esaltato il ruolo della volontà, rispetto alle rigide astrazioni teoriche. Il primo articolo è “Il nostro Marx”, in A. Gramsci. Scritti giovanili, Einaudi, Torino, 1958, p. 217; il secondo è “La rivoluzione contro il «Capitale»“ (Ibidem, p. 149), poi ristampato in A. Gramsci, La Città Futura 1917-1918, Einaudi, Torino, 1982, p. 227.
- È da notare che Gramsci è informato della doppia e differente edizione dello studio di Mosca.
- Q, 8, 52, 972. Il tema verrà ripreso in forma ampliata in Q. 13, dove si sottolinea la posizione sociale di Mosca, dedotta dal suo volume Teorica dei governi e governo parlamentare, di cui Gramsci menziona la prima edizione del 1883, e la seconda, del 1925. Sulla base di questo testo, il Sardo dapprima colloca Mosca fra «gli intellettuali conservatori, di destra», e poi lo definisce «terrorizzato da un possibile contatto fra città e campagna». Q, 13, 23, 1607.
- Q, 13, 6, 1565.
- Q. 1, 10, 8-9.
- La bibliografia sull’intellettuale collettivo è incredibilmente ampia, fra tesi di laurea, tesi di dottorato, articoli in riviste e monografie. Ma il presente lavoro non si sofferma sull’argomento, in quanto segue un indirizzo di ricerca autonomo dai dibattiti serrati sull’opera di Gramsci, spesso non privi di interpretazioni ideologiche e di ridondanze in parte superate nel tempo. Va tuttavia menzionato lo studio a cura di Carmine Donzelli, Antonio Gramsci. Il Moderno Principe. Il partito e la lotta per l’egemonia, Donzelli, Roma, 2012, per la sua lunghissima “Introduzione”, che riporta in causa anche le posizioni di Togliatti, e per l’indubbia utilità di una ristampa integrale del Quaderno XIII – che segue all’introduzione – con annesso apparato di note, sicuramente prezioso per chi desideri cimentarsi ulteriormente sull’appassionante storia delle interpretazioni su Gramsci. Altro libro di rappresentazione efficace dei versanti di pensiero intorno a Gramsci, è quello di Guido Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Editori Riuniti, Roma, 2012. Ma un elenco appena sufficiente sarebbe comunque immenso.
- Il saggio in questione è uno scritto del 1931, dal titolo Prolegomeni a Machiavelli. Con i successivi anni ‘40, gli studi del Russo sono stati raccolti in un’unica edizione, poi ristampata. Si veda L. Russo, Machiavelli, Laterza, Bari, 1965.
- Q. 13, 1, 1555.
- Sul tema dell’utopia, e sulle sue accezioni di visione di mondi possibili, rinvio alla recente pubblicazione di L. Mitarotondo (a cura di), Utopia concrete, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2018. Fra i vari saggi ivi compresi, uno tratta dell’utopia in Gramsci
- Q. 13, 1, 1556.
- In Gramsci il termine “popolo” ricorre con grande frequenza, e con valenze anche difformi. La particolare attenzione del Sardo all’elemento popolare, negli ultimi anni, e a seguito del populismo del XXI secolo, ha alimentato studi intorno a una componente populistica in Gramsci, data per certa. È una tesi difficilmente dimostrabile, alla quale scarso supporto potrebbe venire dal lessico e da vari luoghi dei ampiamente citati da coloro che ne sono convinti. Diverso è il parere di chi scrive, se non altro perché in Gramsci l’elemento popolare è parte fondamentale di una più ampia “riforma intellettuale e morale”, che nulla ha a che fare con l’equivoco economicistico che già Lenin, per primo, denunciò nel populismo russo. L’argomento richiederebbe un autonomo saggio dedicato, e in questa sede valga almeno un rinvio al testo di G. Liguori (a cura di), Gramsci e il populismo, Unicopli, Milano, 2019, con l’estesa bibliografia.
- Ibidem.
- Q. 13, 1, 1557.
- Ibidem, p. 1556.
- Q. 13, 16, 1577.
- L’atto di liberazione di cui la volontà deve essere, al tempo stesso, artefice ed esecutrice, riporta alla mente un brillante saggio di Michele Ciliberto (M. Ciliberto, Nicolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Laterza, Roma-Bari, 2019), nel quale l’autore, attraverso un puntuale ritorno sulle opere di Machiavelli e sulle sue Lettere, pone in particolare evidenza il ricorrere nelle missive al Vettori, e anche nella Mandragola, la potenza di un atto della mente vissuto come rottura liberatoria, come “fuga”, e persino come “follia” ragionata, nell’urgenza di voler rompere una situazione che appaia chiusa quasi senza speranza. A giudizio di Ciliberto, in una tesi molto suggestiva, per il Fiorentino un momento di vera “drammatizzazione” della politica, proiettata a un nuovo inizio, indica anche il lato razionale della follia, la sua qualità di sintesi mentale che nega esservi una situazione chiusa perennemente; la follia pensante vede, invece, in ogni congiuntura storica la sua intrinseca fragilità, superabile grazie alla potenza della volontà di agire, e della sua forza di aprire una fase diversa, infrangendo le false regole della logica passivizzante.
- Riprendendo un brano di Q, 8, 86, 991, Gramsci scrive in Q, 13, 14, 1576: «Altro punto da fissare e da svolgere è quello della «doppia prospettiva» nell’azione politica e nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la doppia prospettiva, dai più elementari ai più complessi, ma che possono ridursi teoricamente a due gradi fondamentali, corrispondenti alla doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso, dell’autorità e dell’egemonia, della violenza e della civiltà, del momento individuale e di quello universale […]. Alcuni hanno ridotto la teoria della “doppia prospettiva” a qualcosa di meschino e di banale, a niente altro cioè che a due forme di “immediatezza” che si succedono meccanicamente nel tempo con maggiore o minore “prossimità”. Può invece avvenire che quanto più la prima “prospettiva” è “immediatissima”, elementarissima, tanto più la seconda debba essere “lontana” (non nel tempo, ma come rapporto dialettico) complessa, elevata, cioè può avvenire come nella vita umana, che quanto più un individuo è costretto a difendere la propria esistenza fisica immediata, tanto più sostiene e si pone dal punto di vista di tutti i complessi e più elevati valori della civiltà e dell’umanità».
Bibliography
CILIBERTO, Michele, Nicolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Laterza, Roma-Bari, 2019.
GRAMSCI, Antonio, Quaderni del carcere, Valentino Gerratana (a cura di), Torino, Einaudi, 1975.
Idem, Scritti giovanili, Einaudi, Torino, 1958
Idem, La Città Futura 1917-1918, Einaudi, Torino, 1982.
Idem, Il Moderno Principe. Il partito e la lotta per l’egemonia, (cura di Carmine Donzelli), Donzelli, Roma, 2012.
LIGUOR,I Guido, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Editori Riuniti, Roma, 2012.
Idem (a cura di), Gramsci e il populismo, Unicopli, Milano, 2019.
MITAROTONDO, L. (a cura di), Utopia concrete, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2018.