Coordonat de Silvia BOCANCEA
Volum IV, Nr. 4(6), Serie nouă, Septembrie – Noiembrie 2014
La parola poetica come strategia di fuga dal capitalismo tecno-nichilista
(Cuvântul poetic ca strategie de evitare a capitalismului tehno-nihilist)
Alessandro LATTARULO
Abstract. In this article we try to argue that the domain of economics and technology in late modernity, seen as the result of the submission of the symbols and myths to the hedonism and nihilism, can be undermined facing it on the cultural field. New prophets of this message, which looks to the future without being satisfied to domesticate reality, are the poets, a peculiar kind of artists whose creative use of words carries a revolutionary seed, much more effective than any reform conceived in order not to weaken the hegemonic lexicon.
Keywords: Technik/technology, poets, myth, prophecy, capitalism.
Introduzione
In questo saggio intendiamo argomentare che nell’epoca presente, segnata da una cifra marcatamente economica, che, per essere più precisi, assume la forma de-materializzata della finanza (delfinanzcapitalismo, seguendo Gallino[1]), la crisi che investe l’Occidente sia, ancor prima che legata a un ineluttabile tramonto dello stesso o certificata dal crollo del PIL e dall’andamento delle Borse, da ricercare all’interno di una contraddizione che investe la cultura.
Le radici di tale crisi affondano nella scomparsa, dall’orizzonte culturale inteso nel senso più ampio possibile, dei profeti.
Costoro, infatti, sono i portatori di una parola che riesce a indicare un futuro, una prospettiva, cioè ad annunciare un evento. E lo fanno attraverso la parola, liberandola delle incrostazioni che ne riducono la capacità espressiva, al di là della minima codificazione pattizia cui essa è sottoposta per evitare il caos babelico. Utilizzano la parola spesso in maniera evocativa, alludendo, ricorrendo a metafore, allegorie, parabole, ossia a tutti quegli espedienti che fondano la propria efficacia sul ricorso ai simboli. Accanto a questi, lasciano fiorire i miti, che, come vedremo più avanti, sono, al pari dei simboli, ponti tra l’assenza e la presenza, strategie discorsive che solo ingenuamente possono essere liquidate come retaggi di civiltà primitive e debolmente alfabetizzate. Non esiste infatti società, anche moderna e civilizzata secondo i canoni della ricostruzione fattane da Elias, che possa fondare il proprio ordine esclusivamente sulla forza o su un calibrato impasto di violenza e norme. Questa è al meglio un’illusione; nella peggiore delle ipotesi una narrazione mistificante caldeggiata da apparati egemonici di governo (non nel mero senso istituzionale del termine) che intendono far passare sotto silenzio la proliferazione della simbolica mascherata che essi viceversa favoriscono apertamente per mantenere lo status quo.
Tale situazione di fatto, che neppure i fenomeni di proletarizzazione di massa in atto nei paesi occidentali sembrano scalfire, si regge su una torsione del processo di razionalizzazione fiorito con il filosofare all’interno delle poleis e proseguito, con andamento a spirale, con le opere degli umanisti, attraverso il cogito cartesiano, l’Illuminismo, fino ad arrivare alle palesi contraddizioni consumatesi nel ventesimo secolo, tragicamente sospeso tra la grandezza del progresso conosciuto e le devastazioni delle guerre mondiali.
In particolare l’accelerazione della liquefazione delle relazioni che avevano consentito appena qualche decennio fa spettacolari conquiste collettive ha recentemente spianato la strada, anche come reazione alle contraddizioni “genetiche” del Novecento, all’affermazione dell’egoismo proprietario, quale tratto distintivo di una società che ha fuorviato il più autentico significato di libertà individuale.
Sottrarre l’identità a tale forma di egoismo, che rende il linguaggio conformista e spiana la strada a svariate modalità di razzismo, è, secondo Serge Latouche, operazione che passa per un deciso recupero della ragionevolezza contro le degenerazioni della razionalità. Nel libro La sfida di Minerva, egli tenta quasi una lettura storico-sociale del mito che ha come protagonista la dea della ragione. A Minerva, altrettanto spesso vista come dea della guerra per il solo fatto di essere uscita tutta armata dalla testa di Giove, possono essere attribuiti due figli spirituali: Phrónesis, la maggiore, ossia quell’intraducibile mescolanza di prudenza e saggezza, o, ancor meglio, il ragionevole; e Lógos epistemonikós, il minore, cioè la ragione geometrica, il razionale[2]. Secondo l’intellettuale francese, il fratello minore ha reciso i legami con la sorella nel XVI secolo, diventando il fulcro della civiltà occidentale, della Modernità, che risulta pertanto plasmata dalla razionalità tecnoeconomica. Nonostante la diretta filiazione dalla Grecia mediterranea, questa coniugazione della razionalità ha preteso di imporsi senza confronto, cancellando ogni considerazione (prepolitica) del bene. Sarà anche vero che il confine del ragionevole contiene nell’elasticità che lo caratterizza un’arbitrarietà che, per esempio, minaccia alcune caratteristiche del diritto, ma la razionalità, sebbene sottratta a enfatiche simmetrie con la phrónesis, non può bastare a se stessa, tanto più nella Risikogesellschaft lungamente studiata da Ulrich Beck. Nella società (globale) del rischio, dell’incertezza prodotta dall’uomo stesso, il trionfo del razionale diventa assoluto (ab solutus, separato dal resto, sciolto da qualsiasi vincolo) con l’avvento del regno tirannico dell’economico, le cui leggi degradano tutto quel che concerne altre sfere a bersaglio di svalutazione, di derisione. Assimilando la razionalità al calcolo economico, si arriva fino alla confusione dei fini e dei mezzi[3]. Se il comportamento razionale consiste nell’allocare i mezzi scarsi a usi alternativi per realizzare efficientemente l’obiettivo perseguito, poiché tale scopo non può essere che la felicità dell’agente e dell’umanità, allora l’economico si riduce alla quantificazione della felicità. Ma svilire la felicità a un ben-essere che sia sinonimo di ben-avere, di possesso, trasformatosi ormai in fine dotato di un’intrinseca giustificazione, piuttosto che rimanere medium, strumento per conseguire un determinato scopo, favorisce la messa da canto della natura del telos. Nell’esempio adoperato, il fine dovrebbe tutt’al più restare il raggiungimento della felicità come pacificazione con se stessi, non la massimizzazione dei mezzi ritenuti indispensabili per procurarla. La razionalità, insomma, divora il proprio oggetto nella procedura[4].
Alla convincente diagnosi latouchiana, che prescrive quale primario rimedio per uscire dalla bulimia nichilista nella quale siamo ormai intrappolati una decrescita felice, noi, per rimanere ancorati al tessuto prettamente socio-culturale di questo contributo, individueremo nel poeta e nella parola creativa, sulla scia di alcuni autori, benché dalle impostazioni eterogenee, la strategia dell’anima che meglio risulta in grado di ribaltare il paradigma dominante.
L’artista è l’alfiere della profezia, benché talvolta si lasci soggiogare dal potere, intessendo con esso relazioni equivoche[5].
Il poeta, tuttavia, a differenza del pittore, dello scultore, anche quando sia stato storicamente al servizio del principe o del sovrano di turno, ha mantenuto una peculiarità che ne rende preziosa e insostituibile l’opera: lavora con la parola, la mette in versi, la piega a una novazione continua. Nelle sue liriche si cela la pretesa, in quanto tale portatrice di un potenziale rivoluzionario, di affrancarsi dal linguaggio della comunicazione, e tuttavia comunicare qualcosa con malcelata insofferenza nei confronti della rigidità delle regole precostituite, soprattutto se viste come frutto di un’imposizione dall’alto che accentui l’asimmetria congenita nel rapporto di potere tra dominante e dominato. A lui è chiesto di mettere-in-forma la dimensione dell’immaginario, sempre immanente a quella del simbolico e del funzionale, per ricucirle tra di loro, ridimensionando la pretesa del funzionale di esercitare una primazia che de facto si tramuta in dispotismo. L’immaginario, infatti, come ha insegnato Castoriadis, è una dimensione sempre istituente di nuovi spazi mentali, sia individuali che collettivi[6].
Al poeta, ben più che a riforme figlie dell’aspirazione prometeica giuridico-istituzionalista, incapaci di agire sulla formazione di un sentire comune perché costrette nelle maglie della mercificazione, è quindi affidato il compito di ribaltare il paradigma dominante, nel senso descritto da Thomas Kuhn.
Lo studioso statunitense argomentò che la conoscenza sia un prodotto sociale, aggiungendo che il paradigma dominante in una temperie storica, mentre fornisce le basi per interpretare la maggior parte dei fenomeni e assicura le condizioni per l’accumulazione del sapere (e questi ne sono i pregi), costituisce un limite in quanto, essendo determinato, non può e non vuole accogliere dimensioni che esorbitino dall’area circoscritta. La sua teoria critica postulava che un paradigma non fosse più vero di un altro, ma si affermasse in quanto sostanzialmente più adeguato a risolvere i problemi manifestati in una situazione concreta. Attualmente, non soltanto la sua riflessione antipositivistica e oculata nel maneggiare il feticcio dell’oggettività scientifica appare quanto mai salutare per demistificare la strabordante produzione teorica debolmente curiosa e appiattita sulla datità, ma, pur ammonendoci che l’eterogeneità dei paradigmi nelle scienze sociali e umane sia di gran lunga più marcata di quella rinvenibile sul versante fisico-matematico, suggerisce che il meccanismo di logoramento dei paradigmi egemoni funziona secondo le medesime regole e ha più elevate probabilità di successo in coincidenza con una crisi[7]. Ecco perché metterne in risalto le contraddizioni non può essere operazione che si astenga dallo sforzo di creare un’alternativa che muova da una radicale ristrutturazione del lessico. In fondo, anche il primato dell’economia è in primo luogo capacità di penetrazione nel linguaggio e nell’immaginario quotidiani di una grammatica verbale e iconica prima appannaggio di ristrette élites di specialisti.
Simboli
I simboli sono il fondamento delle norme e del potere. Se tutta la realtà fosse scoperta davanti ai nostri occhi, non avremmo bisogno di simboli: essi servono infatti per accedere a un mondo di cui postuliamo l’esistenza, senza poterlo completamente decifrare come cosa pienamente veduta. Sono quindi dispositivi eminentemente ermeneutici. Sono il punto d’incontro di un andare e di un venire. «È un andare dalle esperienze fondate sulle nostre sensazioni fisiche e sulle attività razionali a una realtà metafisica. Questa poi rifluisce su di noi che, sempre di nuovo, ci interroghiamo circa il suo significato appena intravisto»[8].
Il rapporto tra il segno simbolico e il contenuto di significato è innanzitutto soggettivo, anche se il simbolo può diventare oggettivo quando i suoi significati sono codificati in una norma generalmente accettata o subita. Esso si pone quale punto mobile di intersezione tra la soggettività e l’oggettività dei significati. Il suo linguaggio non è immediatamente figurativo o iconico, ma allusivo, e pertanto non si limita a promuovere una conoscenza descrittiva, passiva, ma fervore elaborativo.
Tappa inaggirabile in questa riflessione è il riconoscimento che la conoscenza, quando esiste, è imperfetta come l’uomo. Anche qualora si volesse statuire non lo fosse, essa non esisterebbe più perché si muterebbe in immedesimazione. Del resto, che la conoscenza sia uno stato transeunte, precario per eccellenza, è un topos ricorrente.
Si pensi, per esempio, al mito platonico della caverna, narrato nella Repubblica, in cui i segni sono ombre della realtà soprasensibile e soprarazionale, che andrebbe illuminata a giorno uscendo dalla caverna ma che sconta le resistenze dei prigionieri là tenuti incatenati sin dall’infanzia e perciò ingannati dalle forme portate dagli uomini lungo il muretto, che sembrano meno reali delle ombre alle quali sono abituati. Oppure si vada alle riflessioni sulla vanità contenute nel libro sapienziale del Qoèlet(anche conosciuto con la grecizzazione di Ecclesiaste[9]), dove la saggezza del riconoscere come tutto sia vanità (1,2), nell’accezione originaria radicale di “nulla”, “vuoto”, si snoda attorno al tormento del sapiente dinanzi alla brevità della vita, che, accompagnando verso la medesima sorte sia il saggio che lo stolto, ridimensiona la pretesa di indiarsi. In questo scritto, sebbene sia percepibile, in ottica prettamente umana, che il vantaggio conferito dalla saggezza sulla stoltezza possa paragonarsi a quello della luce sulle tenebre (2, 13; come il sole del mito platonico, che acceca tutti coloro che, abituati al buio, provano persino dolore fisico dinanzi a una luce così intensa), si appalesa il messaggio secondo cui sacralizzare la scienza non solamente costituisce uno sviamento dalla piena realizzazione dell’Uomo, invece possibile nell’incontro con Dio e con la sua infinita Sapienza, ma, per di più, rappresenta, in tale visione pessimistica piuttosto diffusa tra il popolo ebraico, appena liberatosi dal giogo babilonese, un potenziale controsenso persino in ottica utilitaristica. Molta sapienza, infatti, porta molto affanno. «Chi accresce il sapere aumenta il dolore» (1, 18) sia perché, approfondendo il dialogo tra se stesso e la realtà che lo circonda si accorge di sapere quasi socraticamente sempre meno (la crescita della sapienza sembra soggetta a una perversa legge ad andamento discendente rispetto agli strumenti gnoseologici che a mano a mano si acquisiscono), sia perché la più elevata saggezza umana, anche quando messa a servizio di scopi meritori e volti al bene della comunità, incontra un limite invalicabile dinanzi all’opera di Dio, l’unica dotata della capacità di raddrizzare ciò che è curvo, sancendo così il fallimento della sapienza umana, o di quel che l’uomo ritiene sapienza (7, 13).
Non dissimili sono le suggestioni che ritroviamo circa tre secoli dopo nella Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, elaborata durante la propria permanenza a Èfeso come risposta ai problemi della comunità di quella città cosmopolita, nella quale l’apostolo aveva predicato alcuni anni prima. Paolo di Tarso, non alieno a riflessioni sul “simbolico”, tanto più nel confronto con popolazioni pagane devote a culti rituali di varia natura, riesplicitando il messaggio del Cristo, ricorda in primo luogo che fulcro della vita da rinati nel battesimo non possa che essere la carità, senza la quale ognuno sarebbe nulla, ancorché avesse «il dono della profezia», «conoscesse tutti i misteri» e avesse «tanta fede da trasportare le montagne» (1 Corinzi 13, 1). Resta innegabile che gli uomini siano “esseri simbolici”, che non si fermano davanti a quel che appare ai propri sensi, perché costantemente indotti dalla loro indole a “guardare attraverso” per vedere al di là. E aggiunge anche che «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1 Corinzi 13, 13). Lampante è la contrapposizione tra l’ora della realtà di quaggiù, imperfetta, e l’allora della realtà di lassù, dove regna la perfezione e, quindi, il dissolvimento di ogni mistero.
Il segno simbolico, speculum e aenigma, non è quindi un semplice segnale, quale potremmo considerare un cartello stradale, o un mezzo identificativo (un “logo”), ma lo sforzo di rappresentare un doppio strato di realtà: quello che sta al di là dell’esperienza fattuale e logico-dimostrativa, e che ci è come nascosto da un velo, e quello che il velo stesso ci mostra, nell’approssimazione e nel gioco dello scoprimento e del nascondimento.
Il simbolo porta con sé, come suggerisce l’etimologia e l’oggetto designato in origine dal termine, una duplicità che al tempo stesso lega e separa, e che, per rimanere momentaneamente nell’alveo della teologia cristiana, indica tanto il divino quanto il diabolico, tanto l’ordine quanto il caos, benché non in ambivalente compresenza in cielo o in terra, ma proprio con la dimensione spazio-temporale dell’oggi e del domani a separare nettamente i due ordini di realtà.
Non si dimentichi che il sostantivo simbolo viene dal greco sýmbolon, unione del prefisso σύμ–(sým-), insieme, e del verbo βάλλω (bállō), getto, volendo dunque significare mettere insieme quel che è diviso e contemporaneamente suggerire anche un significato ulteriore. Ciò ci permette subito di cogliere nella sua etimologia l’unità, quasi metafisica, tra significante e significato, idea e rappresentazione, che questo termine racchiude in sé: non sorprenda che il suo contrario sia διαβάλλω (diabállo), da cui il termine moderno “diavolo”, colui che divide per antonomasia.
In origine tuttavia, come ricorda Corinne Morel, il termine designava un oggetto, per la precisione una tessera, un frammento di ceramica, di osso o di metallo, che si divideva in due o più parti in occasione della stipula di contratti materiali, affettivi o spirituali. Le persone interessate – il debitore e il suo creditore, il maestro e il suo discepolo, i membri presenti a una stessa assemblea ecc. – ne conservavano ognuno un pezzo e così si ritrovavano vincolate. In seguito, avvicinando i pezzi del sýmbolon, i contraenti riconoscevano quali esclusivi i vincoli materiali, affettivi o spirituali che li univano[10].
Se la sua funzione primaria è pertanto di tenere insieme, il legame che esso istituisce connette strettamente il significante e il significato. Dinanzi all’onnipervasiva presenza del simbolo, che riposa sulla creazione di significati collettivi di cui anche il singolo attore sociale necessita per dare un senso profondo alla propria presenza nel mondo (nessun simbolo è tale se riposa esclusivamente su di un significato individuale), la cultura in quanto apparato strumentale atto a risolvere i problemi specifici che il singolo e la collettività incontrano nel proprio rapporto con l’ambiente e nella ricerca di soddisfare alcuni bisogni primari si incardina in prospettive più ampie di quelle designate dalla teoria parsonsiana e luhmanniana di fungere supinamente da elemento basilare di riduzione della complessità.
O, meglio, potrebbe assolvere a tale compito soltanto al prezzo di esasperare lo scivolamento verso dimensioni di autoreferenzialità da cui le forme del sapere moderno, dove la crisi dei fondamenti tradizionali di verità è surrogata dal ruolo centrale della scienza, appaiono spesso marchiate a fuoco. Non si tratta di banalizzare o esasperare la relativizzazione di qualsivoglia dimensione della comunicazione simbolica, e tanto più di quella mediata dal linguaggio (che rimane la primaria e fondamentale fonte di socializzazione), bensì di custodire intatte le potenzialità dell’essere umano. Questo, infatti, non essendo programmato, come l’animale, in base a determinismi istintuali, può rifiutarsi di conformarsi ai significati e alle regole proposte dalla società di appartenenza. In fondo, avere coscienza di sé vuol dire, al tempo stesso, «essere capaci di identificarsi con forme determinate di significato (ad es. definizioni sociali dell’identità) e di negare queste stesse forme»[11].
La plasticità del comportamento umano rende infinitamente maggiore la sua imprevedibilità rispetto a quello degli animali, anche per la mediazione consentita dal logos, che non è mai una cristallizzazione di regole e input dati per sempre, ma una potenzialità in continuo divenire. Ciò istituisce una dialettica mai del tutto portata a sintesi tra significato e azione sociale, perché se in via di principio dobbiamo riconoscere che l’azione precede il significato, dal momento che quest’ultimo non può avere altra origine che l’agire medesimo, è d’altronde innegabile che la maggior parte delle azioni affondino in molteplici significati (il significato precede l’azione), perché ciascun individuo nasce e opera all’interno di un contesto sociale già formato e di una cultura sulla quale, almeno in uno stadio aurorale del proprio cammino di vita, difficilmente può influire in maniera rilevante.
A consentire l’osmosi tra le fasi di tale processo altrimenti cortocircuitante provvede appunto la dimensione simbolica, alla quale, nella storia, l’uomo ha ripetutamente attinto. Basterà menzionare in tale sede la magistrale lezione di Hans Blumenberg, che ha ricordato che sia il mito che il logos siano due mezzi diversi ma nient’affatto antitetici per rispondere all’esigenza di organizzazione simbolica della realtà, la quale, a propria volta, ha senza dubbio lo scopo di acquietare l’indeterminatezza numinosa per fare spazio alla determinatezza nominale, per rendere l’inquietante familiare ed accessibile, ma anche di conservare la stabilità del mondo senza ingessarla in una riproduzione che, inevitabilmente, non può essere per sempre identica a se stessa[12]. Ciò, infatti, stride con la caducità della memoria e della sua trasmissione, che se su un fronte sfida una collettività a farsi carico del proprio passato per storicizzarlo, registrandolo e tramandandolo (rendendolo continuo), sull’altro apre le porte all’esigenza di trovare la giusta misura tra cemento sociale mediante la memoria (con le correlate tentazioni di esercitare forme diegemonia mnemonica verso altre comunità) e necessità di dare al presente una connotazione mobile, cangiante, che indichi una cesura con il già accaduto. Pressante, soprattutto da parte di studiosi di origine ebraica (per la legittima spinta esercitata in questa direzione dal compito di commemorare la Shoah) è stato, anche in anni recenti, l’intento di marcare la separazione già menzionata tra memoria e storia, proprio muovendo dalla consapevolezza della fallacia della prima.
Avishai Margalit, per esempio, ha inteso valorizzare tale contrapposizione paragonandola a quella tra senso comune e scienza, intendendo cioè la storia come «una memoria collettiva sistematica e critica», che rifugge dall’accostamento al senso comune, costruito per intersezioni persino casuali e senza bussole[13]. Sviluppando la nota argomentazione weberiana, egli ha inteso il processo di razionalizzazione che ha innervato di sé la Modernità quale capacità di abbandonare la visione del mondo come luogo incantato (mito), per fare spazio al disincanto dello stesso, nel quale domina la storia critica, nella cui ontologia possono residuare elementi mitici o epopee eroiche, facendo tuttavia riferimento a differenti spiegazioni e a differenti nozioni di causa ed effetto. L’opposizione tra questi mondi riflette dunque il ribaltamento gestaltico avvenuto in epoca moderna, benché, come lo stesso autore riconosca con malcelato fastidio, l’ontologia del mito e l’ontologia della storia portino in dote visioni del mondo che coesistono ancora fianco a fianco[14].
L’aporia consiste nelle contraddizioni drammatiche da cui la tarda Modernità è stata segnata e che aveva portato, a seconda guerra mondiale ancora in corso, Horkheimer e Adorno, nella celebre operaDialettica dell’illuminismo, a scorgere una degenerazione inarrestabile, una vera e propria deriva della “razionalizzazione” descritta da Weber. A vedere la ragione schiacciata in dispositivo di riduzione della vita a impersonale ciclo di produzione e consumo merci, essendo il proprio imperium diventato talmente avvolgente, ben al di là delle originarie intenzioni, da occultare la fondazione della sua stessa origine di senso, degenerando in una particolare versione di razionalizzazione che il sociologo tedesco, sulle orme di Sombart, aveva pronosticato potesse condizionare gli “ideali di vita” della società borghese secondo una coazione all’approvvigionamento dei beni che, nella società di massa già scandagliata dai rappresentanti della scuola di Francoforte, sarebbe sboccata in forme patologiche di consumismo il cui apparato di pensiero logico-formale, matematico, avrebbe consacrato narcisisticamente il mondo a misura di sé medesimo[15].
L’agire dialogico habermasiano
Altamente probante delle drammatiche contraddizioni sollevate da una ragione che si illuda di poter fare i conti senza la dimensione simbolica della realtà, anche nella misura in cui essa stabilisca un inossidabile connubio con frattaglie mitiche, è il complesso quanto disperato tentativo compiuto da Habermas di affrancarsi dalle premesse dei maestri per planare, al fine di salvare l’eredità del razionalismo dei Lumi, su di un terreno comunicativo dove il desiderio di rischiaramento e di dominio su ogni fenomeno della vita è sottoposto al confronto con altri individui assunti come egualmente razionali, e mediato da una prassi dell’agire orientata all’intesa.
Così come in Hobbes – autentico apripista del pensiero moderno – tutto quel che riguarda la natura dell’uomo non soggiace all’urgenza di ovattare passioni altrimenti ferine, bensì risponde a un profondo desiderio della ragione, giacché si permane nello stato di natura finché l’appetito privato del singolo individuo costituisce il metro attraverso cui sceverare il bene dal male e non si integra la società per via normativa, non già mediante una brutale imposizione esterna, ma come stadio finale di un cammino di fondazione sociale da ricercarsi per via pattizia, anche nell’ultimo Habermas il nomos torna a confrontarsi arditamente con una ragione solo in parte detrascendentalizzata.
La funzione euristica dell’idea cosmologica kantiana dell’unità del mondo, che presiede all’assunzione del soggetto come origine di tutti gli oggetti del pensiero, sconta il declassamento a principio metodologico incapace di abbeverarsi alla fonte della completezza. Resiste la capacità regolativa dell’intento kantiano e con essa il soggetto è chiamato a confrontarsi creativamente per riformulare un nuovo senso alla propria libertà[16]. Nonostante la smania di oltrepassare i confini dell’ignoto, di sfidare gli dei per sete di conoscenza, di liberazione dalla paura, che conduce l’Odisseo omerico a infrangere ogni mistero della vita, i territori del magico-religioso non possono essere svenduti, perché la fidelizzazione al nichilismo sotto le mentite spoglie di un’orizzontalità tesa a valorizzare l’Io sovrano rende l’esistenza monocorde.
L’irruzione del bios nel discorso tecno-scientifico facilita senz’altro la comprensione dei motivi della predilezione di Habermas nei confronti dell’individualismo a scapito del comunitarismo. Non che l’intellettuale tedesco non cerchi una mediazione, giacché riconosce che i valori culturali abbiano diritto a un riconoscimento politico in quanto costituitivi di insopprimibili identità collettive. Egli però nega decisamente l’esistenza di diritti collettivi, in quanto la valorizzazione delle diversità socioculturali va sempre riferita a una prassi fondata su criteri costituzionali universalistici e transculturali[17] (con un graduale slittamento da proposte di patriottismo costituzionale “nazionale” ad analoghe formule cosmopolitiche).
L’evidente riferimento kantiano rende la propria analisi uno sforzo che muove dalla dimensione morale. L’etica del discorso habermasiana è squisitamente deontologica, perché rinuncia a prescrivere una soluzione filosoficamente corretta ai problemi pratici. È altresì cognitivista perché attribuisce agli enunciati morali uno status equivalente alle asserzioni e, infine, formale, poiché ha per oggetto la giustificazione di un principio morale.
La tendenza alla privatizzazione dell’agire individuale, anche qualora non voglia essere oggetto di valutazione, appare chiaramente di supporto a un dilagare della laicità che nondimeno sembra sollevare altrettanti problemi di quanti ne risolva, a partire dalla sfera culturale. Se infatti Habermas cerca di tracciare una genealogia della laicità che distingua tra una secolarizzazione politica (che concerne la laicità delle istituzioni) e una secolarizzazione sociale (riferibile innanzitutto alle comunità religiose), è purtuttavia vero che l’individuazione del filtro in grado di far passare nella sfera istituzionale esclusivamente i contributi laici appare operazione oltremodo critica delegandone il compito in toto al diritto senza interrogarsi sui fondamenti dello stesso ma fidando in via sostanzialmente esclusiva sulla performatività di un modello di agire comunicativo che, pur funzionalizzato da metodologie dialogiche, muove, a tacer d’altro, da premesse polisemiche. La morale dell’intenzione kantiano-habermasiana, secondo cui l’uomo deve essere trattato sempre come un fine e mai come un mezzo, nel tentativo di prescindere da qualsiasi riferimento teologico, adoperando strumenti esclusivamente razionali, per presentarsi compiutamente laica ma non agnostica né atea, delinea i contorni di una filosofia della storia depotenziata nel consentire l’emersione e lo sviluppo delle dinamiche di integrazione sociale dall’aver ritenuto di poter sostituire quasi per intero l’apparato simbolico istituito o istituendo con quello tecno-giuridico.
Tecnica e logica procedurale
Il mutamento di rotta è drastico. La mentalità sottosistemica che trasloca dalla formulazione dello schema AGIL parsonsiano, cucito sulle dimensioni dello stato nazionale, alla globalizzazione pervasa dagli iperspecialismi non è finalistica, come quella cristiana o quella schiettamente illuministica di Kant, bensì procedurale. Sotto la coltre della tecnica, assurta al ruolo di mito collettivo più potente della contemporaneità[18], l’umanismo heideggeriano tramonta, perché l’essere umano diventa il funzionario di ciò a cui si riduce la propria essenza stessa. La sua libertà come risultato dell’indeterminazione biologica viene soppiantata dalla tecnica, che cessa di essere il prodotto maturo dell’evoluzione, per diventare condizione imprescindibile dell’esistenza, qualcosa senza cui l’uomo non potrebbe trasformare quotidianamente la memoria in storia. Il problema è che né la morale cristiana dell’intenzione, né la morale della responsabilità weberiano-jonasiana (Verantwortungsethik), che sposta il fuoco della propria attenzione dalle intenzioni agli effetti delle azioni, appaiono più sufficienti. Non lo sono più, come in verità aveva intuito parzialmente lo stesso Weber, perché caratteristica della tecnica è produrre effetti prevedibili qualora analizzati secondo i protocolli delle scienze positivistiche e dei loro saperi oggettivanti, ma invero imprevedibili per l’uomo, in cui residua una spinta allo smarcamento dalla narrazione della neutralità dello sviluppo della tecnica, ma con vigore sempre più fiacco, che lascia campo libero al lavorio della richiamata logica procedurale in funzione del massimo auto-potenziamento della tecno-scienza. Ciò favorisce una perversa saldatura che sostituisce, esplicitamente o di soppiatto, quel che possa essere antropologicamente vantaggioso con quel che risulta economicamente vantaggioso, agevolata dalla calcolabilità dei ritorni economici di un progetto o di un’azione, rispetto alle ricadute benefiche per un soggetto, una società. La tecnica si afferma dunque come l’ambiente all’interno del quale anche l’uomo subisce una modificazione antropologica.
Con rara lucidità, Pietro Barcellona nei suoi ultimi anni di vita ha intravisto la possibilità di incunearsi in queste strette fessure di liberazione non solamente attraverso le più collaudate forme politiche e cooperative di resistenza al dominio del capitalismo su scala globale, con i valori e i mutamenti da esso indotti direttamente o a cascata, ma puntando allo smarcamento dell’uomo dalletteralismo di cui spesso rimane vittima. Il letteralismo, infatti, su cui torneremo anche più avanti, non solo è la premessa dei peggiori fondamentalismi, ma riflette oggi una condizione in cui la parola «da “simbolo” della relazione emotiva fra la parola e la “cosa” si è via via trasformata in uno strumento di “costruzione” e di “ordinamento” del “reale”, fino ad assorbirne l’energia nella potenza normativa dei concetti. La trama dei concetti ha chiuso bella “gabbia d’acciaio” il mondo dell’accadere, dell’esperire e del sentire. Il dire si è trasformato da creazione/scoperta di “figure” e “forme” in un pre-dire che appartiene alla sfera del fare e del creare»[19].
La cristallizzazione della parola e la crisi della simbolizzazione incardinata all’interno della dissoluzione dei luoghi fisici di cui la tecnologia si fa portabandiera segnala l’urgenza di riportare al centro del discorso non il simbolo in quanto tale, magari cedendo alle lusinghe di tentazioni neo luddiste e grossolanamente nostalgiche, ma la sua preziosa funzione di ausilio all’attività mentale di astrazione dalla fisicità immediata e dalla pura percezione che è alla base di tutte le attività di pensiero.
Riappropriarsi dell’autenticità originaria della parola non vuole semplicemente indicare l’ennesimo tentativo di marcare una distinzione tra uomo e animale, ma equivale a creare le condizioni per decolonizzare l’immaginario collettivo da lessici che, nello sbriciolamento delle barriere spaziali, veicolano pratiche manipolative dei significati condivisi da intere comunità, fisiche o virtuali (pensiamo al world wide web), a livelli mai raggiunti prima d’ora. Le parole, d’altronde, come proprio la cultura simbolica si è incaricata per secoli di evidenziare, appartengono sia al piano descrittivo che a quello costruttivo del mondo. Nonostante patisca la minaccia di processi omologanti e massificanti, quest’ultimo resta un pluriverso lessicale creato dagli esseri umani e che quindi essi soltanto possono abitare.
Poeti e poesia
La trasformazione sociale viene da Barcellona strettamente connessa all’evoluzione del linguaggio, affidata in primo luogo ai poeti, i veri agenti delle rivoluzioni che segnano il passaggio da un’epoca a un’altra e quindi chiamati, in questa lunga transizione, a uno sforzo quasi missionario. La poesia «non è soltanto una forma che dà voce a emozioni e sentimenti, ma una vera e propria ristrutturazione del linguaggio attraverso cui gli esseri umani provano a rappresentare il mondo. Il poeta inaugura sempre un nuovo uso delle parole, o addirittura crea vocaboli che innovano radicalmente l’ordine del discorso»[20].
Laddove anche le più lungimiranti e approfondite ricostruzioni sulla distruzione dell’ordine simbolico previgente e l’edificazione di un capitalismo tecno-nichilista in grado di solleticare l’egoismo del singolo attore sociale nella liquidità efficacemente metaforizzata da Bauman si bloccano al cospetto alla capacità del neo-capitalismo liberista di potenziarsi proprio attraverso i due elementi che, sotto il profilo teorico, dovrebbero scalfirlo, ossia l’accelerazione e le crisi cui è sottoposto[21], Barcellona rintraccia il nucleo di una possibile svolta nella parola poetica. Essa, infatti, anticipa i cambiamenti nelle prassi, o quantomeno accompagna in modo enigmatico i mutamenti nelle vicende umane. Non rappresenta un mondo già esistente e compiuto, ma ne configura uno nuovo. Riesce nel proprio intentoperché fa leva sull’inappagato desiderio dell’uomo di comunicare con i propri simili, e, sotto tale angolo visuale, può essere descritta come il manifestarsi di una potenza costruttiva e costitutiva del modo in cui gli esseri umani agiscono concretamente, oltreché di un criterio di organizzazione sociale. Il presupposto dell’efficacia e della praticabilità di questa strategia dell’anima, a differenza che nello sviluppo che potrebbe avere l’utilizzo della parola in un pensatore pur progressista come Habermas, risiede più che in un elemento ingenuamente volontaristico o, peggio, nell’istituzione di un’equivalenza inattaccabile tra poeta e cantore di ideali di giustizia, uguaglianza ecc., nella meccanica della trasformazione in versi della parola, che ne fa smottare il terreno semantico consolidato, producendo sempre e comunque un cambiamento. Questo, anche in un’ipotesi minimalista, destrutturerà la convinzione che il mondo sia retto da leggi oggettive, che fungono da “tappo” ad alternative all’attuale funzionamento dell’economia o alla segmentazione delle società[22].
La parola poetica non intende addomesticare il mal di vivere o, a livello macrosistemico, smarcare i suoi megafoni dalle versioni preconfezionate della sintassi ufficiale, ma batte un proprio sentiero alternativo a quello lungo il quale si incontrano pratiche di conciliazione interiore succube del tecno-capitalismo perché pienamente integrate nei meccanismi dell’industria culturale. Quest’estraniazione riflette allora una reazione all’appagamento di ogni desiderio nel paradiso della coincidenza degli opposti e della presunta sedazione di ogni ansia. Vi è l’intenzione di eccedere, con un esperimento mentale mediato dalla scrittura e dal linguaggio, un orizzonte di senso che si satura rapidamente, che chiude le porte in faccia a un “troppo” dell’immagine del mondo veicolata dai mezzi di comunicazione, che certifica la resa all’universalismo totalizzante.
Il lessico mentale non si muove più in sintonia con il lessico del mondo: questa è una delle residue possibilità di resistenza alla costruzione di modelli ermeneutici della realtà schiacciati sull’accondiscendenza ossequiosa a una presentificazione assoluta che non soltanto cancella ogni labile legame con la memoria e la sua rielaborazione, ma occupa con brutale violenza anche l’orizzonte, per tratteggiare il futuro a propria immagine.
Il paradigma del post-umano utilizzato da Barcellona quale cartina di tornasole della tragedia nichilistica dell’Occidente trova proprio nella non rinviabile urgenza di impedire che si giunga all’estinzione della parola, con la sua riduzione a segno, secondo quanto codificato dalla scienza e dalla tecnica, la diga ultima da erigere prima che si consumi il prosciugamento della percezione del tempo che ci fonda come Uomini.
Alle spalle della diga, infatti, si annida il morbo del letteralismo, che riduce le parole alla loro lettera, rendendole incapaci di veicolare l’enigma che interroga, che trattiene nello spazio ermeneutico, che coinvolge nella dimensione semantica. E diviene quasi inevitabile lo scivolamento nel fondamentalismo. Se infatti la lettera esaurisce il significato della parola, riducendola a segno, la verità rimane interamente dentro la lettera. Non può che essere in essa. Ragion per cui, chi possiede la lettera possiede la verità, aggirando ogni spiegazione in merito alle soggettività che l’abbiano stabilita. La grande presunzione degli uomini è il possesso esclusivo della Verità. Ma la verità, che sta solamente nello spirito e non nella lettera della parola, non può in alcun modo essere posseduta. Tutt’al più è la verità che ci possiede, debellando le nostre resistenze, il salutare e continuo interrogarsi. Il letteralismo è dunque fondamentalista perché pensa che sia stata pronunciata l’ultima parola, mentre persino nella profezia l’ultima parola non è mai detta[23].
Capitalismo tecno-nichilista
Rispetto al capitalismo societario affermatosi nei paesi occidentali nell’immediato secondo dopoguerra, la sua variante tecno-nichilista, oggi ancora dominante, ha il merito, secondo Magatti, di aver introdotto il tema dell’apertura all’evento, rivelatosi antidoto alla deriva autoreferenziale e all’ossessione del controllo in cui erano rimaste impigliate la personalità e la socialità durante i “trenta gloriosi”. Questo capitalismo ha successivamente potenziato la manifestazione dell’evento e del desiderio, che corrispondono alla sua logica e gli sono funzionali. «Oggi noi sappiamo più chiaramente che il desiderio è desiderio dell’altro. L’essere umano è mancante e cerca fuori di sé ciò che non può trovare al proprio interno. Riconoscere l’evento come evento dell’altro, nella logica del desiderio, significa rinunciare alla volontà di controllo. Per quanto ci sforziamo, la realtà (per fortuna) non può mai essere dominata fino in fondo. C’è sempre un resto che sfugge»[24].
Il punctum dolens è che il controllo operato con macchinosità spesso irritante dal capitalismo societario è stato sostituito da una spasmodica ricerca del dominio che ammette come unica realtà quella creata direttamente dall’uomo attraverso la sua potenza tecnica. Un mondo popolato di individui che cercano di espandere la propria volontà di potenza genera però un diffuso senso di angoscia, perché ciascuno si sente esposto all’azione contaminante dell’altro. Appropriatamente, il sociologo italiano ha rilevato che, invece di affrontare tale angoscia, di elaborarla e di risolverla, il capitalismo tecno-nichilista si ostina a offrire due risposte, entrambe insufficienti. La prima è il passaggio dal controllo valoriale a quello procedurale. La seconda è quella della dimenticanza, dove si estingue il bisogno di controllare perché niente dura e ha valore. Nel reagire alle fissità e ai limiti burocratico-organizzativi del capitalismo societario, il nuovo è passato dall’Uno all’uno, cioè da un immaginario di unità e coerenza a quello in cui si afferma indiscriminatamente la differenza come singolarità[25], salvo poi rilevare agli sguardi non ammaliati dalle sue promesse che la libertà conseguita è fittizia.
Le istituzioni del capitalismo societario assommavano e facevano coincidere i compiti di funzionamento e di organizzazione della vita sociale (integrazione sistemica) con quelli di determinazione dei significati (integrazione sociale). In siffatto modo, i ruoli all’interno delle istituzioni tendevano a rendere perfettamente fungibili potestas, come capacità di decidere, e auctoritas, come potere simbolico. Ciò dava vita a un potere che, seppur vincolato alla ricerca del consenso democratico, non si limitava a soddisfare i bisogni individuali, ma puntava a radicare significati collettivamente condivisi. Metteva cioè insieme legein (il legame; parola che, si noti, ha la stessa radice di logos) e teukein (la tecnica, la costruzione, ossia la capacità dell’essere umano di controllare e determinare l’ambiente circostante)[26].
Come sottolineato anche da Recalcati, con la svolta storica del neoliberismo (architrave del capitalismo tecno-nichilista), quello attuale è venuto configurandosi come il tempo dellamaniacalizzazione dell’esistenza, ossia della sua agitazione perpetua, della sua intossicazione per eccesso di stimolazioni, rendendo impraticabile il concetto stesso di esperienza, dissolvendola nella tendenza compulsiva alla “scarica”, all’“agire”, al passaggio all’atto privo di pensiero e totalmente desimbolizzato[27]. Esso risulta in sostanza drammaticamente antagonista dell’esperienza del soggetto dell’inconscio freudiano, perché questa è esperienza dell’incommensurabile, del desiderio come differenza, mentre ciò che oggi domina il grande Altro del campo sociale è l’impero del numero, della cifra quantitativa. Trionfa l’iperpositivismo dell’oggettività, che derubrica l’inconscio a residuo di un arcaismo superstizioso e irrazionale.
Gli ultimi quarant’anni hanno insegnato che, se vuole accompagnare la vita senza pretendere di inscatolarla, il senso non può essere fermato, come aveva invece preteso di fare il capitalismo post-bellico, rassicurante nelle sue certezze ma anche castrante. Questo non significa che il senso sia, per definizione o ex adverso per quanto scritto poc’anzi, in ogni momento e in ogni direzione reversibile. Il problema, semmai, è come suggerire alla vita un senso nel quale scolpire significati mediante cui si scorgano le tracce di un legein che disancori il soggetto da ogni chiusura autistica.
Il capitalismo, lungi dal possedere la natura etica che aveva teorizzato Weber, esalta la spinta al godimento (solitario) come nuova forma di comando sociale, refrattaria a ogni tipologia di legame[28].
Un simile immaginario della libertà, che trasforma il cittadino in consumatore, resiste anche agli scossoni della perdurante crisi economica ed anzi si rafforza sotto alcuni aspetti, portando a esaurimento il ripensamento del pathos che aveva attraversato diacronicamente il Novecento. In fondo, eleva il principio di prestazione a imperativo iperedonistico dietro cui si nasconde, subentrando al conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, una domanda complessiva di omologazione agli stili di godimento prevalenti.
Scardinare l’egemonia del turbocapitalismo
Il pensiero meditante contrapposto da Heidegger (e Jaspers) al pensiero calcolante consente, secondo Magatti, di scardinare l’egemonia del turbocapitalismo che affligge l’homo consumens. Oramai giunto all’identificazione con il sistema tecnologico quale ultimo stadio dell‘alienazione (o, heideggerianamente, diventato predicato della Tecnica, assurta a Soggetto), l’uomo reificato, al pari della sua storia, vaga alla ricerca di un disvelamento dei simboli presenti nella società, ancorché tergiversando tra l’analogia veicolata dal simbolo, apertura ma anche incertezza, e l’univocità dei concetti elaborati nelle fabbriche del linguaggio funzionalizzato e anonimo, che non comunica perché scavalca ogni riferimento all’Altro, facendo a meno dell’amore e surrogandolo con un narcisismo dietro il quale rimane un soggetto diviso, sganciato dal significante, ridotto perversamente al proprio corpo quale puro e principale strumento di godimento[29].
L’alternativa non può rintracciarsi nell’elaborazione di un modello economico le cui fondamenta poggino su premesse, in primis lessicali, ricalcate su quelle oggi dominanti. Né probabilmente è sufficiente approfondire la riflessione su azioni di cura, di solidarietà, cercando di traghettarle all’interno del sottosistema istituzionale.
Il cambio di paradigma necessario transita per la riappropriazione della possibilità di ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico e quindi silente per l’inadeguatezza dei linguaggi a disposizione. È affidarsi alla poesia, che non si limita a enunciare ma evoca. In Magatti, come del resto in Galimberti o in Barcellona, la parola poetica (anche quando si accompagni al non volere) si profila come la più concreta possibilità alternativa al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso. È la premessa a un discorso che non rinuncia a impiegare quello straordinario strumento che è la nostra ragione, riconoscendo, al tempo stesso, che la vita non è soltanto riducibile a essa, di conseguenza ammonendoci a non ricadere in tentazioni idolatriche. Nelle giuste dosi è il pharmakon per arrestare la deriva del logos in tecno-logos, il decadimento della ragione (del pensiero che pensa) da regola aurea dell’azione a ossessione verso il procedimento più economico per ottenere sempre e comunque, a partire dai mezzi disponibili, i risultati previsti.
Umberto Galimberti ha indicato una via di lettura che, invece di percorrere pagine per accumulare senso, tende all’implosione del senso, affinché, nel vuoto così creatosi, l’anima si faccia poetica, come ben sapevano i Greci quando usavano il verbo poiein (fare, produrre, creare). In questo modo persino il testo già scritto, già dato, perde la sua perentorietà e si fa pre-testo per un’immaginazione creativa. L’attenzione da rivolgere allo spazio dell’interrogazione richiama un procedimento che istituisce un nuovo rapporto tra essoterico ed esoterico, tra parola detta e parola custodita, tra conscio e inconscio, con quest’ultimo non ridotto a luogo del rimosso, ma elevato a luogo del ritorno. Tale operazione traccerebbe un itinerario simbolico in cui il linguaggio non espone all’apertura, ma apre l’apertura[30].
Nell’autolegittimazione del divenire, la pre-potenza dell’uomo potente arriva fino a pensare di poter “costruire la realtà”, al di là di qualsiasi vincolo di senso, nel campo infinitamente aperto delle possibilità.
L’artista della parola, allora, quale può essere considerato il poeta, ha il compito di iniziare a scalfire i caratteri di quest’epoca di realizzazione dell’autarchia e del dominio del logos (messo al servizio della moneta) sulla vita, sulla natura, sull’uomo, valorizzando l’esperienza della differenza come base della mobilitazione profondamente erotica del pensiero.
A lui tocca gettare un ponte tra lo statuto logico-giuridico che contraddistingue il soggetto moderno e quello empirico-sociale, separati da uno iato che configura il feroce paradosso per cui l’individuo nella sua realtà materiale è il centro di riferimento della trama del rapporto sociale e tuttavia, per realizzare questo obiettivo, vede la sua reale esistenza negata e sublimata nella forma generale del diritto, la cui pretesa di completezza, quando si fonda esclusivamente sulla ragione calcolante, confligge a sua volta con le basi epistemologiche del neoliberalismo socio-economico, in cui significativi ordini teolologici emergono da avvenimenti contingenti e insignificanti, modellando i frammenti di un mondo continuamente re-istituito. In un vortice nel quale la libertà di scopo, manifesto ideologico par excellencedel capitalismo tecno-nichilista si rivela un’illusione. Che tocca alla parola mettere a nudo, ricostruendo un linguaggio simbolico che combatta la desertificazione edonistica nel cui ordine di realtà si sono dissolti i legami collettivi.
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Note
[1] Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.
[2] Serge Latouche, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 10.
[3] Ibidem, pp. 73-74.
[4] Ibidem.
[5] Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, L’artista e il potere. Episodi di una relazione equivoca, Bologna, il Mulino, 2014.
[6] Cornelius Castoriadis, Gli incroci del labirinto, Firenze, Hopefulmonster, 1988.
[7] Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, pp. 119-120.
[8] Gustavo Zagrebelsky, Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Torino, Einaudi, 2012, p. 7.
[9] Da ekklesiastès, “colui che parla nell’assemblea”. Tutte le citazioni dei passi biblici sono tratte da AA.VV., La Sacra Bibbia, CEI-UELCI, 2008.
[10] Corinne Morel, Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze, Firenze, Giunti, 2006, p. 17.
[11] Franco Crespi, Manuale di sociologia della cultura, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 15.
[12] Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, Bologna, il Mulino, 1991, p. 50.
[13] Avishai Margalit, L’etica della memoria, Bologna, il Mulino, 2006, p. 58.
[14] Ibidem, p. 59.
[15] Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 34.
[16] Jürgen Habermas, Agire comunicativo e ragione detrascendentalizzata, in Id., La condizione intersoggettiva, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 29.
[17] Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 55.
[18] Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 207.
[19] Pietro Barcellona, La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Dedalo, 2007, p. 9.
[20] Pietro Barcellona, Parolepotere. Il nuovo linguaggio del conflitto sociale, Roma, Castelvecchi, 2013, p. 27.
[21] Mauro Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 354.
[22] Pietro Barcellona, Parolepotere, op. cit., p. 49.
[23] Pietro Barcellona, Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice all’edonismo cognitivo, Bari, Dedalo, 2005, pp. 141-142.
[24] Mauro Magatti, op. cit., pp. 390-391.
[25] Ibidem, p. 391.
[26] Ibidem, p. 50.
[27] Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica, Milano, Raffello Cortina, 2010, p.7.
[28] Ibidem, p. 28.
[29] Ibidem, p. 34; Mauro Magatti, op. cit., p. 393.
[30] Umberto Galimberti, Paesaggi dell’anima, Milano, Mondadori, 1996, pp. 25-27