Coordonat de Sabin DRĂGULIN
Volum VI, Nr. 2 (20), Serie noua, martie – mai 2018
Aśvamedha e Costituzione:
il sacrificio rituale nel sultanismo politico contemporaneo
(Aśvamedha and Constitution:
the ritual sacrifice in the contemporary Sultan politics)
Gianfranco LONGO
Abstract: The King’s body and the Constitution are different and same moments where the Asvamedha finds its power’s rules. This condition is described by Girard’s theory of violence too: we understand that the Constitution breck is a ritual sacrifice and in this sacrifice the contemporary politics becomes a new power without constitutional limits, without people and without State. The matter of Asvamedha is legal order yet and again the salvation of State in a world where politics is often only war and sacrifice of human genre.
Keywords: Aśvamedha, sacrifice, violence, Constitution, european politics, sultan, God, power, Lord, democracy, law, horse, Erdogan, State, King, body, rule.
La violenza istantanea, confortata
dal sinistro potere di forza importata,
s’insidia simultanea, stratificata in voi,
di età obsolete, benché non compiute,
proseguendo allo scranno di deportata
umanità che vaneggia sovrana, e già rasoi
s’affilano in quel liquame, regno staffilano,
sberciando urli lancinanti: piaghe s’infilzano
su popoli, frenetici di democrazie ipnotiche,
spasso in dimensioni politiche cianotiche,
indugiando al pianto tra follia di spettri,
digrignando Macbeth risa tra denti stretti,
ordine per la sventagliata di lame necrotiche,
che divorano sovranità e rei rinsaldano scettri,
da carcame, al cospetto di guerre convergendo,
accanendo spasimi, a pozze di sangue attingendo (Longo, 2017).
Si è voluto introdurre questo contributo sull’antropologo francese René Girard, scomparso il 4 novembre 2015, rendendo concetti ed argomentazioni come fossimo all’interno della sua stessa tematica, nella sua svolta teoretico-filosofica e antropologica. Di qui l’introduzione del contributo mediante dei versi che, in apertura e successivamente, delineano ambiti della semantica girardiana: introdurre e concludere questo saggio con dei versi vuol essere un apporto particolare all’antropologo, oltre che supporto per una ripresa diretta del suo messaggio. Profilare inoltre brevi considerazioni su un sacrifico vedico, dettagliatamente decritto in un noto capitolo del Śatapatha Brāhmaṇa (XIII) e rapportarlo all’attualità, metaforicamente intesa, nella quale s’inabissa l’incoerenza politica e giuridica europea, s’incentra nella stessa metodologia di ricerca girardiana, enucleandola per renderle omaggio.
Lo Yarjuveda dal capitolo XXII sino al XXV descrive cosa simbolizzi e come si realizzi il sacrificio del cavallo, cioè l’Aśvamedha: il cavallo è il regno ed il re che ha lasciato andare il suo animale più caro (“Un cavallo, un cavallo! Il mio regno per un cavallo!”, Riccardo III, 5, scena IV) ne attende il ritorno, quasi che quel suo cavallo incarni regalità e sovranità insieme, posizione di sfida su territori, competizione attiva con sfidanti concreti della regalità e posta in palio per lo stesso destino della sovranità (Fa dire Shakespeare al suo Macbeth: “Il mio pensiero, dove l’assassinio è solo immaginato, scuote a tal punto la mia struttura d’uomo, che la mia mente annaspa in congetture, e niente è, se non quello che non è”, Macbeth, Atto I, scena 2).1
Il sacrificio dell’animale regale rivela la vulnerabilità in agguato, la perpetua minaccia d’essere disarcionati dal trono e perciò la latenza del pericolo s’immunizza nella rappresentazione del rischio sublimato in un rituale che vivifichi, da un lato, l’eventualità della caduta, e, dall’altro lato, sacralizzi la stessa sovranità in un avvertimento su quanto potrà essere e che proprio nella sua condizione di evento possibile esorcizza la precarietà della condizione sovrana e la perdita del dominio, quello smacco che viene vissuto in un lutto rituale trasferito sul simbolo della sovranità regale, il cavallo, e su quello della sovranità politica, cioè la Costituzione dello Stato.
È la Costituzione dello Stato infatti che è messa in gioco, assaltata nei suoi fondamenti tanto d’aver inteso grazie a Kelsen, la necessità di una sovranità iperordinata e predisposta ad un controllo dei poteri costituiti e della loro divisione legittimata, appunto la giurisdizione costituzionale, quel controllo di costituzionalità, vera novità giuridico-costituzionale del XX secolo, indispensabile alla verifica delle leggi rispetto al loro essere costituzionalmente legittime, oltre che essere intrinsecamente legali.
Il legame re-popolo ricompare, pertanto, nel mimetico rapporto Costituzione-popolo, dove il popolo aspira alla sovranità regale codificatasi nella sovranità costituzionale che rassicura, che affida, che certifica la sovranità popolare. In realtà accade che quel desiderio mimetico, fondamento della teoria girardiana di interpretazione dell’evento storico e politico, in questo caso costituitosi sull’asse dicotomico sovranità regale-sovranità popolare, si svolga in una prova di forza che rovina la sovranità, la de-costituzionalizza, perché ce ne si possa appropriare per sfidarla, si direbbe, nell’ambito di una ritrovata semantica: quella della corona del Re, in quanto è la corona che rassicura, affida, certifica la sovranità regale.
Il passaggio semantico-storico, quindi, si individua proprio tra testa decapitata del Re, l’usurpatore di sovranità popolare, e ricostituzione di un mito sovrano, metafora del desiderio di ognuno di possedere la sovranità, cioè la Costituzione dello Stato, in cui quella sovranità regale trasmigra dal corpo-del-Re, simbolicamente inteso, alla sovranità popolare, per costituirsi infine come volontà popolare di decisione politica, imitante la scelta giuridica dei poteri costituiti di produrre materialmente le leggi, ispirarle, farle funzionare, applicarle al caso concreto (potere legislativo ed esecutivo), ed infine, verificarne violazioni o intrinseche illegittimità costituzionali (potere giudiziario).
Nel doppio legame vedico, pertanto, costruito attorno al sacrificio del cavallo, il Re mette a rischio se stesso espugnando il sacrificio e rendendolo iperordinato e metaforicamente immanente: il cavallo è il Re sfidante, ne detiene la corona, è la sua sovranità, decapitata per essere fatta salva proprio mediante il sacrificio. 2
Il sacro, d’altronde, non sarebbe se non assumesse sembianze spettrali la violenza che impone il sacrificio e espropria il mondo d’ogni male, scatenandolo sulla vittima: come accade a Re Lear, sacrificato alla demenza per riscattare la sovranità dal suo indebolimento e per fare salva la corona.
Ma la corona è la costituzione della sovranità popolare mediata da una Costituzione giuridica, fondamento di un rovesciamento mimetico e simbolico, sacrale e violento, sacrificale e metaforico: quello che attraversa la schmittiana Entscheidung über einen Ausnahmezustand, necessaria e continua perché la stessa sovranità non abdichi, stato d’eccezione utile e urgente nel sultanismo contemporaneo nostrano, europeo e non solo – basti pensare al Venezuela, Turchia, Russia, Ungheria, e Italia in particolar modo in questi ultimi tre anni – in maniera che la stessa sovranità popolare resti metaforicamente “abdicata”, immolata per una salvezza collettiva di regalità politica: tale sovranità è la Costituzione, fulcro del fondamento giuridico del potere politico cui ispirarsi, ma invidiata dal politico sultano nella sua legittimità e per questa ragione la Costituzione diviene un fondamento giuridico posto di continuo sotto il rischio di una sua ri-modellizzazione.
Il Notstand infatti è quello spettro, quella demenza di Re Lear, opportunamente minacciato e innescato per un recupero della sovranità mediante il sacrificio della sovranità popolare e dunque costituzionale, che è sempre un ingombro: “l’interesse dello Stato – diceva Luigi XIV – deve marciare per primo”;3 in questo modo, senza un controllo giuridico-costituzionalizzato del politico, si produrrebbe la diretta conseguenza per cui gli stessi diritti individuali e le libertà fondamentali non si coniugherebbero affatto al perseguimento dell’attuazione dei principi costituzionali attraverso la legislazione ordinaria, compito questo che deve essere assicurato primariamente dal politico; piuttosto si legittimerebbe una effettività monarchico-costituzionale, in cui: “Le roi constitutionnel n’était qu’un président héréditaire et le président de la république est un roi constitutionnel temporaire”,4 producendo tutto ciò il risultato di uno svigorimento dei principi democratici tutelati e garantiti dal costituzionalismo di matrice repubblicana.
Tale fulcro democratico è lo spettro, da un lato, e la prova della sua energia, dall’altro lato, del sultanismo contemporaneo, caratterizzato da uomini politici ricolmi di ogni possibile vigore fisico e sfacciatamente propugnatori ed esibizionisti di tali “qualità”.
Se, dunque, l’esercizio delle libertà fondamentali (die Grundfreiheiten) potrà essere razionalizzato e giuridicamente positivizzato, la Costituzione diverrà il luogo del passaggio e della legittimazione giuridica e politica di questa nuova identificazione e rappresentazione – nel senso più incisivo addirittura di Ausstellung – della sovranità, ma sarà anche oggetto di desiderio del sultano contemporaneo che ne invidia l’efficacia tattica e ne brama la legittimità strategica. Scomparsa la figura del monarca assoluto, la Costituzione riproduce il reggente incarnandolo in maniera nuova, realizzando il legame di un’unica sovranità, non sottomessa a leggi di natura, ma rimessa al diritto positivo ed alla possibilità di legiferare attraverso di esso, proprio nel controllo di costituzionalità delle leggi: la Costituzione ha determinato, in effetti, una sublimazione della violenza politica dal momento in cui ha razionalizzato i rapporti di potere fra forze politiche attraverso il comando del diritto.
Il passaggio storico e semantico che si ricava è rilevante: fino alla rivoluzione americana e a quella francese, il referente politico si incarnava nel corpo-del-Re quale espressione del principio universale di sovranità, cioè sino alla caduta del Re bisognava “regnare”; dopo questo regno si realizzò la possibilità del governo: la Costituzione venne ad essere emanata al fine di organizzare il governo dello Stato e della società. Ma non fu possibile sbarazzarsi d’un colpo della violenza generata dallo scontro e dal conflitto, essa rimase piuttosto incatenata alla codificazione di un testo costituzionale e controllata dal comando giuridico, sebbene proprio quest’ultimo abbia permesso il riconoscimento di un’effettività dei diritti soggettivi e delle libertà inalienabili della persona: il sultanismo poliico contemporaneo mina alla base l’ordine costituzionale, che ritiene superfluo e ingombrante. Di qui il desiderio di imitarlo modificandolo costantemente.5
Il rito dell’Aśvamedha, pertanto, ricalca allegoricamente il sacrificio costituzionale mediante l’esercizio estremo e infondato della modifica e del cambiamento costituzionali, che si sostanzia in un sacrificio della sovranità.
Esso cadde in disuso soltanto dopo il VII secolo d.C. ed ebbe comunque una lunga tradizione nell’India regale, comprendendo due momenti fondamentali: il primo, di preparazione, consisteva in una sfida militare. Dopo aver prescelto un cavallo, questo veniva lasciato libero nella direzione dei territori non ancora conquistati e poteva vagare per un anno, opportunamente scortato da cento principi, figli legittimi, da cento figli di condottieri e di araldi, tutti armati secondo il proprio rango. In tal modo il cavallo proponeva l’opportunità di competere con altri sovrani: nel caso in cui la scorta fosse stata attaccata e sconfitta, il sovrano sfidante non avrebbe più potuto compiere il sacrificio e sarebbe stato messo in evidente ridicolo; di qui l’usanza, raccomandata pure da alcuni testi sacri (Taittiriya-brahamana, III 8. 9,4), secondo cui un individuo gracile non dovesse compiere l’Aśvamedha. Ci si può ricollegare alla convinzione, che pervade una certa componente contemporanea di sultanismo politico, per il quale il sovrano debba essere innanzitutto potente e forte fisicamente e in ciò giovane e verbalmente aggressivo e petulante.
La scorta che garantiva il successo dell’impresa e coloro che naturalmente riuscivano a sopravvivere alla spedizione, sarebbero stati successivamente resi partecipi del potere regale che scaturiva dall’esecuzione di un Aśvamedha. La seconda parte del rito si svolgeva nel sacrificio: il cavallo infatti dopo essere stato legato ad un palo mentre quindici altri animali erano legati a parti del corpo dello stesso cavallo, veniva ucciso da un coltello d’oro, in quanto l’oro era il simbolo della regalità. Per gli altri animali invece si usava per alcuni un coltello di rame, che simboleggiava tutti coloro che avevano scortato il cavallo e al tempo stesso l’aristocrazia minore, per i restanti animali un coltello di ferro, simbolo del popolo.
Tale ritualizzazione della violenza sovrana sul popolo, simbolicamente identificato nel cavallo, riportato nel Rgveda (I,162 e I,163), come pure nello Śatapatha Brāhmaṇa (XIII), poteva essere celebrato solo ed esclusivamente da un re.
Il rito di morte che rigenera e dà forza al sovrano che lo compie, nella nostra trasmigrazione simbolica e metaforica ci riporta ad una semantica di celebrazione del sacrificio del sapere giuridico-democratico, cioè la Costituzione, che perisce decapitato dal sultanismo contemporaneo. Quella testa senza più vita permette la sopravvivenza del Potere, il Potere esercita i suoi rituali di morte poiché da essa si ispirano la vita politica e la costituzione di un comando, cui tutti obbediranno. Il nitrito del cavallo morente, martoriato dalla lama di un coltello affilato, d’oro e regale, rappresenta la continua verifica storica dell’urlo mai udito di una democrazia dilaniata nel suo corpo: questa violenza si espande su generazioni intere di inermi, le calpesta, affidandole ad un futuro improbabile, comunque scippate del loro presente.
Il cavallo deriva la sua credibilità simbolica da fattori differenti: nell’induismo il simbolo del cavallo si associa ad una potenza luminosa, benefica; la testa del cavallo “simboleggia la conoscenza” e la sua particolare sacralità contempla un rinvio mitico: i musicisti divini, denominati asvamukha, hanno il corpo di uomini e la testa di cavallo.
Questa conoscenza è sapere spirituale, un sapere che permette di distinguere tra il corpo di materia e l’anima spirituale. In tale descrizione il cavallo diviene simbolo di gnoseologia mitica: la potenza benefica che nella religione induista è il simbolo di divinità luminose, in particolare il sole, acquista un suo primo rilievo se immaginiamo la sua radice simbolica collegata a quella di un popolo pacifico, dedito all’accrescimento del proprio Sapere e dunque lontano dall’immaginare la vendetta e la guerra quali risoluzione dei destini politici. Ma questo popolo è disarmato, vulnerabile, possesso da parte di colui che lo utilizzerà appropriandosene: il sacrificio reale è esorcismo della caduta regale, il Re acquisisce potenza e struttura tali da condurlo ad essere potere politico, sultanismo contemporaneo che emerge nella rottura della Costituzione ipocritamente fatta passare per modifica costituzionale.
L’Aśvamedha venne a sincronizzarsi nella fertilità del potere, politico ed economico-sociale, e dunque nell’energia di colui che lo deteneva. Già nelle nostre “quotidiane” democrazie, specie in Europa e con particolare libido in Italia, l’uomo forte al comando rappresenta sicurezza e desiderio, libido appunto, di riorganizzare le sorti sfatte della società. Ne emerge un doppio desiderio, mimetico girardiano, di configurarsi nell’uomo al comando per esserne rassicurati e per ottenerne benessere economico e sociale, quasi che la forza dell’uomo al comando, del nevrotico di successo, come già ci avvertì Pasolini6, fertilizzi, eroticamente e politicamente,7 le stesse sorti individuali e poi collettive: l’elemento dell’eros e del thanatos si coniuga visibilmente nel sultano politico contemporaneo, dove la celebrazione del dono della vita e della ripresa capricciosa della stressa vita, pervadono la coscienza collettiva stregata da tale ipnosi dell’uomo solo, in grado di rischiare ben poco su se stesso: se infatti la cupidigia di possedere la Costituzione mutandone fini e fondamenti, non si risolve nel soddisfacimento erotico e cannibalico di fondarne un surrogato dell’origine, la pena prospettata è il ritorno all’esercizio cieco della forza bruta.
Ciò consente al sistema di azione politico contemporaneo, che sublimizza il sacrificio costituzionale mediante la “certezza” di un patto referendario, di ricattare la volontà popolare rilanciando, come a un tavolo verde, sempre nuovo benessere, millantando un credito sovrano che si modella sulla riforma costituzionale in grado di rassicurare dall’indeterminato e promettere la risoluzione di esigenze percepite effettive all’interno della società civile. Tale surcodificazione, così definita da Deleuze e Guattari, agisce nella circolazione politica quale flusso di denaro in cui il desiderio dispotico è dissimulato in patto costituzionale, e il sacrificio della sovranità popolare in prosperità sociale, civile, economica:
“il credito bancario opera una demonetizzazione o dematerializzazione della moneta, e poggia sulla circolazione delle tratte invece che su quella del denaro, attraversa un circuito particolare ove assume e perde il suo valore di strumento di scambio, e ove le condizioni del flusso implicano quelle del riflusso, conferendo al debito infinito la sua forma capitalistica; (…). Se è vero che è nella sua essenza capitale filiativo industriale, non funziona che attraverso la sua alleanza con il capitale commerciale e finanziario. In un certo qual modo, è la banca che tiene tutto il sistema, e l’investimento di desiderio”.8
In realtà lo svolgimento del doppio sentimento, conduttore di angoscia rimossa mediante un atteggiamento politico che rassicuri e certezza di un nuovo mondo cui si promette di pro-sperare, si traduce in veri e continui sultanati (sulṭa in arabo significa “forza”) che ritentano una riformulazione della Costituzione secondo fortuite ambizioni o prese di potere, edulcorate in mutamenti costituzionali che lasciano immaginare salda la sovranità popolare e che invece la surcodificano, mortificando il presente per ridurre il futuro a un rinvio perenne di aspettative, sublimato in paternalistiche consolazioni. Da vedersi perciò incarnato nella sovranità popolare tout court, il cittadino è bonificato in un evanescente riscatto da castighi e patimenti storici, lasciati risuonare ridondanti, che invero espugnano la sua presenza politica e la sua possibilità di decidere.9
Così si compie l’Aśvamedha costituzionale: si taglia la testa alla sovranità per impadronirsi dei destini collettivi, impersonandoli e utilizzandoli a propri scopi, al fine di narcotizzare aspirazioni e tutele di libertà civili, custodia dei diritti individuali, rinchiusi in inutili testi didattici.
In tale condizione si attua il fondamento del sultanismo contemporaneo, sorta di teismo politico, in cui la conduzione della collettività, in senso giuridico del popolo, verso la privazione del suo diritto costituzionale esclusivo di sovranità per la riduzione alla servitù di un tempo futuro cui si è giurata fedeltà, rinnegando la sovranità popolare, di risoluzione di ogni problematica, percepita come urgente, viene mimetizzata in cambio di una premessa: quella della sospensione del presente che individua nella Costituzione il fardello della vittima di cui liberarsi per de-codificare un tempo futuro, spergiurato dal politico pieno di ogni realizzazione, rimosso dall’angoscia delle incertezze e dalla delusione delle aspettative (die Entäuschung der Erwartungen).
Tuttavia, senza l’innesto del meccanismo di una latenza propulsiva di morte sociale che rende l’esercizio privilegiato della violenza mezzo per lo svolgimento totalitario del potere, non si concretano le ambizioni sultaniste: de-sacralizzando la vittima – come in Turchia con il referendum costituzionale del 16 aprile 2017, come in Venezuela con una riforma costituzionale paradossale, essendo rottura dell’ordine costituzionale giuridico e democratico – cioè privando di minaccia sospensiva il potere esecutivo e rovesciando invece sulla sovranità popolare il circuito della violenza, codificata nell’effettiva sospensione dei diritti individuali e delle libertà fondamentali, la stessa Costituzione è vittima sacrificale, decollata della sua sovranità:10 il fondamento della sovranità popolare, quale requisito di esistenza della norma costituzionale stessa, cioè la validità kelseniana, e la possibilità di produzione di suoi effetti concreti, la sua efficacia, perde totalmente ragion d’essere.
D’altronde le caratteristiche del sultanismo contemporaneo ricalcano vecchie e note procedure di sospensione delle libertà e dei diritti individuali, basti pensare alle citate pretese di Maduro in Venezuela e di Erdogan in Turchia, o anche in Italia “emotivamente sospesa” per molti mesi ultimamente, quasi che il destino dello Stato fosse a scadenza, una celiniana morte a credito, destino legato al delirio di un referendum costituzionale di autolegittimazione politica e partitica del suo energico e vigoroso propulsore.
Si avverte invero, da tutto ciò, dall’ostinato esibizionismo contemporaneo, tradottosi in libido del mutamento costituzionale, l’utilità a reagire a disattese aspettative della volontà popolare, rinviandole strategicamente ad un livello più “garantito”, ma infine irrimediabilmente perduto, cioè, secondo un lessico politico nostrano, “livello rottamato”, in una strinata lacerazione dei diritti individuali e delle libertà fondamentali, salvaguardati dall’interesse paradossale e gattopardesco di mutare il più possibile per garantire meno tutele giuridiche e salvaguardie politiche possibili, nel seno di un avverabile rinviato, e mai perseguito concretamente.
Affiorano in tal modo guide politiche (da Erdogan a Renzi, da Maduro, Orban, allo stesso Putin) che desiderano essere e divenire Costituzione, seguendo l’ingenerarsi frenetico e dionisiaco di una libido mimetica. Non avendo però reali capacità di attuazione costituzionali, i Führer contemporanei considerano solo un “ferrovecchio” la Costituzione, volendo mutarla secondo esigenze personali ed esperienze di necessità elettorale. In questo il politico di matrice sultanista blocca la Costituzione, la priva della sua stessa ragion d’essere, ne soppianta la sovranità, di cui s’impossessa, mimeticamente sostituendosi al popolo stesso, facendosene “erede” assoluto delle sue aspirazioni e interpretandole a suo modo convenienti, per deciderne sorti e destini, lasciando presagire il passato e il presente come carcasse ingombranti di cui liberarsi al più presto per l’approdo ad un futuro sicuramente nuovo, ma solo eventualmente diverso e, comunque, ignoto.
Se con l’Unione Europea si è sempre più assistito ad una precarietà delle sorti collettive attraverso la monetarizzazione dell’uomo, la vocazione del sultanismo contemporaneo non smentisce questa enfasi di risoluzione del tempo futuro in un’interruzione, apparentemente momentanea, proprio della Costituzione, che va rimossa, più che cambiata, perché si possa accedere, pretestuosamente, al regno dei desideri esauditi, essendo diritti e libertà residui mnestici intollerabili per l’io sovrano sultano, quel politico che nel “rottamare” svolge un’emulazione del sacrificio del sovrano, trasferendolo sulla sovranità popolare, sorpassata da una Costituzione sempre sotto scacco, a-debito. Esattamente quanto Deleuze e Guattari11 ci descrissero rispetto alle instabilità economiche:
“Il creditore infinito, il credito infinito ha sostituito i blocchi di debito mobili e finiti. C’è sempre un monoteismo all’orizzonte del dispotismo: il debito diventa debito d’esistenza, debito dell’esistenza dei soggetti stessi”.
Ma tale debito d’esistenza ricorre tra economia e oltraggio ai diritti, quasi che la modifica costituzionale stia proprio ad indicare un modello di strategia politica volta a delineare possibile tutto ciò che si prospetta realizzabile, a patto però di intervenire sulla Costituzione per mutarne fini e tutele, attuandosi un ricatto giuridico che sospende la sovranità popolare. È questo il modello del sultanismo contemporaneo, vera sola metamorfosi innestatasi sulle democrazie classiche:
Sgomento cuore a spartizione del regno,
Re Lear è lembo di senno sguaiato, sdegno
di vanità senile, sarcasmo lì a vituperare
osando inscenare la follia per ingegno,
e invece l’insania s’inerpica per sperperare
su abietta corona, scelleratezza, così curiosare
tra gli anfratti di rovine cosa offra lo scettro
a unguento di contegno regale e chi sia lo spettro
che ammaliando uomo, ne oltraggi destino:
ingratitudine familiare, reo di scabro dispetto,
per invidia da inettitudine, è Re clandestino,
ripicca infuria affinché smanie lo spodestino,
vaneggiando calunnie e spossatezza torturando
a cecità, per consumare vendetta, giurando
sino all’empietà su trono e terra, nel ludibrio
farneticando, perché popolo governando
è, più che stravaganza, peccato di arbitrio,
abiura di libertà, abisso di regio squilibrio (Longo, 2017)
Dopo la rivoluzione americana del 1776 e quella francese del 1789, tuttavia, il concetto di Costituzione assunse una specificità connotata a realizzare al suo interno la garanzia giuridica del nuovo Stato: rifondare, cioè, il principio di sovranità che non fosse più radicalizzato in un corpo visibile ed umano, ma che fosse transeunte e che raccogliesse le forze di quel corpo-del-Re in una proiezione nuova per enunciati giuridici formali, stabili e stabiliti, in uno spazio politico in cui il diritto positivo venisse a garantire e tutelare le libertà fondamentali, nella precisa esigenza, però, e negli incontrovertibili effetto e conseguenza di una indispensabile necessità di controllo che sfociasse quale indirizzo di impulso per l’azione del politico, politico finalmente non più spregiudicato, assoluto e legibus solutus 12
In questo modo la Costituzione realizzò lo spazio al cui interno la sovranità potesse ricomporsi assumendo forma nuova e diversa, una forma nella quale lo Stato, attraverso l’idea di “patto” o quella di “contratto sociale”, assumesse legittimità di ordinamento giuridico costituzionale per potersi enucleare, al tempo stesso, quale fenomeno politico a garanzia dello stesso ordinamento. Ma di tutto ciò il sultanismo contemporaneo, come lo stesso politico in senso stretto, ha nutrito invidia13 resa in ambizione a farsi Costituzione, riformandola e mutandola, costituendosi emanazione fisica della norma “personalizzando la Costituzione”.
Peraltro nel momento in cui la Costituzione fu posta, si risolse l’oscillazione tra corpus ed aevum: nell’istante della caduta fisica del Re, la Corona, cioè l’idea metagiuridica e metapolitica del principio di sovranità, ritrovò un nuovo spazio in cui potersi dichiarare, al fine di poter concepire un ordine sociale ad un tempo razionale, coerente e fondato, cioè legittimato14 tale da poter affermare, proprio attraverso il diritto positivo, l’idea di Stato e la sua attestazione politica e giuridica in un testo fondamentale. La Costituzione consolidò, quindi, questo doppio legame e questo desiderio mimetico di certezza dell’esserci dello Stato e di una ritrovata positivizzazione giuridica della Corona, la quale non appartenendo più al Corpo-del-Re, né nel senso soggettivo né in quello simbolico, si radicalizzò all’interno del testo costituzionale, quale riproposizione del principio di sovranità.
In tale ambito la giustizia costituzionale si traduce nel legame finale che salda la Grundnorm kelseniana alla possibilità della Costituzione di essere una decisione politica che risolva uno stato d’eccezione: l’elemento del Dasein del sistema giuridico costituzionale, il fattore di esistenza della legittimità della norma perché conforme al dettato costituzionale (die Verfassungsmäßigkeit), si coniuga alla qualità del Sollen del sistema politico (die politische Entscheidung), decisione cioè per un’attuazione giuridica di obiettivi costituzionali, decisione che risolve uno stato d’eccezione, sintesi di garanzia e tutela dei diritti umani, delle libertà civili e dei diritti fondamentali della persona. Proprio la dichiarazione di indipendenza del 1776 e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, pongono appunto in rilievo come i diritti naturali si trasfondano in diritti fondamentali che sono tali perché sanciti in un processo politico che è definizione di unità del sistema giuridico: lo Stato già da allora diviene Costituzione.
Dirà successivamente Costantino Mortati che “uno Stato non ha Costituzione, ma è Costituzione”. 15
In effetti essendo il momento di formazione dello Stato, un momento che implica una situazione iniziale di incertezza, la sovranità si formalizza quale elemento essenziale della Costituzione, tale da far apparire la Costituzione stessa come una sovranità metagiuridica e metapolitica nella sua funzione sostanziale di attribuire al territorio ed al popolo un contenuto sovrano. Ma è la Costituzione che sancisce questa condizione che è soprattutto giuridica, infatti, sostiene Mortati, la sovranità si pone in essere come effettività ed essenzialità di un’efficacia giuridica.16 Strettamente conseguente risulta essere il fatto del problema della “spettanza della sovranità”, questione che riguarda l’individuazione del settore organizzativo dello Stato da effettuare sulla base dei principi costituzionali: e quindi la sovranità, che la Costituzione italiana al suo art. 1 affida al popolo, è una qualità a-priori che spetta alla stessa Costituzione, la quale è immediatamente in grado di poter garantire l’effettività e l’efficacia dell’esercizio della sovranità popolare.
Lo Stato si delinea nella sua dimensione di proiezione di decisione politica soltanto quando sia assicurata la condizione giuridica che la Costituzione, intesa come Grundnorm kelseniana, fonda: posizionamento di fini che garantiscano e tutelino gli interessi del popolo: è l’unità giuridica, insomma, che assicura la certezza della operatività del politico.
Il silenzio di colui che ha riportato la vittoria nel sacrificio e sulla lotta si trasferisce sul vinto, vittima di quel silenzio, prima rappresentazione dell’ipnosi collettiva che la violenza percorre.
Dopo tutto ciò, si erge il dominio: la sovranità controlla la sua origine conflittuale e si stabilizza nell’ordine giuridico-costituzionale che il sultanismo contemporaneo ha sottratto alla volontà popolare. Di qui ogni mutamento viene ricondotto alla soglia di una sospensione dei diritti individuali e delle libertà fondamentali, prestigio del politico che tuona in un’eco ripetuta dalla caverna del partito. Qualunque simbologia sarà opportuna e lecita, tutto il vuoto della storia si riempirà di un rinvio, quello da cui sgorga la violenza, senza che nessuno l’avverta, ma che quotidianamente vive e pulsa. Patologia del politico quella di ridurre la democrazia ad un addomesticamento elettorale e ad un addestramento propagandistico collettivizzati: al di là di ciò si stabilisce l’esigenza del politico di resistere al tempo ed all’oblio che questo produce, ma si stabilisce anche l’utilità del partito affinché ogni ragione di Stato divenga la realtà di un corpo costituente, illusorio, che si trascina narcotizzando la stessa volontà popolare.
Ineluttabile sulla società, indeterminabile per il potere, la violenza agisce ancor prima che sui corpi, sull’interiorità, quell’interiorità buia da cui muove, presente in ognuno e consolidata nella razionalità della storia che disgrega il destino umano.
Dirà a tal proposito quale ideale conclusione teoretica e giuridica il filosofo portoghese José Gil: “La violenza originale è cancellata, il consenso è nato, il diritto è autocreato. Ormai, nel rumore assordante delle norme dettate dallo Stato, sarà difficile udire il silenzio sottomesso, e tuttavia sempre più chiaro, che ha presieduto all’imperativo innocente e senza appello della legge: se A è, B deve essere”.17
Dalla presenza di un atto giuridico che riunisce le forze politiche e che stabilisce l’ordine dei poteri costituiti, tutto allora sarà possibile ed inevitabile, necessario ed utile.
Per ragioni di Stato.
Spero davvero che non siate passati
nel mezzo delle ore che separano
la notte da quegli anni linciati,
una folgore che scolora d’inverno
e intermittente precipita: sparano
sui giovani e su lavacro di racconti
che avete appreso, loro già pronti
a sterminare fonti di vita che imparano
cosa sia la morte amputati a età di pace,
per legami scissi falciati, quelle tracce
non rimettendole a voi, nel silenzio
poi socchiusi tra invasi, articolando urla
da cui riaffiora pietra angolare, incenso
recidendo libertà, scandalo per l’amore:
il vuoto vi scorta alla clemenza per sedurla,
s’alzano suppliche da latrine e lager; s’acclama
alla violenza, tra trincee, e la Città proclama
la via alla legge degli empi e così condurla
al pinnacolo della democrazia smorta,
rauco lamento inverso, interno ad assorta
divinazione che sfronda candore e induce
a censire diacronica versione d’un collettivo
abominio: lì ritrovate, fatale, la falce del truce
regime di ritorta eresia, stregoneria e insania
che affannano reale, ingannando suppletivo
lo sfatato mito di Reciprocità sacrificale,
consumandosi la persecuzione all’abissale
ripudio, nascosto sin da fondazione, effettivo
massacro espiatorio che ora traduce sacro
l’Uomo misconosciuto, taciuto per simulacro (Longo 2017).
Note
1 R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano 2012, pp. 223 și următoarele.
2 Idem, , Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1987, p.183. Idem, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano, 2002, p. 12.
3 F.Hartung, „L’Etat c’est moi”, in Historische Zeitschrift, 169, (1949), p. 18
4 A.P.Batbie, Traité théorique et pratique du droit public et administratif, Recueil Sirey, Paris 1885, p. 354.
5 M.S., Barberi, „La tentazione della catastrofe. Una riflessione teologico-politica su Sottomissione di Michel Houellebecq”, in Lo Sguardo – Rivista di Filosofia, 21, II (2016), p. 317.
6 P. P , Pasolini., „Dialoghi con Pasolini”, in settimanale Vie Nuove, n. 42, 28 ottobre 1961.
7 G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975, p. 201.
8 Ibidem, pp. 259-260.
9 M.S. Barberi, „Vendetta e identità europea: tra Dante e Malaparte”, in Europea, 2, (2016), p. 13.
10 R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1987, pp. 199-203.
11 G. Deleuze e F. Guattari L’anti-Edipo, Einaudi, Torino, 1975, p. 222.
12 E.H, Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi, Torino, 1989, p. 7.
13 R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano, 2012, pp. 504-505.
14 J. Gil, Costituzione, in “Enciclopedia Einaudi”, vol. IV, Torino,1978, p 5.
15 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Cedam, Padova, 1975, p. 68.
16 Ibidem, p. 102
17 J. Gil, Costituzione, in “Enciclopedia Einaudi”, vol. IV, Torino1978, pp. 23-24.
Bibliografie
BATBIE, A.P., Traité théorique et pratique du droit public et administratif, Recueil Sirey, Paris 1885 ;
BARBERI, M.S., La tentazione della catastrofe. Una riflessione teologico-politica su Sottomissione di Michel Houellebecq, in Lo Sguardo – Rivista di Filosofia, 21, II (2016), p. 317;
IDEM, „Vendetta e identità europea: tra Dante e Malaparte”, in Europea, 2, (2016);
DELEUZE G. e GUATTARI F., L’anti-Edipo, Einaudi, Torino, 1975;
Gil J., Costituzione, in “Enciclopedia Einaudi”, Torino, 1978, vol. IV;
Girard R., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1981;
IDEM, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1987;
IDEM, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano, 2002;
Idem, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano, 2012;
HARTUNG F., „ L’Etat c’est moi”, in Historische Zeitschrift, 169, (1949).
HEYDENREICH K. A., Grundsätze des natürlichen Staatsrechts und seiner Anwendung, Schwikert, Leipzig 1795;
KANTOROWICZ E. H., I due corpi del Re, Einaudi, Torino 1989;
LONGO G., Infatuazione. L’olocausto della memoria europea, l’abiura della democrazia, Wip Edizioni, Bari, 2018;
MORTATI, C., Istituzioni di diritto pubblico, I, Cedam, Padova 1975;
PASOLINI P. P., Dialoghi con Pasolini, in settimanale “Vie Nuove”, n. 42, 28 ottobre 1961.