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Il caso Kadare e la censura nei paesi comunisti
The case of Kadare and censorship in communist countries
Genti PUKA
Abstract. The case of Kadare and censorship in communist countries. The article re-evaluates the role of the self-censorship in the literature of the communist countries using as a case-study the work and the interviews of the most famous albanian writer of XX century Ismail Kadare. Kadare tries to move the conflict center between him and his detractors on the – more convenient for him – ground of comparison between the real and the secondo class literature, calling him out of the discussion about him and his work in terms of dissent.The article argues that the role of the self-censorship has been conveniently overlooked by him and that such role connveniently overlooked and that such role establishes the real value of Kadare social-realism works.
Keywords: dissident, censorship, self-censorship, literature, communism
Nell’affrontare il caso di Ismail Kadare, il più importante e noto scrittore albanese del dopoguerra, mi soffermerò su alcune opere che costituiscono da un lato le più alte vette della sua produzione letteraria e dall’altro, per la loro emblematicità, gettano luce sui rapporti dello scrittore con il regime.
Ismail Kadare nacque ad Argirocastro città dell’Albania meridionale nel 1936 dove trascorse l’infanzia e terminò la scuola superiore. Dopo la laurea nella Facoltà della Storia e Filologia presso l’Università di Tirana studiò per due anni letteratura mondiale all’Istituto Gorkij di Mosca. Istituto che fu costretto ad abbandonare nel 1961 a causa della rottura del rapporto diplomatico tra l’Albania di Hoxha e l’URSS. Iniziò la sua carriera come giornalista per diventare famoso in breve tempo dopo la pubblicazione del suo primo romanzo Il generale dell’armata morta nel 1963.
Il caso Kadare si presenta da subito complicato e non facile a categorizzare. Sia detto da subito: nelle sue ultime interviste Kadare rifiuta la definizione di dissidente. Alla domanda, postagli dallo storico francese Stephane Courtois, se egli si considerasse un dissidente o un oppositore del regime comunista, Kadare risponde:
„Con la parola “dissidente” sono state fatte speculazioni pesanti in tutto l’ex impero comunista. Una specie di scambio alcune volte non chiaro. I criteri sono stati spesso vaghi. In Albania, come ovunque, uno dei criteri è stata la prigione. Ma in questo mondo confuso, anche la prigione non è stata un argomento credibile.
Veniva certo messa in prigione gente meravigliosa, di spirito libero, ma succedeva altresì che venissero messi in prigione ufficiali del Ministero degli Interni, che in una lotta da cannibali si divoravano a vicenda. Uno scrittore, e anche ufficiale della polizia segreta, appena uscito dalla prigione la prima cosa che ha fatto è stata scrivere un racconto con cui cercava di dimostrare che l’autore del „Generale dell’armata morta” piacesse alla borghesia, perché era un suo agente. Ancora oggi questo scrittore, ex-ufficiale, è chiamato dissidente!
La mia opinione è sempre stata che nelle condizioni crudeli della dittatura albanese, la dissidenza, cioè l’opposizione al regime attraverso un’attività aperta non era affatto possibile. Quando dico impossibile intendo il senso proprio della parola: impossibile, assolutamente, perfino fisicamente impossibile. (Se in un’aula uno avesse espresso un pensiero contro il regime, sarebbe stato arrestato seduta stante dai presenti, sarebbe stato imbavagliato e sarebbe stato proclamato pazzo, oppure un agente che aveva avuto l’ordine di proclamare la ribellione armata, cosa che lo avrebbe portato alla fucilazione.)
In queste condizioni, l’unica resistenza rimane la letteratura. La vera letteratura, libera, come quella che si creerebbe se intorno non ci fosse la dittatura.
Io non mi sono mai ritenuto dissidente. La letteratura mi basta. Ho sempre detto e ripetuto una formula: ho cercato di fare letteratura normale in un paese anormale”.[1]
Ma possiamo effettivamente affermare che per la durezza del regime l’unica maniera di opporsi è quella che Kadare chiama „vera letteratura”? Cosa intende Kadare con vera letteratura? Cerchiamo la risposta a queste domande in un confronto diretto con la vita e il destino di altri scrittori dell’Est Europa. Nel frattempo cerchiamo di fare luce su quello che appunto Kadare chiama vera letteratura affidandoci alle definizioni che egli stesso fornisce. In una lunga intervista rilasciata al periodico albanese “Hylli i dritës” l’intervistatore rivolge e Kadare la seguente domanda:
„Come giudica oggi i suoi scritti del periodo del comunismo, in cui
parla di E. Hoxha e della dittatura? Pensa che ci sia la possibilità
di interpretare in modo differente ciò che un lettore comune vede,
cioè una realtà edulcorata della dittatura comunista?”.
Lascio la parola a Kadare:
„Dopo la caduta del comunismo, la domanda su cosa fosse questa letteratura nata durante quel periodo e su come bisognasse giudicare quest’ultima e gli scrittori vissuti sotto il regime comunista, ha suscitato interesse a livello mondiale.
Le opinioni si sono suddivise più o meno a metà. Secondo un’opinione – che sembra molto anticomunista, ma che come verrà spiegato più sotto, aderisce totalmente all’ideologia del regime di E. Hoxha – questa letteratura è interamente comunista, e come tale, andrà incontro allo stesso destino del regime, ovvero crollerà. Nella variante albanese questa opinione sosterrà che sarebbe stato preferibile che questa letteratura non fosse mai esistita e, insieme a essa, non fossero mai esistiti gli stessi scrittori. Anzi questi ultimi è stata posta polemicamente la domanda: perché avete continuato a scrivere, perché non avete taciuto, anzi, perché non siete morti!
Gli oppositori di questa tesi ritengono che essa è nella sostanza comunista, poiché presuppone la piena vittoria del comunismo all’interno della sua epoca, anzi perfino adesso, al di fuori di essa. Che questa tesi sia sostenuta da molti comunisti, non deve provocare stupore, ma che essa sia fatta propria anche dagli anticomunisti, ecco questo può generare un grande stupore.
La tesi che sarebbe stato auspicabile che questa letteratura non fosse mai venuta alla luce, i suoi oppositori l’accusano di razzismo, in modo particolare quando a sostenerla sono dagli stranieri. Ciò, infatti, equivarrebbe a sostenere che, per gli albanesi, sarebbe stato preferibile vivere per oltre mezzo secolo senza letteratura né arte, perché questo avrebbe dimostrato in modo lampante che il comunismo fu malvagio. É una tesi razzista perché al popolo albanese è presentata una alternativa che nessuno mai oserebbe presentare al popolo francese o al popolo tedesco e neppure al popolo russo che ha conosciuto, invece, condizioni molto simili a quelle del popolo albanese. Infatti, il sottinteso razzista della tesi è: è del tutto sopportabile che questo popolo abbia vissuto senza arte per oltre cinquant’anni, mentre sarebbe apparso inconcepibile che la vita culturale e artistica della Francia, all’epoca dell’occupazione nazista, si arrestasse per rendere evidente la brutale violenza del regime nazionalsocialista.
Altra opinione è quella per la quale la letteratura deve essere giudicata secondo leggi che le sono proprie, valide in ogni tempo ed in ogni luogo ed in virtù delle quali la giudichiamo buona o cattiva e non secondo canoni estetici che fanno riferimento ad una ideologia, sia essa comunista o anticomunista o fascista”.[2]
Kadare, quindi, sembra cerchi di reindirizzare i suoi detrattori verso la nota posizione che privilegia la concezione della supremazia dell’arte in quanto arte rispetto a quelle visioni che tentano di ridurre l’arte ai suoi contenuti politici, morali o sociali. Il criterio di valutazione dell’arte, dice Kadare, è l’arte stessa. Guai a formulare un giudizio sull’arte che non rimanga nell’ambito dell’arte, perché, e anche qui Kadare non è il solo a formulare tale posizione, una lettura politicizzata dell’arte non è altro che quello che i comunisti hanno fatto con l’arte: la sua riduzione a politica. Non bisogna cadere quindi nella stessa trappola, perché proprio quando pensiamo di arricchire o meglio liberare la nostra lettura dai criteri rigidi delle ideologie, cadiamo noi stessi nell’errore contrario: una lettura ideologica di verso opposto.
Dobbiamo, allora, interrogare l’arte unicamente attraverso i criteri artistici. E di conseguenza secondo questi criteri giudicare l’autore.
A questo punto sorgono due domande:
Come decidere se si tratta di buona letteratura? Cioè, in maniera più specifica, cosa distingue la buona letteratura che si produceva in Albania, dalla cattiva letteratura? Ci sono altri criteri per giudicare l’autore fuori dalla sua arte?
Partirò dalla risposta di Kadare alla seconda domanda:
„La mia opinione va nella direzione di coloro che sostengono che la letteratura si deve giudicare come letteratura. Tuttavia, per quella particolarità del regime crudele instaurato in Albania, aggiungerei che in questo caso, il criterio fondamentale, naturalmente deve essere l’opera, ma un criterio principale non può non essere la moralità dello scrittore. Con questo non intendo le idiozie degli scrittori, parte delle idiozie dei popoli sotto dominazione, le filastrocche, i canti per i festeggiamenti, il governo o i contadini lodati, ma i crimini imperdonabili, come la delazione dei colleghi, il loro invio in prigione oppure alla fucilazione, ecc. É per questa ragione che chiedo da più di dieci anni l’apertura dei dossier segreti.
Per quanto riguarda la teoria del „silenzio” come resistenza al regime, penso che non ogni genere di silenzio vale. Il silenzio letterario è quello di uno scrittore famoso che, all’improvviso, interrompe la sua attività. In qualche misura, è quello che hanno fatto Lasgush Poradeci e Dhimiter Pasko, ma anche loro, con molta attenzione, poiché il regime sorvegliava attentamente, anche il silenzio. Oggi in Albania molti sostengono che gli artisti avrebbero dovuto tacere. Loro dichiarano più o meno, l’opinione che sarebbero stati scrittori di valore, ma hanno preferito il silenzio. Come principio è difficile contraddirlo, ma intanto una domanda diventa inevitabile: come si dimostra questo? In altre parole come si dimostra il talento, e come si dimostra che la causa del silenzio non è quello che si dice ma altro (per esempio la paura)”?[3]
Kadare quindi non si tira indietro dall’analizzare quello che di extraletterario c’è nella vita dello scrittore durante il regime comunista come criterio secondario ma sempre valido di valutazione di uno scrittore e della sua opera. Noi sappiamo che quando il discorso si sposta sulle qualità individuali, come per esempio il coraggio civile, nel caso dei regimi comunisti, diventa molto difficile prendere una posizione netta, senza cadere nella trappola dei figli che giudicano i padri. Vorremmo analizzare meglio questo concetto. Giudicare ex post comporta i rischi di un’inautenticità delle posizioni, come quella da cui mette in guardia qui sopra Kadare, e per le nuove generazioni, quelle che il tempo comunista non l’hanno vissuto, comporta il rischio della sottovalutazione delle situazioni. É molto difficile, in effetti, oggi spiegare perché costasse così caro e fosse così raro il coraggio civile di opporsi apertamente alla nomenclatura, da dentro, durante i regimi comunisti. Certo si può basare la spiegazione sulla paura: il terrore che tali regimi incutevano e nel caso nostro la persecuzione maniacale dell’intellighenzia e degli scrittori che effettivamente erano nel mirino in tutte le campagne di inasprimento della lotta di classe, potrebbero spiegare almeno in superficie il fenomeno. Come ci ricorda però Francois Furet nel suo Il Passato di un’illusione l’idea comunista gode di un prestigio presso intellettuali e scrittori dell’Est e dell’Ovest, che comincia a declinare solo dopo il crollo del muro di Berlino. Indagando appunto le ragione storiche del prestigio di tale idea, che riceve nuova vita con la fine della seconda guerra mondiale Furet scrive:
„[…] il crollo del nazismo non ha posto fine alle grandi religioni secolari del XX secolo. Anzi, la sua radicale scomparsa non fa che lasciare il marxismo-leninismo come unico padrone o unico beneficiario dell’investimento religioso nelle lotte politiche. La guerra lungi dall’aver ridotto il teologico-politico, ne ha esteso la portata sui popoli europei. Lungi dal segnare una rottura con i precedenti messianesimi laicizzati, si conclude con il dominio della filosofia marxista-leninista della storia, con gradualità molteplici e più o meno diverse. Certo, c’è stata una semplificazione del campo, ma la natura di questa filosofia è sempre la stessa: ormai l’orizzonte di una realizzazione rivoluzionaria dell’uomo sociale esiste a partire da un’unica origine, ma è più ossessionante che mai. La democrazia liberale, in materia d’interpretazione della guerra, nulla ha da offrire di tanto semplice e incisivo come la sequenza di identità capitalismo-fascismo da un lato, antifascismo-comunismo dall’altro, che è la tesi sostenuta dal Comintern e poi dal Cominform […] il marxismo e ancora di più il leninismo danno un rango di prim’ordine alla tragedia dell’agonia del capitalismo, in cui Hitler ha il ruolo principale. La sequela di astrazioni che nel marxismo-leninismo costituiscono il senso della storia vengono a trovare delle incarnazioni dalle quali ricevono un’apparenza di verità.
Si spiega così la straordinaria plasticità del discorso comunista sulla guerra, in grado di piacere ad ogni pubblico. La demonizzazione del nemico in realtà non è compatibile con il marxismo e con l’idea che gli uomini obbediscono alle leggi della storia. Ma corrisponde nella fattispecie alle sofferenze inaudite provocate dalla guerra e all’universale indignazione suscitata dai crimini hitleriani. I morti, i deportati, i torturati, quanti hanno solo sofferto la fame e il freddo, insomma tutta l’Europa distrutta indica i responsabili dei propri mali in un linguaggio appropriato al suo stato morale: con un discorso sul male e sulla responsabilità del male, dissimulato però in una teologia della storia”.
E poi su quello che tutto questo per gli intellettuali dell’Est e dell’Ovest:
„A un altro livello questa teologia piace agli intellettuali, come conferma della predizione leninista sulle crudeltà legate all’”ultimo stadio” del capitalismo, perché offre un’infinita gamma di speculazioni filosofiche sulla dialettica tra la storia e la libertà, in cui la libertà non ha come complessa scelta finale che da obbedire alla storia”.
Continua poi Furet:
„In questo senso, la guerra del 1939 porta a compimento l’influenza delle grandi religioni politiche sull’opinione pubblica europea che era iniziata con la guerra del 1914. Ma di queste religioni, la guerra ne annienta una e ne innalza l’altra, moltiplicandone la forza. Una volta vittorioso, l’antifascismo non sconvolge il terreno morale e politico sul quale è cresciuto. Approfondisce la crisi dell’idea democratica, fingendo di averla risolta. É la grande illusione dell’epoca”.
E infine:
„Noi ne siamo appena usciti (Furet scrive questo nel 1995), e più per forza di cose che per virtù intellettuali”.[4]
Ho riportato il passaggio lungo di Furet per ricordare appunto quanto popolare fosse l’idea comunista durante i regimi comunisti o almeno da quali posizioni di vantaggio ripartisse essa in Europa, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Quindi il mancato coraggio civile in un’epoca in cui era possibile andare in prigione anche per una sola boutade di sapore sovversivo va, purtroppo, di pari passo con la certezza di una buona parte degli intellettuali dell’Est e dell’Ovest di stare dalla parte giusta. Se quindi da un lato nessuno avrebbe l’autorità morale oggi per rivendicare una maggiore dose di coraggio civile tra, per esempio, gli scrittori albanesi, non possiamo esimerci dal mettere a confronto la maggiore o minore lucidità nel valutare quello che, attorno a questi intellettuali accadeva, lucidità, a sua volta, spesso offuscata dall’illusione comunista di cui a lungo parla Furet nel suo libro. In questo caso non avremmo avuto bisogno di legittimare la nostra posizione di osservatori privilegiati, posti, come siamo, a una buona distanza di sicurezza dagli avvenimenti di cui stiamo parlando. Perché la lucidità e il realismo sono parte costitutiva del genio degli scrittori, cioè di quel genio che avanza nella direzione delle verità esistenziali e che se non lo facesse perderebbe la sua stessa ragione di esistere.
Ci avviciniamo così proprio al criterio primario, quello privilegiato da Kadare, le ragioni letterarie. In merito a questo punto Kadare non ha dubbi nell’affermare quanto segue:
„Per diversi anni mi sono posto la domanda: cos’è la letteratura che sto creando? É quella giusta? Ha qualche valore, oppure morirò insieme al regime?
Sono sicuro che simili domande sono state fatte dappertutto nel vasto campo comunista. Intanto nel 1970, nella mia vita è successo qualcosa di sorprendente. La mia opera, pubblicata inizialmente in Francia, ha cominciato a essere tradotta nelle principali lingue europee e mondiali, da New York a Tokio.
Io non ritengo che il criterio fondamentale per stimare il valore di uno scrittore sia la traduzione delle sue opere all’estero. Ci sono tanti casi che dimostrano il contrario. Ma che questa traduzione ci sia stata ed essa abbia avuto successo, nel 1970 aveva un significato molto importante. E questo significato non poteva limitarsi solo alla semplice pubblicazione, seppure accompagnata dal successo di pubblico, fuori del paese. Era il corrispondere (il contatto) con il mondo libero. Il mondo libero occidentale, nelle sue metropoli, a Parigi, New York, Berlino, Roma, Londra, improvvisamente legge e apprezza una letteratura creata in una paese-prigione, il paese più sfortunato dell’impero comunista. L’Albania all’epoca produceva solo buio, noia e notizie che ti facevano rabbrividire. E, improvvisamente, produce letteratura che, non solo è distribuita rapidamente, ma piace come se fosse del mondo non comunista.
Questo rappresentò per me e per tutte le persone una prova non comune. Come nei miracoli delle favole, questo test ha portato me nel futuro. Grazie a esso ho capito che indipendentemente dal fatto che il regime sia folle, io stavo creando letteratura normale. Nonostante l’Albania fosse una prigione la letteratura che proveniva dal suo interno essa era libera. Altrimenti non c’era ragione per cui essa venisse accolta così benevolmente in Occidente […] Ho detto diverse volte che non c’è bisogno che la mia opera sia chiamata dissidente, o comunista, o anticomunista, o sovversiva ecc. Essa è innanzitutto letteratura e questo è l’onore più grande per un’opera creata in un paese come questo”.[5]
Quando racconta il suo presentarsi alla scena del mondo nel 1970 Kadare si riferisce al suo Il generale dell’armata morta. Quest’opera, se da un punto di vista letterario rappresenta per alcuni critici l’apice della sua prosa, dal nostro punto di vista, quello cioè di valutare i rapporti tra lo scrittore Ismail Kadare è il regime, non è molto rilevante per due ragioni:
- la sua ambientazione (la rivisitazione post-guerra del secondo conflitto mondiale, attraverso gli occhi un generale dell’Esercito italiano che si reca in Albania a per riportare in patria i corpi dei soldati caduti durante la guerra);
- la sua portata metaforica, che rende ardua la lettura di questo romanzo.
Sia detto per inciso: già con questo libro, pubblicato nel 1963, Kadare attira le critiche dell’allora nomenclatura culturale albanese.[6] Successivamente, nel 1965 arriverà il lungo racconto Il mostro, vietato dopo la sua pubblicazione su una rivista albanese e poi Le nozze del 1968, riconosciuto dall’autore come l’opera che presenta maggiore consonanza con la letteratura del realismo socialista. Quando Stephane Courtois fa la seguente domanda: „Lei ha menzionato poco fa la tassa dello scrittore (la tassa che dovevano pagare tutti gli scrittori che vivevano sotto i regimi comunisti secondo Kadare). Può dirmi con precisione in cosa consistesse questa tassa?”
Kadare risponde:
„Era qualcosa di ben noto. Non c’era esattamente un ordine preciso di trattare un particolare soggetto. Semplicemente sapevamo che nel totale delle opere ci dovevano essere almeno alcuni scritti con soggetto contemporaneo e in essi, questo si capiva da sé, si doveva descrivere e accettare quello che si chiamava “realtà socialista”.
Tutti abbiamo pagato questa tassa.
Nonostante ciò, voglio sottolineare con forza, che la costrizione cui eravamo soggetti, di dover pagare questa tassa, non può in nessuna maniera servire oggi da giustificazione o alibi per il modo immorale con cui alcuni scrittori hanno adempiuto quel pagamento. Voglio dire con questo che quella costrizione non giustifica le opere che generavano l’odio politico, l’oppressione, la sorveglianza, i crimini, l’imprigionamento o la delazione […]
Ci sono state opere così? Certo che ci sono state. La letteratura ne era piena.
Ma non parlerò qui di queste perversioni. Vi parlerò della tassa degli scrittori seri, di quelli che pagavano il loro debito per salvare la loro arte. Questo “debito”, nei confronti della loro intera opera, occupava uno spazio irrilevante.
Nel 1968, sotto la pressione del famoso „realismo socialista”, io stesso ho scritto l’unica opera, che è stata salutata come tale, il romanzo breve […] Le nozze.
Immediatamente dopo la pubblicazione, specialmente dopo l’entusiasmo con cui fu accolto dalla critica ufficiale, fui inorridito e giurai di non fare mai più una cosa simile.”
Segue nel 1973 la pubblicazione di uno dei più importanti romanzi di Kadare: L’inverno della grande solitudine. Per la prima volta nella storia della letteratura del realismo socialista albanese viene raffigurato come personaggio principale, Enver Hoxha.
Esiste una critica fiorente che legge tale romanzo o come l’espressione più intelligente dell’allegoria letteraria contro il regime (lettura sostenuta dallo stesso Kadare) o come una resa incondizionata dell’arte al regime (tale è per esempio la posizione di Fatos Lubonja). Non è possibile raggiungere all’interno di questo studio una conclusione univoca su tale valutazione. Quello che però possiamo notare è che il destino di questo romanzo coincide con il destino dello stesso Kadare: l’ambiguità del romanzo (che, come Lubonja nota, dedica circa 80 pagine al personaggio Enver Hoxha in una rivisitazione delle vicende politiche degli anni sessanta) si intreccia con l’ambiguità del ruolo di Kadare nel panorama del dissenso albanese. Kadare stesso ha incentivato una lettura dell’opera che si può classificare come Eigensinn e cioè un romanzo che avrebbe funzionato come ancora di salvataggio per l’autore al momento delle persecuzioni.
D’altro canto, interpellato sulla benevolenza con cui egli ha ricostruito nel romanzo il personaggio di Hoxha, Kadare ha spiegato che attraverso la narrazione cercava di suggerire al dittatore di adeguarsi all’eroe positivo del romanzo, cercando così di correggere i sui comportamenti. Possiamo affermare comunque con il critico Gjovalin Kola che quest’opera, e forse tutta la produzione di Kadare, si iscrive in quella che si può definire «letteratura del realismo socialista fuori dagli schemi”.[7]
Il criterio fondamentale utilizzato da Gjovalin Kola per stabilire se si tratta di letteratura del dissenso, è quello di interrogarsi su quale fosse il livello di tolleranza del regime verso queste opere letterarie. Per Kola, se pubblicata ufficialmente da regime, e pertanto tollerata, non possiamo più classificarla come letteratura del dissenso. Tale giudizio netto, pur fornendo un criterio oggettivo, spesso utile per distinguere, non tiene conto del fatto che in determinati periodi nei regimi comunisti, furono pubblicate proprio le opere che avrebbero aperto le porte al dissenso, che poi sarebbe fiorito nei samizdat. Così è stato per un’opera come Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn che è stata, almeno per l’Urss, fondatrice di un genere. Ciononostante è interessante richiamare il criterio di Gjovalin Kola, per quanto riguarda la letteratura tollerata dal regime, perché le grandi figure della letteratura albanese del realismo socialista rientrano tutte in questa situazione intermedia che potremmo definire «né con né contro” il regime. „Chi ha seguito le pubblicazioni del dopoguerra in Albania, sa che i motivi principali per i quali un libro era criticato e veniva tolto dalla circolazione – dalle librerie e dalle biblioteche – erano spesso inerenti al suo contenuto ideologico o alla posizione dell’autore. Normalmente questa misura era applicata per autori che erano riusciti a creare una loro individualità, nonostante le limitazioni imposte dal realismo socialista.[…] Le opere proibite o criticate erano scritte da, per esempio, I. Kadare, D. Agolli, F. Arapi, Dh. Xhuvani, P. Marko, K.Kosta ecc. […] La loro evoluzione e affermazione, la loro tendenza a creare opere originali e competitive, non poteva che intaccare, in qualche maniera, fosse anche inconsapevole, ciò che ostacolava tutto questo: gli schemi di quella che era stata predefinita e codificata come norma o modello di una letteratura di partito. Le deviazioni o il tentativo di eludere tale norma venivano indagate in prima battuta dall’editore. Nel caso – raro – che riuscissero ad eludere tale passaggio, allora venivano interpretate dai critici, gli uomini del partito, perfino dai lettori ormai abituati alla letteratura standard dell’epoca”.[8]
Poi Kola passa alla definizione di questa letteratura:
„Ma in questo caso non abbiamo a che fare con una separazione, tanto meno con un’opposizione premeditata e dichiarata, che abbia il carattere estetico e letterario del dissenso, fosse anche camuffato. Se avessero fatto ciò, loro [gli scrittori n.d.r] erano a conoscenza del prezzo che avrebbero dovuto pagare. Gli esempi non mancavano. In effetti, gli autori di opere simili non subirono condanne pesanti, come avvenne con i dissidenti. Inoltre loro hanno fatto autocritica davanti all’Unione degli scrittori o nelle organizzazioni del partito. Per sopravvivere come individui e scrittori, avevano bisogno di essere visti di buon occhio dal partito. Avevano bisogno di pubblicare e di godere dei privilegi acquisiti. Per questo motivo le loro opere successive furono, solitamente, più „obbedienti” e più allineate alla norma imposta dal realismo socialista. In questo senso, queste opere considerate come „problematiche” dalla critica e proibite dalla censura, prima o dopo la pubblicazione, costituiscono quello sparuto gruppo di tale letteratura, che è esistita anche in Albania, e che può essere denominata come letteratura del realismo socialista non schematica”.[9]
Quello che, quindi, manca alla letteratura di Kadare perché diventi una letteratura del dissenso, che sarebbe come dire perché dica tutta la verità sul suo tempo, è ciò che viene meno a causa dell’autocensura dell’autore. Per produrre una visione della realtà edulcorata, in modo tale da superare quella onnipresente macchina censoria, , che vegliava sulle arti in Albania come in tutti i paesi della cortina di ferro, lo scrittore si autocensurava. E’ singolare come Kadare, pur prodigo nel definire con dovizia di particolari i meccanismi psicologici che conduceva uno scrittore a dover flirtare con il regime, non tiri fino in fondo le conclusioni di tale condizione.
Censura e autocensura
Tale condizione, che si può appunto definire autocensura, è l’argomento di un bellissimo articolo del 1985 di Danilo Kiš. Kiš riesce a individuare quello che, a mio parere, è l’anima della censura: „la censura – dice Kiš – intende sottolineare la propria legittimità e al contempo dissimularsi attraverso la propria negazione. Per quanto la censura si consideri una necessità storica e un’istituzione dedita a proteggere l’ordine pubblico e il sistema, essa palesa malvolentieri la propria esistenza…[essa] rappresenta una misura temporanea che verrà revocata nel momento in cui tutti coloro che scrivono, non importa se lettere o libri, diventeranno maggiorenni e politicamente maturi, quando la tutela dello Stato e l’esercizio del potere sui cittadini non saranno più necessari.”[10]
Vi è tutta una serie di passaggi affidata ai „non professionisti” della censura, ma se il messaggio da censurare riesce a filtrare anche attraverso questi passaggi, rimane la risorsa aggiuntiva: il tipografo che „in quanto parte cosciente della classe operaia si rifiuterà di stampare il testo incriminato”[11].
Il passo successivo è la censura amichevole – che come dice Kis – rappresenta il passaggio dalla censura all’autocensura: „il redattore capo, anche lui uomo di lettere, vi consiglia per il vostro bene, di togliere dal libro alcuni passi o versi”.[12] Gli amici, come il redattore capo, non esiteranno a utilizzare il ricatto morale per convincervi: dalla vostra autocensura dipenderà anche il loro destino. Kiš arriva a definire la censura come semplicemente la manifestazione esteriore di quella “malattia cronica che si sviluppa parallelamente a essa – l’autocensura”.
Della lotta con la censura, con la minaccia la paura e il ricatto di cui essa si serve, della battaglia alcune volte pubblica e pericolosa con il censore, nel caso dell’autocensura rimane nello scrittore solo il sentimento di umiliazione e vergogna per la collaborazione prestata. E siccome autocensura significa leggere il proprio testo con gli occhi altrui, con gli occhi di un giudice più severo di qualunque altro perché riconosce nel testo ciò che nessun censore avrebbe scoperto, lo scrittore vive con il suo doppio-censore che come Dio, è onnivedente e onnisciente, in una tensione intellettuale e morale continua. Il doppio-censore riuscirà a pregiudicare e compromettere anche la persona più morale che ci sia.
Giunti a questo punto sono possibili solo due esiti: lo scrittore riesce e superare l’atto radicale della distruzione della sua opera e con la forza del proprio talento e con coraggio vince il suo doppio-censore facendo ricorso all’uso di metafore. Dice Kiš che l’autocensura ha trasformato lo scacco in vittoria trovando grazia nella forma e trasformando il pensiero in una figura stilistica, indirizzandola nel campo della poetica. L’autocensura conferisce per esempio alle avanguardie russe degli anni venti del novecento – sempre secondo Kiš, emblematiche in tal senso sono Babel, Pil’njak, Mandel’štam, Cvetaeva – un tono particolare ed eccellenti esiti letterari.
L’esito negativo invece, il lato oscuro dell’autocensura, quando non è l’autodistruzione dell’opera letteraria, prima che questa venga pubblicata oppure e quando lo scrittore non sposa la visione del suo doppio-censore facendosi piegare alla produzione di una menzogna, è la riduzione dell’opera letteraria in un pamphlet. Questo coincide con il momento quando lo scrittore uccide il suo doppio e liberandosi una volta per tutte dalla prudenza, dall’umiliazione e dalla vergogna accumulate per lungo tempo, fa cadere le metafore, scioglie le perifrasi. Mandel’štam scriverà in un momento simile – ci ricorda Kiš – la sua poesia su Stalin, poesia di liberazione dall’autocensura che gli costerà la vita. Lo scrittore che si serve in questo caso del pamphlet come di una “spada vendicatrice” riduce la sua arte a propaganda.
Ecco alla fine la conclusione di Kiš:
„Un’autocensura protratta conduce inesorabilmente, sul piano creativo e umano, catastrofi non meno gravi di quelle dovute alla censura; […] l’autocensura rappresenta una manipolazione mentale, con durevoli conseguenze negative per la letteratura e per lo spirito umano”.[13]
Proprio di queste conseguenze, consapevolmente, Kadare tace quando parla di sé e della sua produzione letteraria sotto il regime diEnver Hoxha; ed è proprio questa non giustificata omissione che rende la sua riflessione sull’arte socialista e la sua retorica sul primato dell’arte, colpevolmente parziali.
Bibliografia
KADARE, Ismail, Vepra, Vol. XX, Onufri, Tirana, 2009.
KIŠ, Danilo, Homo poeticus, Adelphi, Milano, 2009.
KOLA, Gjovalin, Shkolla e disidencës dhe Trebeshina, Plejad, Tirana, 2012.
FURET, François, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano, 1995.
SINANI, Shaban, Le Dossier Kadare, Odile Jacob, 2006.
SINANI, Shaban, Letërsia në totalitarizëm, Naimi, Tirana, 2011
Note
[1] Ismail Kadare, Vepra, Vol. XX, Onufri, Tirana, 2009, pp.480-481, (traduzione dall’albanese mia) – il dialogo di I. Kadare con Stephane Courtois qui incluso è stato pubblicato per la prima volta in Francia nel 2006 dalla casa editrice Odile Jacob come postfazione al libro Le Dossier Kadare di Shaban Sinani
[2] Ibid., pp. 413-414. Fa parte della conversazione di Kadare con il periodico albanese “Hylli i Drites”.
[3] Ibid. p. 414.
[4] Francois Furet, Il passato di un’illusione, Mondadori, Milano, 1995, pp. 405-406.
[5] Ismail Kadare, Vepra, op. cit., pp. 415-416.
[6] “Il generale dell’armata morta è stato criticato per il pacifismo e l’altruismo degli avversari innanzitutto del generale, e fu rielaborato dall’autore” vedi Shaban Sinani, Letërsia në totalitarizëm, Naimi, Tirana, 2011, p. 87
[7] Gjovalin Kola, Shkolla e disidencës dhe Trebeshina (La scuola della dissidenza e Trebeshina), Plejad, Tirana, 2012, p. 76.
[8]Ibid. p. 75.
[9] Ibid., p. 76.
[10] D. Kiš, Homo poeticus, Adelphi, Milano, 2009, p. 42.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] D. Kiš , op. cit., p. 45.