Coordonat de Laura MITAROTONDO & Teodora PRELIPCEAN
Volum V, Nr. 2 (16), Serie nouă, martie – mai 2017
Parametri antichi dell’utopia
(Ancient parameters of utopia)
Paulo BUTTI DE LIMA
Abstract: The utopian character of Plato’s city in The Republic has been a main subject of discussion, centred especially on the characteristics of the proposed community and its incoherencies when assumed as a concrete political project. The aim of this paper is to analyse which parameters are used by Plato in his view of the best constitution and how these parameters became the criteria assumed by Aristotle in his general classification of political thought. Through Plato’s representation of Socrates’ activity when describing the city of the Republic it is possible to trace a genealogy of the modern concept of utopia.
Keywords: Utopia, Plato’s Republic, Aristotle’s Politics, Politeia, paradigm, painting.
Si è potuto parlare della Repubblica di Platone in quanto esempio di costruzione utopica per almeno due ragioni. Anzitutto, perché questo dialogo resta all’orizzonte delle utopie moderne, a iniziare dall’opera di Tommaso Moro. Nella descrizione socratica della città giusta si trovano alcuni argomenti centrali nell’immaginario utopico di epoche posteriori, come la proprietà comune dei beni e una diversa organizzazione della famiglia. Sono temi che i moderni hanno spesso letto attraverso la mediazione della critica aristotelica a Platone, e che si sono a lungo radicati nell’ambito di descrizioni e proposte politiche designate oggi come “utopiche”. In secondo luogo, si è più volte parlato di “utopia” platonica perché si riscontra, nel filosofo ateniese, e in modo particolare nella Repubblica, la prima vera riflessione sulla distanza (o incompatibilità) tra elaborazione teorico-politica e realtà – sul rapporto, cioè, tra la costruzione letteraria della città e la sua realizzazione, così come sulla posizione dell’autore-narratore rispetto alle prospettive dell’agire politico. Sia come sostanza, sia come forma, l’utopia platonica può essere letta secondo i punti di vista della tradizione e dell’eredità.[1]
Si è discusso se, per Platone, la città della Repubblica costituisse un concreto progetto politico o se fosse intesa, invece, come una costruzione puramente immaginaria. Indipendentemente dalla posizione che si può assumere in questo dibattito, si deve notare che, nell’esprimersi sulla distanza tra la città costruita “in parole” e la città concreta in cui vivono gli interlocutori del dialogo, il Socrate platonico mette in evidenza la natura stessa della riflessione politica. Nel momento in cui si considerano, nella Repubblica, i fondamenti di una teoria il cui oggetto è il mondo della polis, vi si presentano dei parametri che permettono di raffigurare una genealogia del genere utopico. Proveremo, in questo saggio, a delineare alcuni elementi di questo percorso.
Aristotele e la natura della riflessione sulle politeiai
Nel quarto libro della Politica (1288 b 21 ss.), Aristotele cerca di offrire i criteri su cui si fondano le teorie che hanno per tema le costituzioni (politeiai).[2] Si tratterebbe di una forma unica di conoscenza, suddivisa secondo la combinazione di tre parametri: la qualità della forma proposta di governo, la possibilità di realizzarla e la difficoltà della realizzazione. Ad un estremo, si guarda alla costituzione migliore (ariste politeia), considerata indipendentemente da ostacoli esterni. Una tale costituzione è formulata “secondo auspicio” – letteralmente, come “una preghiera” (kat’euchen) –, ma la sua realizzazione è quasi impossibile (adynaton). In secondo luogo, si formula una costituzione adeguata a certe condizioni, concepita in alternativa a quella impossibile; essa deve essere tenuta presente dal vero legislatore e uomo politico. In terzo luogo, si presentano dei ragionamenti sulla costituzione più facile, quando si assumono determinati presupposti (ex hypotheseos): come è nata e come può essere conservata per lungo tempo. Infine, è possibile pensare alla costituzione che meglio si adatta a tutte le città: vale da esempio la costituzione degli Spartani presa come un ideale. Contrapponendosi a quanto espresso su questo argomento dagli autori precedenti, Aristotele privilegia come fine l’utilità, pensa all’agire dell’uomo politico e sottolinea l’importanza dell’analisi delle costituzioni esistenti: l’atto di correggere ciò che si sa (metamanthanein) – considerare, cioè, le situazioni date e le possibilità di cambiamento – è un compito tanto rilevante quanto l’imparare dall’inizio (manthanein ex arches) – e cioè, creare nuove forme costituzionali indipendentemente da quelle esistenti.
È questo il ventaglio delle possibilità in cui si inserisce ogni conoscenza politica centrata sulla nozione di politeia. Non è difficile constatare che Platone svolge un ruolo primario in queste considerazioni. Il filosofo ateniese è non solo l’oggetto critico delle riflessioni aristoteliche, ma è anche il punto di riferimento a partire dal quale (e in reazione al quale) si elencano le distinte prospettive con cui si osserva la città sub specie costituzionale. Molti dei termini adoperati per esprimere la natura della riflessione in questo campo (l’ariste politeia, l’euché, l’adynaton) provengono direttamente dalla critica aristotelica alla Repubblica platonica. Altri, invece, sembrano derivare da una reazione al divario che vi si riscontra tra progetto politico e realtà. Aggiungerà altrove Aristotele che la ricerca della migliore forma di governo non deve presupporre una «virtù al di sopra del normale» e nemmeno una soluzione che sia soltanto un auspicio (kat’euchen) (V, 1295 a 25 ss.).
I due primi tipi di conoscenza politica sopra elencati sono ricondotti da Aristotele agli “scrittori precedenti”. Essi sono trattati criticamente nel secondo libro della Politica. I criteri generali di classificazione delle forme di riflessione costituzionale trovano ora ulteriori precisazioni. Aristotele considera, in principio a questo libro, che il fine della ricerca sulla comunità politica verte sulla costituzione migliore, che sarà quella più forte (kratiste) – vale a dire, quella superiore – per chi potrà vivere al massimo secondo auspicio (kat’euchen) (1260 b 27 s.). Questo è lo scopo di ogni possibile ricerca, distinta d’accordo con due criteri: la posizione del soggetto della riflessione e la natura pratica della teoria. È essenziale che le formulazioni politiche possano trovare realizzazione: «si devono formulare ipotesi su ciò che si auspica (kat’euchen), ma non si devono formulare ipotesi assurde» (1265 a 17-18). Se ne può dedurre che le proposte costituzionali “secondo auspicio” si suddividono tra quelle che è possibile realizzare e quelle invece impossibili. È evidente che sono queste ultime a richiedere una giustificazione o altrimenti ad essere rifiutate. L’euché indica, in questo caso, non tanto il carattere assurdo della proposta, quanto il desiderio che giustifica la stessa creazione fittizia di una politeia.
Alla natura pratica delle proposte costituzionali, Aristotele aggiunge in seguito una nuova distinzione: da una parte si pongono progetti come quelli platonici, nella Repubblica e nelle Leggi, dall’altra i progetti di privati cittadini o di filosofi e uomini politici[3] «più vicini alle costituzioni ora in vigore» (1266 a 31 ss.). Sia tra coloro che non prendono parte alle azioni politiche, sia invece tra quelli che lo fanno vi sono autori di costituzioni più aderenti alle forme vigenti, in cui sono proposte misure “più necessarie” (senza che si cerchi di innovare nella sfera delle pratiche famigliari). Rispetto alla distinzione precedente, ora si prende in considerazione, insieme all’oggetto della teoria, la posizione da cui si parla sulle costituzioni, e il fatto che la base di giudizio è la concreta realtà politica.
La posizione dell’autore diventa, poi, il solo criterio di una terza differenziazione tra coloro che «si espressero sulla costituzione» (1273 b 27 ss.). In un primo gruppo, Aristotele include gli autori che «mai parteciparono alle azioni politiche o simili, ma trascorsero la vita da privati». In un secondo gruppo, rientrano i legislatori che attuarono presso le proprie città o presso le città straniere e che presero comunque parte all’agire politico. Tra questi legislatori si trovano sia quelli che elaborarono soltanto delle leggi per le città, sia invece quelli che, insieme a delle leggi, formularono una costituzione, come nel caso di Licurgo e Solone. È facile notare che, mentre questo secondo gruppo non deve causare perplessità, il primo – quello dei “finti” legislatori – richiede una giustificazione. Da questo punto di vista, sono accomunate le diverse proposte analizzate precedentemente, “aderenti” o meno alla realtà: oltre a Platone, si era parlato di Falea di Calcedone e di Ippodamo di Mileto. La posizione dell’individuo privato che si esprime sulle distinte forme costituzionali suscita degli interrogativi sulla natura e funzione del sapere politico, già motivo di indagine in dialoghi platonici come il Politico.
Platone e la natura dell’utopia
All’origine di simili distinzioni aristoteliche si trovano le proposte di una «costituzione migliore» (ariste politeia), formulate come un auspicio e che presentano evidenti difficoltà di trasformarsi in realtà, mostrandosi assurde oppure impossibili. È chiaramente in opposizione ad esse che Aristotele guarda favorevolmente sia alla concreta azione politica da parte dei legislatori del passato, sia all’analisi critica delle costituzioni esistenti.
Platone è la fonte di questi criteri di classificazione. La Repubblica (Politeia), oltre a fungere da modello per le utopie di epoca moderna, è l’origine dei parametri con cui sono considerate le politeiai, quando si tiene conto della qualità e della fattibilità del progetto politico.[4] In questo dialogo, Socrate si esprime più volte sulla natura della propria descrizione e sul senso della costruzione in parole di una città. Il significato “utopico” del dialogo si rivela nel rapporto tra il suo personaggio principale, sprovvisto di potere politico, e la sua elaborazione di una città “in parole”.
Per capire le diverse forme in cui viene qualificato il progetto platonico, è necessario tenere presenti i tre distinti modelli costituzionali suggeriti nella Repubblica. Abbiamo, inizialmente, la città “sana”, fondata sulle esigenze naturali degli uomini e sulla diversità del loro operare; sprovvista di funzioni politiche, questa città si basa sulla divisione del lavoro e sullo scambio. Il secondo modello è quello della città giusta, il risultato di un processo di purificazione applicato ad una città che era stata ampliata con l’aggiunta di attività non necessarie, richiedendo per questo motivo la presenza di un gruppo di protezione. Questo secondo modello riceve una rielaborazione nel quinto libro del dialogo, quando la sua trattazione era ormai data per compiuta, essendo ripresa al fine di approfondire l’analisi delle forme di comunanza. Il terzo modello è quello della città governata dai filosofi, identificati con i governanti della città giusta, nel momento in cui si considera il modo in cui potrà essere realizzata. I filosofi assumono un ruolo di governo di cui gli interlocutori socratici erano all’oscuro: essi non sono soltanto richiesti in qualità di legislatori, nel momento di creazione della città e perché essa possa essere fondata, ma vi si insediano permanentemente come governanti. Questo terzo momento costituzionale non è riconosciuto come tale da Socrate, che lo presenta come una conseguenza del ruolo di governo prima attribuito ai guardiani perfetti.
Questi vari momenti della costruzione socratica – la città sana, la città giusta governata dai guardiani perfetti, e infine la città giusta governata dai filosofi – sono diversamente considerati in relazione alla loro possibile realizzazione. Possiamo enucleare alcuni dei temi che ne emergono: la città come racconto (il percorso complessivo di creazione della città nel dialogo), la città vera (il primo modello costituzionale), la città (non) come una preghiera (il secondo e il terzo modello) e, infine, la città come un dipinto (la città governata dai filosofi).[5]
La città come racconto
Così come l’isola di Utopia, così anche la città della Repubblica può presentarsi sotto forma di racconto: lo si dice esplicitamente nel Timeo (26 c), in riferimento al dialogo precedente. Questo mythos, narrato da Socrate, lo vede alle volte come legislatore della città giusta, ovvero, come uomo d’azione. Si tratta quindi della trasformazione della figura del saggio in uomo politico, rovesciando una delle rappresentazioni abituali del filosofo come politicamente inabile. Si confondono, in questo modo, i ruoli del narratore e del personaggio: il narratore dimostra di possedere il sapere necessario per chi deve assumere il potere politico, ciò che è reso evidente nel momento stesso in cui sono descrite le competenze del legislatore.
Questa trasformazione del filosofo in uomo d’azione (che permette di colmare il divario notato nell’ultima delle distinzioni aristoteliche prima menzionate) è, essa stessa, oggetto di discussione nella Repubblica. Nell’immagine (eikon) della caverna (VII, 514 a ss.), il narratore Socrate si relaziona dialetticamente con la figura del filosofo, considerata a partire da un doppio percorso di discesa verso il mondo da cui si era allontanata, il mondo in cui si svolgono le attività politiche.[6] L’individuo liberato dalle catene che lo tenevano legato all’ambito delle percezioni sensibili e delle opinioni – distante quindi dal convivio con gli altri cittadini e dalla vita politica –, non deve rimanere per sempre fuori dalla caverna. Inizialmente, lo vediamo riprendere il posto da lui occupato prima della sua formazione filosofica: mentre cerca di dialogare con i suoi vicini, diviene oggetto di derisione. Il filosofo non è creduto quando parla di ciò che non fa parte dell’esperienza comune, e non è capace, dato il passeggero offuscamento della propria visione, di descrivere adeguatamente il mondo delle ombre. In un secondo momento, invece, Socrate immagina che questo filosofo ritorni nella caverna in quanto uomo d’azione, dotato, quindi, di potere politico, come conviene a chi è capace di conoscere la verità. In questa posizione, il filosofo non è più oggetto delle accuse dei suoi concittadini, salvando se stesso e la città.
Per capire l’immagine della caverna, si deve confrontare la posizione socratica quando presenta il “racconto” della città con i modi di esprimersi del filosofo in questo doppio momento (il “ritorno” nella città mentre possiede o meno potere politico). La narrazione di Socrate nella Repubblica non lo vede dotato di un sapere simile a quello del filosofo nella “seconda” discesa, dato che il suo interesse per la polis non deriva da un potere politico acquisito. Al tempo stesso, la sua situazione non coincide nemmeno con quella del filosofo nella “prima” discesa, perché egli dimostra, con la città formulata nel dialogo, di non avere la vista offuscata nel momento in cui si dedica alla descrizione del mondo delle ombre.
In questo modo, la narrazione socratica determina la posizione del narratore in relazione alla sfera delle azioni politiche. Risponde, cioè, alla doppia questione aristotelica: quale il significato della città auspicata e come giustificare la distanza tra l’autore della politeia e il mondo dell’agire politico. La città costruita nel dialogo salva Socrate dal suo destino, collegandolo a quello dei suoi concittadini. La città come racconto non solo traspone in uno spazio altro un ordinamento giusto che non trova riscontro nella realtà vigente (come faranno molti racconti utopici posteriori, a iniziare da quello di Itlodeo nell’Utopia), ma raffigura un destino diverso per il narratore, rispetto a quello riconosciuto dai lettori del dialogo (diversamente dal narratore di Utopia, quello della Repubblica non è creato in funzione del racconto). Le forme di rappresentazione della città che ora analizzeremo – la città vera, la città come una preghiera e come una pittura – devono essere considerate a partire da questo intreccio narrativo.
La città vera
Socrate caratterizza come vera la prima città delineata nella Repubblica: «ora la vera città a me pare essere quella che abbiamo descritta, per così dire una città sana» (II, 372 e).[7] Si tratta di una città in cui è ancora assente un gruppo di protezione militare o di governo. I suoi abitanti vivono in armonia e si dedicano a poche ed essenziali funzioni, differenziate tra i membri della comunità.
In quale senso questa città, che è lontana da ogni concreta esperienza da parte degli interlocutori, può essere definita “vera”? Probabilmente si suppone che sia vera in quanto “sana”. La salute appare come la verità del corpo, ovvero come ciò che è nel corpo conforme alla natura, mentre la malattia risponde ad uno stato non naturale (anche se ci sono dei processi almeno parzialmente “naturali” di corruzione che danno origine alle forme politiche vigenti). Il rapporto tra l’ordine politico e quello naturale può giustificare l’uso dell’aggettivo “vera”. Ma il dialogo permetterà in seguito di precisare il significato di questo uso, parlando ormai degli altri modelli costituzionali.
Nel quarto libro, Socrate afferma che non si deve creare (in parole) una città in cui non è rispettato il principio di distinzione tra le funzioni di ogni gruppo sociale. Di fronte all’obiezione per cui nella città appena descritta il gruppo dirigente non è reso felice, Socrate inizialmente evoca l’immagine di una statua dipinta con colori appropriati e aggiunge:
Siamo certo capaci di vestire anche i contadini con mantelli purpurei, di incoronarli d’oro e poi di chiedere che coltivino la terra a piacer loro; oppure di far sdraiare i vasai da sinistra a destra, a bere e banchettare davanti al fuoco […] (IV, 420 e – 421 a).
È evidente il rischio di svincolare la costruzione letteraria della città da ogni tratto di veridicità. Non è necessario, tuttavia, richiamarsi ad un qualche principio di realtà, ma piuttosto farsi guidare da un imperativo razionale e naturale. In un mondo siffatto, i contadini non sarebbero contadini, né gli artigiani sarebbero tali – non svolgerebbero, cioè, le funzioni a cui sono predisposti –, e allo stesso modo non sarebbe felice nessun altro gruppo, sia pure descritto come felice. La “vera” città, qualificata come città sana, deve invece attenersi ai precetti di verosimiglianza, come quelli richiesti in una composizione artistica.
L’altro passo della Repubblica a cui si deve riportare l’idea di città vera, distinta da quella in cui vivono i personaggi del dialogo, riguarda la possibilità di realizzare il secondo modello costituzionale. La verità di un discorso non è data dalla sua conformità all’esistente:
È possibile tradurre nella pratica una cosa nel modo in cui è espressa in parole, oppure è nella natura delle cose che la prassi si accosti alla verità meno delle parole, anche se qualcuno non lo crede? (V, 473 a).
La minore distanza che intercorre tra la lexis e la verità, rispetto a quella esistente tra la praxis e la verità, rende imperfetta la trasformazione delle parole in azione (si noti che, con il riferimento a praxis, Socrate evita le ambigutà che sarebbero presenti se parlasse di ciò che “è” o di ciò che è “vero”). Questo significa che si deve ravvicinare il più possibile la praxis alla lexis, senza aspettarsi una piena trasposizione nella sfera dell’agire di ciò che è formulato teoricamente. In questo modo, Socrate si prepara ad effettuare il passaggio tra il modello della città giusta governata dai guardiani verso il modello della città giusta in cui questi guardiani sono identificati con i filosofi. Il ravvicinamento tra modello e realtà si effettua attraverso due immagini su cui torneremo: la “preghiera” e la “pittura”. Sono immagini che prefigurano il campo del futuro pensiero utopico.
Abbiamo quindi un primo significato di “verità” applicato alla città in quanto “conforme alla natura”; un secondo, implicito, come “verosimiglianza”. Possiamo aggiungere a questi un terzo significato, esterno alla Repubblica e di particolare interesse per chi considera questi passi nella prospettiva dell’utopia moderna. In ragione della sua dimensione narrativa, si è potuto pensare al racconto del Timeo come più aderente al futuro genere utopico, rispetto alla città della Repubblica. Ma queste due costruzioni sono messe in relazione alla nozione di verità da Platone stesso. Ora il significato di “vero” equivale a “concreto”, realizzato di fatto e non soltanto in parole:
[…] i cittadini e la città che tu ieri ci hai descritto sotto forma di racconto (hos en mythoi), ora trasporremo nella verità (epi talethes), e supporremo che si tratti di questa nostra città, e i cittadini su cui tu riflettevi diremo che sono quei nostri veri (alethinous) antenati di cui parlava il sacerdote (26 c-d).[8]
La città vera, in corrispondenza con la città nel mythos della Repubblica, pone “in movimento” il modello statico precedente. Essa è vera perché dotata di una posizione concreta in una dimensione “storica”. Lo stesso racconto del Timeo viene d’altronde ribadito come vero. Sappiamo, però, dalla Repubblica che la conoscenza dei tempi remoti richiede discorsi non del tutto veri: la verità storica resta un parametro ambiguo e mai soddisfacente come criterio di costruzione narrativa.[9]
La città come una preghiera
La preghiera (euché), dice Aristotele (De Interpretatione, 17 a), è una forma di discorso né vero né falso. Possiamo aggiungere, però, che essa fa vedere il suo oggetto a partire da una relazione di verità in quanto realtà. Con questo termine, Platone introduce un criterio centrale nella valutazione dei distinti modi di riflessione politica.
È con il secondo modello costituzionale, riconsiderato nel quinto libro della Repubblica, che si presenta il tema della città come una euché. Mentre la prima città – la città sana – risulta da un processo naturale, la seconda, più vicina a quella in cui vivono gli interlocutori del dialogo, crea il problema del suo adeguamento alla realtà. La possibile realizzazione della città giusta è un tema esplicitamente sviluppato da Socrate quando cerca di precisare la nozione di comunità (koinonia), e in particolare nel definire il ruolo delle donne. Una tale discussione richiede che si riprenda dall’inizio il tema della politeia. La difficoltà dell’argomento è dovuta a due fattori: primo, che si tratti di proposte possibili (dynata); secondo, che siano le migliori (arista). Si teme che un tale logos sembri un’euché (V, 450 a-d). Aristotele, che riscontra il discostamento tra proposta e realtà nella visione platonica di comunità, trae da qui il suo stesso criterio interpretativo. Socrate ribadisce che le proposte da lui avanzate non sono impossibili, né costituiscono solo un auspicio, perché sono secondo natura (V, 456 b-c). Il logos secondo natura è, per definizione, possibile e migliore. Inversamente, le forme attuali di comunità, che fanno apparire assurde le formulazioni socratiche, sono contro natura.
Nella scala di valutazione, abbiamo, da una parte, ciò che è migliore, dall’altra, la realtà attuale (ta nun). Le cose migliori (beltista) sono, a loro volta, suddivise tra, da un lato, ciò che è impossibile (to adynaton) e la preghiera (euché), e, dall’altro lato, le cose possibili (ta dynatá) e secondo natura. In simili divisioni, la preghiera passa ad assimilarsi quasi completamente a “ciò che è impossibile”.[10]
Una volta trasformato il modello della città giusta con il governo dei filosofi, Socrate ricorre nuovamente al tema dell’euché. Se fosse impossibile l’attribuzione del potere ai filosofi o la conversione dei governanti alla filosofia, allora sarebbe giustificato deridere una tale proposta, trattandosi soltanto di cose “simili alle preghiere” (499 c). Come nella difesa della condivisione dei ruoli tra uomini e donne, Platone accentua l’apparenza ridicola delle sue proposte. La nozione di euché sembra trarre origine dal rapporto complesso che il testo stabilisce con la scena comica. Come in precedenza, la “preghiera” si ricollega a qualcosa di impossibile. La città in cui il potere è attribuito a chi possiede la vera conoscenza politica deve, invece, potersi collocare nella sfera temporale, sia pure in un momento imprecisato: “nell’infinito tempo passato, o anche oggi […] in qualche regione barbarica a noi ignota per la sua lontananza, oppure […] nel futuro” (VI, 499 c-d). È necessario, perciò, che «la musa stessa domini in una città».[11] Sotto il comando della responsabile dell’ispirazione poetica – quella a cui il poeta rivolge la sua preghiera iniziale – si può affermare che «la costituzione da noi descritta è esistita o esiste o almeno esisterà». I discorsi fatti non sono impossibili, ma soltanto difficili.
In conclusione all’analisi del percorso educativo dei filosofi, preparati costoro per assumere la guida della città, Socrate riprende il tema della città come euché, ancora una volta per negare che tale sia il carattere di quanto «abbiamo detto sulla città e la costituzione». Non si tratta di “preghiere”, bensì di cose possibili, sia pure difficili (VII, 540 d-e). Si noti, però, che non abbiamo qui la semplice riproposizione del tema precedente. Invece di riferirsi all’effettiva gestione del potere nella città governata secondo giustizia, ora Socrate parla di quello che si era proposto all’inizio, e cioè, del modo in cui viene creata la città giusta. Nel momento di creazione, i filosofi al potere (quelli arrivati al potere, e non quelli già educati in una città governata dai filosofi) allontaneranno dalla città tutti gli abitanti con più di dieci anni ed educheranno i bambini rimasti: daranno origine, in questo modo, ad un corpo civico omogeneo, sottoposto, nella sua interezza, al processo educativo e alla differenziazione degli individui secondo natura. Sono evidenti le incongruenze tra questa misura e il progetto precedentemente delineato.[12] L’unica vera risposta alla domanda su come i filosofi potranno non tanto governare la città giusta, ma renderla possibile, finisce per accentuare il divario tra progetto e realtà.
La città come pittura
Tra le immagini con cui Platone rappresenta la politeia nella Repubblica, si deve infine considerare la pittura. Grazie ad essa, Socrate può abilmente affrontare le principali difficoltà di un progetto costituzionale che si discosta in modo vario dalle forme correnti di organizzazione della vita politica. Verità e verosimiglianza, modello e imitazione non sono, però, utilizzati di forma univoca. La città delineata in parole può apparire sia in quanto modello ad essere imitato, sia invece come l’opera risultante dall’atto di imitazione: in un modo come nell’altro, l’immagine permette di cogliere la misura stessa della “utopia” platonica. La nozione di paradeigma può applicarsi sia all’oggetto che deve essere rappresentato dal pittore, sia invece alla rappresentazione ormai compiuta, nel momento in cui è osservata.
Nel Timeo Platone ricorda il progetto della Repubblica nei termini di un’opera pittorica. La città descritta si rassomiglia ad un animale dipinto, il quale a sua volta richiama un vero animale.[13] È ad una tale rappresentazione o ad un tale oggetto rappresentato che si vuole ora conferire movimento. Di fronte alla città descritta, Socrate reagisce come chi, «guardando dei begli animali, che siano raffigurati nella pittura o che, pur realmente viventi, si trovino in una condizione di quiete, senta il desiderio di vederli muoversi e affrontarsi nella lotta che si addice alla loro costituzione fisica» (19 b).
L’immobilità sembra costituire un limite inerente all’arte pittorica, ma in questo caso è estesa alla realtà: il movimento corrisponde alla descrizione “storica” delle attività guerriere, inserite in un contesto temporale preciso. Il progetto della Repubblica è trasferito nell’Atene che lotta contro Atlantide in un passato remoto. Il Timeo trasporrà poi questo movimento dalla città dipinta non solo al mondo storico, ma anche al mondo delle idee, grazie alla discussione sulla genesi del cosmo.
La verosimiglianza è il criterio implicito che motiva il primo riferimento al legislatore come pittore nella Repubblica, all’interno della discussione del secondo modello costituzionale. Come abbiamo notato, Socrate si rifiuta di delineare, in vista della felicità di un gruppo sociale, un quadro politico svincolato dai principi che rendono possibile la comunità. Per giustificarsi, introduce l’immagine dello scultore nell’atto di dipingere la sua opera con colori adeguati ad ogni parte del corpo scolpito (IV, 420 c-d).[14] Non si deve offrire una creazione fantasiosa, in cui la felicità degli individui è affermata indipendentemente dalle funzioni che svolgono all’interno della comunità. Diversamente dal Timeo, ora si tratta di una statua, e non di un dipinto, e viene raffigurato, al posto dell’animale, un uomo. L’animale del Timeo è talmente verosimile che si desidera osservarlo in movimento; qui invece la verosimiglianza si presenta come un elemento restrittivo, rispetto alla bellezza possibile dell’atto pittorico. Questa verosimiglianza è in fondo una condizione di realtà, a limitare la libertà espressiva del creatore.
Tuttavia, è la riflessione sulla possibilità di realizzazione della città giusta – e quindi il terzo modello costituzionale – a imporre con forza l’immagine pittorica. Questo terzo modello di politeia non è presentato da Socrate come diverso da quello precedente, ma il ruolo dei filosofi alla guida della città non era prima reso esplicito. La congiunzione tra potere politico e attività filosofica diventa una condizione per la realizzazione della città giusta. In principio, i filosofi potrebbero essere soltanto i responsabili della creazione di questa città (una città può continuare a vivere per conto proprio una volta instituita da un atto di natura superiore ed eccezionale); essi sono, invece, destinati a governarla finché rimarrà giusta. In più aspetti il quadro ora tracciato altera la precedente esposizione sulla città, nonostante il fine esplicito di Socrate sia soltanto quello di rendere chiare le condizioni per la sua esistenza.
L’esposizione iniziale della tesi dei filosofi governanti è preceduta, però, da un’aggiunta importante ai parametri della riflessione politica: la nozione di modello, paradeigma. Questa nozione è inizialmente applicata all’idea di giustizia: è necessario, per ognuno, rassomigliarsi di più all’uomo perfettamente giusto, per avere una sorte più simile alla sua, e cioè, per raggiungere la felicità. La nozione è presa dal campo pittorico:
Pensi allora che sarebbe meno bravo il pittore che dopo aver dipinto un modello di quel che sarebbe l’uomo più bello, ritraendone ogni parte in modo adeguato, non fosse poi in grado di mostrare che un tal uomo possa davvero esistere? (V, 472 c-d)
Il “modello” non è quindi l’individuo reale che deve essere raffigurato, ma l’immagine stessa, superiore ad ogni individuo reale. In modo simile, la città descritta è come un modello che non trova corrispondenza nella realtà sensibile. Questi dipinti – dell’uomo o della città –, portati a termine a partire da modelli superiori, diventano essi stessi dei modelli per quelli che li possono contemplare: «non possiamo dire anche noi di avere tracciato nel discorso un modello di buona città?» (472 d). La bella opera pittorica ha un valore in sé, indipendentemente dal trovare corrispondenza nel mondo empirico. Socrate aggiunge comunque la possibilità di realizzare questo modello, per mezzo del cambiamento più piccolo necessario (472 e – 473 c). Viene, in questo modo, operata un’inversione rispetto all’ipotesi precedente. Non si parte dal modello di città giusta per cercare di ravvicinarsi ad esso, ma si parte dalle città esistenti per determinare in quale modo esse si possono trasformare nella città giusta.
Con l’accettazione del ruolo del filosofo governante, l’immagine del pittore può assumere la sua piena consistenza. Una volta esaminata la natura dei filosofi, resta oramai chiaro che essi procedono «alla maniera dei pittori» (VI, 484 c-d). Il modello pittorico non si trova, però, nella realtà esteriore, ma nell’anima di simili artisti. È come in un atto interiore che i filosofi pittori rivolgono lo sguardo «verso ciò che è più vero», e così facendo istituiscono «anche quaggiù le norme relative alle cose belle, giuste e buone». Quello che viene istituito “quaggiù” – la vita politica come risultato dell’agire filosofico – è un’opera pittorica. Il dipinto non è più il quadro teorico delineato da Socrate, ma la realtà stessa, nel momento in cui diventa l’oggetto dell’attività artistica dei filosofi governanti.
Non basta, però, che l’idea del governo filosofico sia accolta dagli interlocutori di Socrate: si deve anche considerare il modo in cui la massa dei cittadini potrà accettare una tesi così paradossale. Nel riprendere la nozione di modello pittorico, Socrate introduce due distinte nozioni di imitazione. La prima, per così dire, teatrale: il filosofo contempla le realtà superiori, «ordinate e sempre invariate nella loro identità, che non commettono né subiscono reciprocamente ingiustizia, bensì sono tutte disposte secondo un ordine razionale», e le imita, cercando di rassomigliarsi ad esse (500 c). Gli individui che abitano la città sono come gli attori al teatro, in procinto di dedicarsi all’atto mimetico. Subito dopo, però, si impone l’immagine pittorica, e questi individui si trovano nella posizione del pittore. Il filosofo trasforma la realtà in un’opera pittorica, diventando egli stesso «artefice di moderazione e di giustizia e di ogni pubblica virtù» (500 d-e). La moltitudine si renderà conto che la città non potrebbe essere felice «se non è stata disegnata da questi pittori che si valgono di un modello divino» (501 a). Come conviene alla nozione di modello, esso è l’oggetto esterno a cui il pittore mira nel momento in cui realizza la propria opera. E quest’opera non è essa stessa il modello, bensì ciò che è reso realtà sensibile, concreta, grazie alla trasposizione, da parte dell’artefice, di un modello ideale. La città e i suoi cittadini costituiscono la tavola (pinax) dipinta dai filosofi legislatori-governanti. In quanto pittori, i legislatori devono inizialmente “ripulirla”, poi abbozzarvi lo schema della politeia e, in seguito, perfezionare l’opera, guardando «da un lato verso ciò che per natura è giusto, bello, moderato e così via, dall’altro su ciò che possono realizzarne tra gli uomini, mescolando e impastando le varie forme di vita per ottenerne un colorito umano»: si ottiene, in questo modo, un «bellissimo dipinto (graphé)» (501 a-b). Con l’immagine del pittore di costituzioni (501 c) si possono superare le critiche all’attribuzione del potere ai filosofi.
L’attività dei filosofi governanti, in ogni sua dimensione, è quindi giustificata grazie a questi riferimenti all’arte della pittura. Quando arrivano alla fine della loro carriera, i filosofi nella città giusta passano la maggior parte del tempo a contemplare il bene, ma devono dedicarsi a turno, «quando abbiano visto il bene in sé e siano in grado di valersene da modello», a kosmein – abbellire, ordinare – «la città, i privati cittadini, se stessi» (VII, 540 a). Con la visione del filosofo come un pittore in costante attività, Socrate giustifica sia la costruzione del suo modello politico – ciò che gli permette di kosmein la città –, sia anche l’attività del filosofo che è sprovvisto di questo potere (relativa al kosmein gli altri individui nella loro vita privata).
Si noti che in questo modo si conferma la trasformazione dell’immagine pittorica iniziale, riferita in principio al quadro politico tracciato da Socrate nel dialogo, ma indicando poi il risultato dell’attività pratica dei filosofi nell’esercizio del potere politico. Nel primo caso, corrisponde al progetto “utopico”; nel secondo, al risultato della sua applicazione.
Ma il primo significato – il paradeigma come la costruzione politica delineata in precedenza – ritorna alla fine di questo percorso.[15] La politeia descritta nel dialogo è ancora una volta considerata in relazione alle sue condizioni di esistenza. Di fronte alla constatazione che una tale città non può esistere «da nessuna parte della terra», Socrate attribuisce alla stessa città-dipinto il ruolo di paradeigma:
[La città] forse è posta in cielo come un modello, offerto a chi voglia vederlo, e avendolo di mira insediarvi se stesso. Ma non fa alcuna differenza se essa esista da qualche parte o se esisterà in futuro: egli potrebbe agire solo in vista di questa città e di nessun’altra (IX, 592 a-b).
Una volta conclusa l’esposizione della città “dipinto”, ci troviamo nella posizione di osservatori dell’opera creata. Sarebbe, però, paradossale che, di fronte ad un tale modello imitativo, si possa continuare in un processo infinito di riproduzione: opere che imitiamo nell’atto di comporre altre opere ad essere imitate. Per evitare questo paradosso, Platone introduce un doppio spostamento: il dipinto modello della città non raffigura ciò che è in cielo, ma è posto esso stesso in cielo, occupa cioè la posizione di quelle idee che servivano invece da modello per l’opera pittorica del legislatore. A sua volta, il processo di imitazione conduce l’osservatore a “colonizzare” (katoikizein) la città rappresentata. Se l’immagine dell’animale nel Timeo era composta in modo tale da far sorgere il desiderio di vederla in movimento, quella della città della Repubblica permette al dipinto di essere “abitato”. La città diventa un paradeigma divino e al tempo stesso una realtà: come modello, essa può essere ammirata, come realtà può essere vissuta. L’atto immobile di osservazione viene trasformato in principio pratico, senza che si neghi al modello il suo carattere “utopico”.
Note
[1] La bibliografia sull’utopia antica, e in particolare su Platone, è troppo vasta per essere qui elencata. Ci limitiamo a includere, tra i riferimenti bibliografici finali, i lavori che più abbiamo tenuto presenti nella preparazione di questo saggio: in particolare, per Platone, gli studi di L. Bertelli, D. Dawson, C. Quarta e M. Vegetti (oppure più recentemente quello di D.R. Morrison). Per la discussione sulla ricezione del pensiero platonico in quanto utopistico basta qui rinviare a M. Vegetti, Un paradigma in cielo, Carocci, Roma, 2009. Per la nozione di modello pittorico si veda, dal punto di vista artistico, S. Halliwell, The Aesthetics of Mimesis, Princeton University Press, Princeton, 2002, cap. IV. Per il rapporto tra l’Utopia di Tommaso Moro e quella platonica si consideri ancora il lavoro classico di B. Bradshaw, More on Utopia, in «The Historical Journal», 24, 1981, pp. 1-27 (con la discussione delle letture di J. H. Hexter e di Q. Skinner); per brevi e più recenti considerazioni cfr., ad es., C. Houston, The Renaissance Utopia, Ashgate, Farnham, 2014, pp. 25-30. Sempre su questo tema, ma prendendo in considerazione anche le letture del tema utopico effettuate nel “nuovo mondo”, si veda M.G. Moraes Augusto, „Politeía e Utopia: o caso platônico”, in Kleos, 16-17 (2012-2013), pp. 103-51.
[2] Tradurremo in seguito politeia come “costituzione”, senza potere approfondire le difficoltà che si pongono di volta in volta per questa o altre traduzioni. Si noti che, nell’indicare la politeia come oggetto di discorso, Aristotele restringe, in questo passo, il campo di analisi: non si tratta di individui che diedero pareri specifici attinenti alla polis, come fanno gli uomini politici; nemmeno di individui che si espressero in generale sulla politica, come conoscenza o come forma dell’agire, come, ad esempio, Platone nel Politico, o Aristotele stesso nell’Etica Nicomachea (opere che includono delle teorie costituzionali, ma che non fanno corrispondere ad esse il campo generale della riflessione politica).
[3] Aristotele probabilmente pensa a questi termini come riferiti ad un solo individuo: filosofi che sono uomini politici. Cfr. Platone, Timeo, 19 e 20 a. Si veda anche il riferimento aristotelico, in Politica, III, 1279b15, all’approccio filosofico nell’indagine sulle politeiai, considerato positivamente e contrapposto a quello di chi osserva le politeiai dal punto di vista dell’agire (prattein).
[4] Non è possibile qui considerare i parametri con cui viene proposta la città delle Leggi, e in modo particolare, la distinzione tra prima e seconda città (e anche la “terza”, probabilmente riferita alle città vigenti): cfr. Leggi, V, 739 a-e.
[5] Si deve escludere, invece, l’idea della città come un “sogno”: il termine enypnion, in Repubblica, IV, 443 b, è riferito al tentativo di definire la giustizia, e non alla creazione della città.
[6] Ho approfondito l’analisi di questo tema in „La doppia discesa del filosofo. Una lettura politica della caverna platonica”, in La Cultura, LV, 2017, n. 1, pp. 51-73.
[7] Qui e avanti seguiremo la traduzione della Repubblica a cura di M. Vegetti, Rizzoli, Milano, 2006, alle volte leggermente modificata.
[8] Cito il Timeo dalla trad. di F. Fronterotta, Rizzoli, Milano, 2003 (leggermente modificata). In principio al dialogo (17 c), Socrate fa riferimento ai discorsi presentati nella Repubblica come «i discorsi da me tenuti sulla politeia […] quale apparisse a mio avviso la migliore e di quali uomini dovesse essere composta».
[9] Repubblica, II, 382 d (per i racconti verosimili sul passato remoto); nella prima parte del processo educativo dei guardiani nella Repubblica si accentuano i limiti del criterio di verità (II, 377 a ss.).
[10] Si noti che il tema della possibilità e della superiorità della politeia accomuna la presentazione del secondo e del terzo modello costituzionale della Repubblica, impedendo che si crei una rigida separazione nella struttura dialogica.
[11] Il riferimento alle muse è naturalmente omerico ed è reso esplicito in VIII, 545 d-e.
[12] Ad esempio: il processo educativo sarebbe comune a tutti i cittadini, la comunità di funzioni tra uomini e donne sarebbe estesa a tutta la comunità, e così anche la proprietà comune dei beni.
[13] Questo passaggio è reso possibile dall’accostamento implicito tra i termini zographia, pittura, e zoon, animale.
[14] Si tratta del passo che abbiamo sopra menzionato, a cui segue la descrizione fantasiosa della città dei contadini banchettanti.
[15] Si deve notare che l’immagine della politeia come dipinto non è, tuttavia, riferita soltanto alla sua forma giusta. Essa ricompare anche nella descrizione di una forma ingiusta, nel caso della città timocratica: cfr. Repubblica, VIII, 548c-d.
Bibliografia
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