Coordonat de Florin GRECU & Aurelia PERU-BĂLAN
Volum V, Nr. 1 (15), Serie nouă, 2017
Riforma costituzionale in Italia: occasione mancata o pericolo scampato?
(Constitutional reform in Italy: missed a shot or avoided danger?)
Giulia CHIELLI
Abstract: The essay analitytically retraces the highlights of a topical issue in Italy over the last few months: the proposal of the constitutional reform presented by the Prime Minister Matteo Renzi, that divided the nation between for and against positions.
Keywords: Constitution, Reform, Referendum, Bicameralism, Parliament.
L’acceso dibattito che ha caratterizzato il clima politico italiano di fine 2016 si è spento il 4 dicembre con il referendum che ha bocciato la proposta di riforma costituzionale fortemente voluta del governo Renzi e che ha provocato le dimissioni dello stesso Presidente del Consiglio.
L’elettorato non ha esitato a dichiarare la vittoria del fronte del No, un fronte composito e disomogeneo che vedeva eccezionalmente schierati fianco a fianco esponenti dell’ala sinistra del Partito Democratico e varie forze di opposizione, di destra e non, che per varie ragione non si sono riconosciute nel nuovo progetto politico che la riforma costituzionale delineava. Alla vigilia del voto il Paese appariva spaccato tanto quanto il Parlamento tra coloro che appoggiavano la riforma in nome del cambiamento e dell’uscita dall’ immobilismo e coloro che invece temevano i possibili risvolti del nuovo assetto istituzionale che in determinate condizioni (come l’adozione di una legge elettorale ad effetti fortemente maggioritari[1] che la maggioranza aveva approvato ponendo la fiducia in Parlamento) avrebbe consentito la creazione di un esecutivo forte.
Il percorso della riforma è stato travagliato e ha presentato delle anomalie che hanno alimentato le aspre critiche rivolte dall’opposizione sia al contenuto del testo sia alle procedure adottate per approvarlo. In particolare è stato contestato l’accordo tra il principale partito di governo (Partito Democratico)[2] e uno dei principali partiti d’opposizione (Forza Italia)[3] che avrebbe definito il contenuto della riforma e che si sarebbe successivamente sostanziato nel voto favorevole di FI in Parlamento (l’appoggio è poi venuto a mancare a causa di dissidi riguardanti l’elezione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella). Il testo della riforma è stato, per questo, a lungo tacciato di essere un compromesso tra due forze partitiche che la storia repubblicana italiana aveva inesorabilmente decretato incompatibili. Ma, se questo ha consentito agli esponenti del PD di giustificare l’accordo richiamandosi ad un rinato spirito costituente, gli esponenti di FI hanno invece dovuto sconfessare successivamente la riforma che pure avevano, una prima volta, votato, adducendo come giustificazione le modifiche che, nei vari passaggi dalla Camera al Senato, sono state apportate al testo di riforma e l’approvazione di una nuova legge elettorale[4] la cui storia è stata legata a quella della riforma.
Altro tema controverso è stato il modus operandi del governo che ha presentato il disegno di legge contenente la riforma. A questo proposito molti hanno sostenuto che sarebbe stato opportuno che un progetto di riforma così ampio fosse presentato non dall’esecutivo ma dal Parlamento (e anche a questo riguardo c’è stato chi ha fatto presente che un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale come la legge n. 270 del 21 dicembre 2015[5], non avrebbe dovuto riformare la Carta Costituzionale in maniera così incisiva).
Tuttavia, sebbene nel dibattito politico questi temi non siano mai passati in secondo piano, le motivazioni principali che i fautori del No hanno addotto sono altre.
La riforma prevedeva la modifica di ben 47 articoli su un totale di 139 e si proponeva di riformare il sistema di bicameralismo perfetto trasformando il Senato della Repubblica in una camera delle autonomie, di modificare le modalità di conferimento della fiducia parlamentare al governo, di modificare le modalità di elezione del Presidente della Repubblica, di eliminare il CNEL, di riformare gli articoli riguardanti il referendum e le leggi di iniziativa popolare , di riformulare i rapporti tra Stato e enti locali e di rivedere i meccanismi di elezione dei giudici della Corte Costituzionale.
Dal bicameralismo paritario al Senato delle autonomie
Il bicameralismo paritario era stato statuito all’indomani della Seconda Guerra Mondiale con l’approvazione della Costituzione. In realtà, già nel 1948, esso aveva lasciato molti insoddisfatti e si era cercato di riformarlo diverse volte ottenendo, però, sempre un nulla di fatto. La principale critica al bicameralismo paritario deriva dalla situazione di empasse politico che il cosiddetto ping pong[6] dei disegni di legge tra le due camere determinerebbe. Pertanto il progetto di riforma prevedeva il superamento dell’anzidetto sistema e la trasformazione del Senato in una Camera in cui sarebbero state rappresentate le istituzioni territoriali e che avrebbe avuto «funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione Europea»[7]. Il nuovo Senato, dunque, si sarebbe distinto dal precedente tanto per la composizione quanto per le funzioni. In particolare sarebbe stato ridotto il numero dei senatori da trecentoquindici a cento dei quali «novantacinque rappresentativi delle istituzioni territoriali» e «cinque che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica»[8].
La questione della riduzione del numero dei senatori è stata fondamentale nel dibattito che ha preceduto l’appuntamento elettorale. I fautori del Sì hanno infatti evidenziato la riduzione dei costi che sarebbe derivata da questa modifica. A questo, però, il fronte del No ha contrapposto un secondo aspetto legato a chi avrebbe fatto parte del nuovo Senato. Il testo di riforma avrebbe, infatti, abrogato l’art. 58 della Costituzione che prevede l’elezione diretta dei senatori istituendo un procedimento diverso: i Senatori sarebbero stati eletti dai consigli regionali (e dai consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano) fra i propri componenti e fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori. Ciò ha sollevato le critiche di coloro che hanno visto nel nuovo Senato una Camera di nominati i quali avrebbero goduto dell’immunità parlamentare.
Anche le funzioni della nuova Camera sarebbero state diverse dalle precedenti. L’art.70 della Costituzione, che prevede l’esercizio della funzione legislativa da parte delle due camere, sarebbe stato modificato prevedendo che la funzione legislativa rimanesse appannaggio delle due Camere solo nei casi espressamente previsti[9]. Il Senato avrebbe, inoltre, avuto la possibilità di esaminare i disegni di legge e di deliberare proposte di modifica del testo sulle quali la Camera dei deputati si sarebbe dovuta pronunciare. L’articolo 70 della riforma è stato, senza dubbio, uno dei più contestati. E’ stato ritenuto poco chiaro ed eccessivamente lungo; i critici hanno evidenziato una semplificazione dell’iter legislativo solo di facciata, iter che si scopre, in realtà, variegato e possibile fonte di conflitti di competenze fra le due Camere, pertanto non si sarebbe ottenuto quell’effetto di semplificazione che i sostenitori del Sì si erano proposti come obiettivo principale. I fautori della riforma, da canto loro, hanno riconosciuto che la nuova formulazione dell’art. 70 risulta lunga, ma hanno difeso questa caratteristica sostenendo che «il nuovo testo sarà lungo e brutto ma serve a distinguere con precisione le 14 leggi che restano bicamerali dalle altre. Per farlo bisogna individuarle una per una»[10]. Un’altra modifica avrebbe riguardato l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale. L’articolo 135 della Costituzione prevede che il Parlamento in seduta comune elegga un terzo dei giudici della Corte; il testo di riforma prevedeva, invece, l’elezione di tre giudici da parte della Camera dei Deputati e di due giudici da parte del Senato[11].
Se la riforma fosse stata confermata dal referendum, dunque, si sarebbe avuta la nascita di un sistema bicamerale non paritario che avrebbe visto una Camera, quella dei deputati, che sostanzialmente manteneva inalterate le sue prerogative e che sarebbe stata la sola a dare la fiducia al governo, e da una seconda Camera, quella del Senato, eletta dai Consigli regionali che avrebbe esercitato la funzione legislativa insieme con la Camera dei deputati solo per alcune specifiche leggi e che non avrebbe più dato la fiducia al governo; d’altro canto avrebbe avuto funzioni di controllo sulla Camera dei Deputati e di rappresentanza delle realtà territoriali.
La tutela delle minoranze
Tra i temi di dibattito più affrontati merita di essere menzionato quello della tutela delle minoranze che la nuova Costituzione avrebbe garantito. La modifica dell’articolo 64 prevedeva l’introduzione di un obbligo di tutela dei diritti delle minoranze parlamentari e l’introduzione di uno statuto delle opposizioni disciplinato dal regolamento della Camera dei Deputati. Si è trattato, per i critici, dell’ennesimo specchietto per le allodole: i regolamenti rispettosi di quest’obbligo sarebbero dovuti essere approvati a maggioranza; in questo modo la tutela delle opposizioni sarebbe dipesa dalla volontà di una maggioranza politica. Per i sostenitori si sarebbe trattato, invece, di un enorme passo avanti in quanto sarebbe stato istituito un diritto, prima assente, a cui le minoranze avrebbero potuto appellarsi.
Referendum e leggi di iniziativa popolare
I tempi in cui la gran parte degli italiani partecipava attivamente alla vita politica sono lontani. Si registra oggi una sfiducia nelle istituzioni che raramente ha coinvolto una così ampia maggioranza di cittadini. La partecipazione politica è andata scemando seguendo un trend negativo che si è sostanziato in un crescente astensionismo alle elezioni. Inevitabile la presa di coscienza da parte di rappresentanti di partiti e istituzioni. Proprio a riguardo di ciò i nuovi costituenti avevano ideato alcuni strumenti che avrebbero dovuto riavvicinare i cittadini alla politica. Nel progetto di riforma costituzionale gli articoli 71 e 75 si proponevano di modificare gli istituti del referendum e delle leggi di iniziativa popolare.
Le leggi di iniziativa popolare sono nate, nelle intenzioni dei Padri Costituenti, come uno strumento atto a coinvolgere i cittadini nella vita politica. Sebbene si tratti di una possibilità rilevante nelle mani della popolazione, di fatto le leggi di iniziativa popolare arrivate alla conclusione dell’iter legislativo sono state pochissime; la maggior parte non è stata nemmeno discussa in sede parlamentare. Per essere presentata, una proposta di legge di iniziativa popolare necessita la raccolta di 50.000 firme. Il testo di riforma costituzionale prevedeva un aumento del numero di firme necessarie che sarebbero dovute essere 150.000. Alle inevitabili critiche di chi lamentava l’apposizione di un ulteriore ostacolo sulla strada della sovranità popolare, i nuovi costituenti hanno contrapposto l’imposizione di un termine perentorio (per la definizione del quale si rimanda a successivi regolamenti) per la discussione delle anzidette leggi, discussione a carico delle Camere che sarebbe diventata un obbligo.
Per ciò che concerne il referendum, in Italia è consentito il referendum abrogativo[12] (che prevede, per essere valido, la partecipazione alla competizione referendaria del 50% più uno degli aventi diritto) e, per le leggi costituzionali, il referendum confermativo[13] (che non prevede il raggiungimento di alcun quorum). Il referendum abrogativo avrebbe subito modifiche nel nuovo testo costituzionale; l’obbligo del raggiungimento del quorum sarebbe venuto meno se la proposta soggetta a referendum fosse stata approvata dalla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni alla Camera dei Deputati, se avanzata da ottocentomila elettori. L’approvazione del nuovo testo costituzionale avrebbe introdotto i referendum popolari propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione[14]. Per le modalità di attuazione si sarebbe rinviato ad una legge approvata da entrambe le camere.
La contestata modifica dell’articolo 72
Particolarmente dibattuta è stata la formulazione dell’articolo 72 che ha allarmato soprattutto chi temeva che il nuovo assetto costituzionale potesse indirettamente favorire derive autoritarie. L’anzidetto articolo 72 della Costituzione disciplina l’iter legislativo. Il dibattito è stato legato, in particolar modo, alla legge elettorale da poco approvata (Legge 6 Maggio 2015 n. 52 nota come Italicum). Secondo i fautori di questa tesi, il combinato disposto legge elettorale-riforma costituzionale avrebbe potuto rappresentare un pericolo per il regime democratico. Per quanto riguarda, invece, il testo della riforma, l’unico articolo che avrebbe variato i poteri dell’esecutivo sarebbe stato l’articolo 72. Il governo avrebbe potuto «chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo» fosse «iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione»[15] (sarebbero rimaste escluse, comunque, da questo procedimento accelerato, le leggi più importanti e quelle in cui sarebbe stato richiesto il voto tanto della Camera dei Deputati, quanto del Senato). Per i sostenitori del No si sarebbe trattato di un’ingerenza dell’esecutivo nell’agenda parlamentare che avrebbe fatto sì che il Parlamento assumesse un ruolo ancillare nei confronti del governo. Secondo i sostenitori del Sì, invece, questo strumento avrebbe ridotto l’utilizzo da parte del governo di decreti e fiducie garantendo, in ogni caso, al Parlamento di svolgere il suo ruolo in assoluta libertà e avrebbe consentito all’esecutivo di perseguire con maggiore efficacia i suoi obbiettivi evitando di procrastinare alcuni provvedimenti ritenuti necessari. Un rafforzamento del governo, se anche ci fosse stato, sarebbe stato in quest’ottica giustificato da una maggiore velocità ed efficienza.
Abolizione del Cnel
Il tema dell’abolizione del CNEL[16] (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) è stato quello che ha incontrato il favore anche di alcuni esponenti del comitato per il No. L’organo, istituito nel 1957, si compone dei rappresentanti delle categorie economiche. Nato con funzione di raccordo tra le parti sociali, ha ruolo di consulenza delle Camere e del governo e ha il potere d’iniziativa legislativa[17]. De facto la rilevanza di quest’organo è sempre stata inferiore alle aspettative e, pertanto, la volontà di abolirlo si era già manifestata in precedenza. La proposta di soppressione del Cnel è assurta a esempio virtuoso di taglio degli sprechi di cui si sono fregiati i relatori della riforma. Sebbene questo punto del testo abbia convinto anche alcuni sostenitori del No, non sono mancati, tra questi, coloro che hanno tacciato di demagogia il provvedimento sostenendo che il risparmio ottenuto fosse irrisorio nel bilancio statale e che sarebbe stato più opportuno riformare l’organo garantendone il funzionamento piuttosto che abolire, insieme all’organo, anche alcune sue funzioni che possono ancora ritenersi di rilievo. La natura demagogica del provvedimento di soppressione del Cnel è stata evidenziata da chi ha sottolineato che per dare risalto alla disposizione, questa sia stata aggiunta anche nel quesito referendario[18]. Tuttavia, sebbene in molti abbiano concordato con l’abolizione del Cnel, questo non è apparso un motivo sufficiente per schierarsi al fianco dei sostenitori della riforma costituzionale.
Elezione del Presidente della Repubblica
L’elezione del Presidente della Repubblica[19] è, secondo l’articolo 83 della Costituzione, appannaggio del Parlamento in seduta comune integrato da membri eletti dai Consigli regionali. Il Parlamento che sarebbe nato dalla riforma costituzionale avrebbe avuto una composizione ben differente rispetto a quella che ha caratterizzato i primi settant’anni di vita della Repubblica. La modifica dei criteri riguardanti la maggioranza necessaria per eleggere il capo dello Stato, unita a quella che avrebbe riguardato il nuovo Senato, ha creato tensioni. L’art 83 della Costituzione prevede che, ai fini dell’elezione del Capo di Stato, sia necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea e, a partire dal terzo scrutinio, la maggioranza assoluta. Se la riforma fosse stata approvata dai cittadini, invece, la maggioranza dei due terzi sarebbe stata necessaria fino al terzo scrutinio, dal quarto sarebbe servita una maggioranza dei tre quinti dell’assemblea e, dal settimo scrutinio, sarebbe bastata una maggioranza dei tre quinti dei votanti[20]. Il voto sarebbe stato valido se fossero stati presenti la metà più uno degli aventi diritto. Il criterio della maggioranza dei votanti in luogo di quella degli aventi diritto ha fatto sì che alcuni temessero che la forza che avesse detenuto la maggioranza alla Camera dei Deputati avrebbe potuto eleggere da sola il Presidente della Repubblica. Questo timore deriva prima di tutto dal numero ridotto del plenum del Parlamento che la riforma avrebbe introdotto. Il numero dei deputati sarebbe rimasto quello di 630, il numero dei senatori, invece, sarebbe sceso da 315 a 100, per un totale di 730 parlamentari; dunque il voto sarebbe stato valido se in aula fossero stati presenti 367 parlamentari. A questo punto torna in gioco la questione della legge elettorale. Una legge ad effetti maggioritari, come l’Italicum (che assegna 340 seggi al vincitore delle elezioni politiche), avrebbe consentito ad una maggioranza compatta (e, comunque, sempre nell’eventualità poco probabile di un Aventino delle opposizioni) di eleggere il capo dello Stato con appena 221 voti al settimo scrutinio. La querelle tra chi ha scritto e difeso la riforma e chi ha visto in questa disposizione un altro elemento di scarso rispetto della bilancia tocquevilliana tra poteri e contropoteri, è stata minimizzata dai primi i quali hanno sottolineato l’estrema improbabilità che le opposizioni disertino un appuntamento tanto importante quale quello dell’elezione del Presidente della Repubblica. Inoltre questa disposizione ha contribuito ad alimentare le tensioni, talvolta interne alla maggioranza stessa, per la modifica della legge elettorale.
Modifica dell’articolo 117
La questione del rapporto tra lo Stato e le regioni è di vecchia data. Si sono sempre contrapposte due visioni, l’una centralista, l’altra regionalista, quest’ultima si impose nel momento della stesura della Costituzione ma si dovette aspettare il 1970 per dare effettivamente attuazione ai dettami costituzionali che riguardavano le regioni. A riprova di tale difficoltà, la parte della Costituzione che si occupa degli enti regionali è stata rimaneggiata già nel 2001 e il tema continua a riproporsi ogni volta che sorge un conflitto di competenze davanti alla Corte Costituzionale. Si è pensato, per alcuni anni, che il modo più efficace per risolvere definitivamente la questione fosse quello di garantire una maggiore autonomia delle regioni e fu questo il filo conduttore della legge costituzionale che modificò il Titolo V della Costituzione[21]. Attraverso questa riforma è stata statuita una distinzione tra le materie di competenza regionale, le materie di competenza statale e le materie di legislazione concorrente. Tramontato, però, il mito federalista, sono emersi tutti i limiti di una impostazione che nei fatti si tramutava in continui conflitti di competenze tra Stato e regioni e in disparità di servizi per i cittadini dovute all’appartenenza all’una o all’altra regione. Il cambio di rotta si sarebbe sostanziato nella nuova formulazione dell’articolo 117 di impostazione centralista. Questo avrebbe previsto l’eliminazione delle materie di legislazione concorrente e l’attribuzione della gran parte di queste alla esclusiva competenza statale. La competenza residuale delle regioni prevista dal vigente articolo 117 sarebbe stata sostituita da una esplicita previsione delle materie riservate agli enti regionali. Se la necessità di rivedere la separazione delle competenze tra l’apparato centrale e quelli periferici era sentita da tutti, ha destato preoccupazione la cosiddetta “clausola di salvaguardia”[22] attraverso la quale il governo si sarebbe riservato la possibilità che la legge statale sostituisse quella regionale anche nelle materie di competenza delle regioni quando lo avesse richiesto «la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Il nuovo assetto delineato dalla riforma è stato difeso da quanti ritengono sia necessario limitare le spinte autonomistiche delle regioni per ottenere più uniformità di trattamento dei cittadini ed evitare contenziosi costituzionali; un maggiore centralismo era sembrato la ricetta contro un regionalismo che si era dimostrato fallace. D’altro canto, la “clausola di salvaguardia” ha fatto temere che non potesse più esprimersi pienamente quell’autonomia regionale garantita dalla Costituzione.
Conclusioni
Il testo di riforma costituzionale è stato approvato dal Parlamento il 12 Aprile 2016. La Costituzione prevede che le leggi costituzionali e quelle di riforma costituzionale possano essere sottoposte a referendum popolare qualora siano state approvate nella seconda votazione, da entrambe le Camere, con una maggioranza che non raggiunge i due terzi dei componenti[23]. In virtù di questa norma, si è svolta la consultazione popolare il 4 dicembre 2016 e il progetto di riforma è stato bocciato con una percentuale di No che è arrivata al 60%. La sconfitta è in parte dovuta ad un errore politico del Presidente del Consiglio Renzi il quale, fin dall’inizio, ha personalizzato l’appuntamento elettorale legando la sua permanenza come capo del governo all’esito del referendum. Ciò ha consentito il coalizzarsi di un fronte politico per il No molto ampio che vedeva tra le sue fila tanto esponenti di destra quanto esponenti di sinistra e ha fatto in modo che il dibattito si spostasse, talvolta, su temi estranei a quelli inerenti alla Costituzione. Così, quello che doveva essere un plebiscito a favore del presidente si è trasformato in una occasione per rovesciare il governo. Il malcontento, probabilmente non percepito dalla classe politica, si è espresso con tutto il suo vigore portando alle urne anche i cittadini che avevano smesso di votare tanto che l’affluenza ha superato il 68% degli aventi diritto. Ma, il segnale più forte è arrivato dal sud Italia che si è mobilitato in massa per il No. L’esito del referendum, l’elevata affluenza alle urne e gli errori politici di chi ha condotto la campagna elettorale mostrano che la disaffezione dei cittadini alla politica sarà difficilmente combattuta con meccanismi di ingegneria costituzionale dal momento che le aspettative della popolazione sono rivolte verso una classe politica che sia in grado, finalmente, di individuare le giuste risposte alle richieste del Paese.
Bibliografia:
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Resurse juridice:
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Presă, reviste:
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GRANDI, Alfiero, „Interviu”, La Repubblica , 30 Novembre 2016.
MARCO, De E., „Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro”, în Enciclopedia del Diritto Aggiornamento, Milano, 1999.
ZAGREBELSKY, G., MARCENÒ, V., PALLANTE, F., Lineamenti di diritto costituzionale, Le Monnier, Firenze 2014.
Note
[1] Nella Carta costituzionale il sistema proporzionale non è stato mai inserito dai padri costituenti per il timore che quanto accaduto nella Repubblica di Weimar potesse ripetersi. Su questi aspetti si veda P. Pombeni, La rappresentanza politica, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano, Donzelli, Roma, 1995, pp.112-23 e E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti. La formazione del nuovo ordinamento elettorale nel periodo costituente, Comunità, Milano, 1982.
[2] Partito Democratico, partito di centro-sinistra, fondato nel 2007. Nato dalle ceneri dei vecchi partiti DS (Democratici di Sinistra) e Margherita, a loro volta eredi rispettivamente del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, si colloca a livello europeo nell’area che fa capo al Partito Socialista Europeo. Sulle vicende riguardanti il PD si veda: Racinaro R., Salvati M., Scoppola P., (a cura di), Sul partito democratico. Opinioni a confronto, Guida, Napoli 2007; M. Calise, Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza, Roma-Bari, 2013; S. Gentili, Dal Pd al Partito democratico. Un’identità di sinistra, Bordeaux Edizioni, Roma, 2013.
[3]La storia di Forza Italia, partito di centro-destra, prende le mosse nel 1994 quando fu fondato dall’allora presidente di Fininvest (grande gruppo aziendale che comprende tre reti televisive, la proprietà di quotidiani e vari rotocalchi, svariate partecipazioni in attività edilizie e finanziarie), Silvio Berlusconi. Dopo un lasso di tempo di circa quindici anni che l’ha visto protagonista nel panorama politico italiano, FI si è sciolto nel 2009 per dare spazio alla nuova formazione politica denominata Popolo delle Libertà (che aveva visto confluire tra le sue file gli esponenti di Forza Italia e quelli di Alleanza Nazionale, guidati da Gianfranco Fini). Nel 2013, finita l’esperienza del Popolo delle Libertà, viene rifondato Forza Italia che riprende il nome e il simbolo del vecchio partito; immutata resta anche la leadership, saldamente nelle mani di Silvio Berlusconi. Sulla storia di Forza Italia cfr. E. Poli, Forza Italia. Struttura, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna, 2001; C. Moroni, Da Forza Italia al Popolo della Libertà, Carocci, Roma 2008; P. Ignazi, Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo, il Mulino, Bologna, 2014.
[4] Legge 6 Maggio 2015 n. 52, conosciuta come Italicum. In previsione della riforma del sistema bicamerale paritario, la legge elettorale in questione aveva previsto meccanismi di elezione solo per la Camera dei Deputati. La legge è stata sottoposta a giudizio di legittimità costituzionale e dichiarata parzialmente illegittima per le parti che riguardano il turno di ballottaggio (legittimo è, invece, il premio di maggioranza per la lista che ottiene il 40%) e la possibilità peri i capilista bloccati, eletti in più collegi, di scegliere il collegio di elezione a loro discrezione.
[5] Legge n. 270 del 21 dicembre2005, conosciuta come Porcellum, nome che deriva dalla dichiarazione del suo stesso autore che l’aveva definita una «porcata». La legge è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2014.
[6] Per ping pong si intende il meccanismo (definito anche navetta) di rinvio del testo di legge da una Camera all’altra fino all’approvazione dell’identico dettato legislativo.
[7] Art. 55, comma V, nel testo di riforma Renzi-Boschi , , http://www.altalex.com/documents/news/2016/04/13/riforma-costituzionale-il-testo (accessed 12.02.2017)
[8] Ibidem, Art. 57 , comma I.
[9] Ibidem, Art. 70, comma I, nel testo di riforma Renzi-Boschi: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’unione Europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.»
[10] Roberto Bin, in La Repubblica, mercoledì 30 novembre 2016.
[11] Art. 135, comma I, nel testo di riforma Renzi-Boschi, cit..
[12] Art. 75, Cost. op.cit.
[13] Ibidem, Art. 138, co. II e III.
[14] Art. 71, co. IV, nel testo di riforma Renzi-Boschi, op.cit.
[15] Ibidem, Art. 72, co. VII, nel testo di riforma Renzi-Boschi.
[16] Sul ruolo e le funzioni del CNEL si veda: S. Galeotti, Per un potenziamento funzionale del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, in Diritto e Società, 1980, p. 415 e ss.; E. De Marco, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, in Enciclopedia del Diritto Aggiornamento III 1999, Milano p. 455 e ss..
[17] Art. 99, Cost., op.cit.
[18] Alfiero Grandi, intervista a La Repubblica del 30 Novembre 2016.
[19] Sull’elezione del Presidente della Repubblica si vedano: P. Armaroli, L’elezione del Presidente della Repubblica in Italia, CEDAM, Milano 1977; G. Zagrebelsky, V. Marcenò, F. Pallante, Lineamenti di diritto costituzionale, Le Monnier, Firenze 2014, pp. 384 e ss..
[20] Art. 83, co. II, nel testo di riforma Renzi-Boschi, op.cit.
[21] Legge costituzionale n. 3 del 2001, http://www.parlamento.it/parlam/leggi/01003lc.htm.
[22] Art. 117, co. 4, nel testo di riforma Renzi-Boschi, op.cit.
[23] Art. 138, Costituzione, op.cit.