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Sul confine. Letteratura europea tra identità e alterità
On the border. European Literature between Identity and Alterity
Leonardo TERRUSI
Abstract. The theme of European identity, seen from the perspective of literature, on the one hand deals with a series of theoretical and historiographical questions: is there a literary identity of Europe? how can we write an History of European literature? On the other, we can find ideological and linguistic signs of European identity inside of literary texts, also in a dialectical relationship with Alterity. This is verified here with the literary figure of the ‘Moor’ in a short story by Giovan Battista Giraldi Cinzio, and with the theme of the East in Invisible Cities by Italo Calvino.
Keywords: identity, alterity, Moor, Giovan Battista Giraldi Cinzio, Italo Calvino
Volendo abbordare il tema dell’identità europea dal punto di vista della letteratura, si profilano immediatamente due campi di indagine separati, anche se, ça va sans dire, strettamente connessi. Da una parte, esso può declinarsi infatti in una serie di problematiche di carattere teorico e storiografico, compendiabili in alcune elementari domande: si può fare una storia unitaria della letteratura europea, individuandone aspetti e tratti comuni, un Canone di autori e testi, un insieme unitario di pratiche e tradizioni? E ancora, è necessario vincolare l’accezione di letteratura europea a una precisa localizzazione territoriale (la letteratura dell’Europa o nell’Europa), o si può invece estenderla a quella prodotta in continenti diversi, ma legata a generi e stilemi originariamente occidentali? Dall’altra, studiare l’identità europea sub specie letteraria può significare cercarne le tracce all’interno dei singoli autori e testi; prassi anch’essa non esente da una serie di questioni problematiche: quali concreti segni, di tipo ideologico e linguistico, poter considerare come indicatori identitari? a partire da quale epoca e in che modo essa si manifesta in letteratura? con quali differenze (e discriminazioni) rispetto all’attuale identità ‘europea’?
Già questa serie di interrogativi, neppure esaustivi, mostrano l’incombere di questioni dalla portata ancor più radicale. A partire da un aspetto cronologico di non irrilevante significato: quale momento considerare come terminus a quo per un discorso sull’identità europea, o, insomma, quando davvero la parola Europa assume un’accezione più ampia di quella meramente geografica? Un campo, questo, in cui ancora di recente Chris Wickham ha introdotto un’impetuosa ventata polemica, contestando la consolidata idée reçue che le radici identitarie d’Europa risalgano sin all’Alto Medioevo[1]. D’altronde, anche l’opinione, in qualche modo opposta, che solo a partire dall’età moderna sorgano davvero valori comuni a tutto il continente, troverebbe certo obiezioni in chi ritiene invece che essa non possa che essersi sedimentata in una ben più longue durée, risalendo sino ad Omero e Cicerone e poi alla sintesi cristiano-medievale.
Non sarà in realtà superfluo persino chiedersi se davvero si possa parlare di identità europea e, in caso affermativo, in che cosa essa davvero consista: domanda quanto mai attuale e urgente, e la cui discussione esorbiterebbe certo dai limiti di questo intervento. Ma può in realtà affacciarsi un dubbio ancor più radicale, tale da investire la liceità stessa del concetto di identità, sempre più spesso attorniato dal sospetto di essere ambiguo o scarsamente significativo[2]. «Anche l’identità dipende», scrive Francesco Remotti, «dipende non solo dal nome, ma da un insieme di atteggiamenti e di scelte», più che «inerire all’essenza di un oggetto»; da qui, dunque, la necessità di «abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità, per adottarne invece una di tipo convenzionalistico»[3]; o, se si preferisce, con Zygmunt Bauman, di riconsiderarla secondo una modalità ‘liquida’, mutevole e continuamente soggetta a revisioni e ristrutturazioni[4].
Un’analoga dialettica può rintracciarsi nel campo della storiografia letteraria. Da una parte, potrà forse eleggersi a emblema dell’idea dell’identità monolitica e direttamente connessa col passato la Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter di Ernest Robert Curtius[5], il cui più lontano archetipo è stato individuato da Franco Moretti nella Cristianità di Novalis, mentre Roberto Antonelli ne ha messo in luce la natura di risposta, in tal senso ‘militante’, alla disgregazione e alla krisis culturale dell’Europa dei totalitarismi[6]. Altri, al contrario (discesi per li rami di una tradizione che lo stesso Moretti fa rimontare a Guizot), vedono l’identità europea, pur non negata, fondarsi invece sulla discontinuità e sulla cesura rispetto al passato, e assumere dunque una forma plurale e policentrica, concependola insomma «come una sorta di arcipelago: un insieme di spazi (nazionali) ognuno dei quali produce una (e una sola) mutazione formale»[7]. Moretti cita Barraclough, Chabod e Morin come esempi 900eschi della tesi discontinuista, cui si dovrebbero certo aggiungere, sul piano specificamente storico-letterario, il Paul Zumthor di Leggere il medioevo e l’Hans Robert Jauss di Alterità e modernità nella letteratura medievale. Ma già Erich Auerbach o Thomas S. Eliot ritenevano che l’identità letteraria europea, piuttosto che discendere da una lineare eredità classico-cristiana, rimontava a un incontro-scontro o a un dialogo tra le queste diverse componenti[8]. Un’idea, quest’ultima, che ha trovato spazio sempre maggiore nel dibattito interno agli studi letterari, accompagnando la singolare parabola della Europäische Literatur in Italia: prima sostanzialmente ignorata se non ingloriosamente stroncata (ad esempio da Croce e Petronio); poi, dopo l’edizione italiana del 1992 a cura di Roberto Antonelli, divenuta quasi onnipresente nel bagaglio bibliografico dello studioso tipo degli ultimi decenni; oggi, oggetto di una ricezione più critica e problematica proprio in ragione della monolitica fede in un’identità europea unitaria, che viene percepita per lo più come un limite dell’opera di Curtius[9].
Sullo sfondo di questo mutamento s’intravede certo l’influenza di un background postmoderno e, per così dire, di pensiero debole, caratterizzato dall’affacciarsi di istanze di globalizzazione (o glocalizzazione) e dalla crisi dell’idea di un Canone unico. Ma un potente elemento destabilizzante nella definizione dell’oggetto Letteratura europea è costituito, nello specifico, dalla prospettiva degli studi postcoloniali, che, partendo dalle incursioni di Edward Said (con l’ormai classico Orientalism)[10], hanno rimesso in discussione i fondamenti dell’identità occidentale e i suoi rapporti con l’Altro, l’‘Oriente’, di cui Said rivelava la natura di topos discorsivo e proiezione mentale dello stesso Occidente. Il risultato è stato dunque quello di ‘provincializzare l’Europa’, per parafrasare il titolo di un saggio di Dipesh Chakrabarty[11], spodestandola insomma dal centro mondiale su cui (abusivamente) si sarebbe insediata, e dislocandola in un complesso reticolo relazionale con le altre culture, dominato dall’ibridazione e dal meticciato. E in questa prospettiva, se pure se ne ammetta l’esistenza, il concetto stesso di letteratura europea, come scrive Mario Domenichelli, può apparire persino «pericoloso, totalizzante se non si supera la vecchia idea di Kultur, o di Weltliteratur comunque eurocentrica, per aprirsi alle interrogazioni della multietnicità e del multiculturalismo»[12].
Se quello che si è sinora delineato rappresenta il dibattito storiografico e teorico relativo al tema, un diverso modo di approcciare la questione consiste nel ricercare le tracce dell’identità europea sub specie testuale, nel corpo concreto di opere e di fenomeni linguistici e retorici. Un esempio eminente di questo approccio è, anche in questo caso, l’Europäische Literatur di Curtius, dedicata a rintracciare i topoi (tematici o discorsivi) comuni alla tradizione mediolatina, e insomma ‘i luoghi comuni che fecero l’Europa’, per parafrasare il titolo di una recensione di Cesare Segre alla traduzione italiana dell’opera[13]. Per fare un altro esempio macroscopico, si pensi ai motivi e alle ideologie veicolate dal romanzo, genere spesso considerato come luogo privilegiato dello ‘spirito europeo’ (la cui essenza, scrive Milan Kundera, sarebbe appunto «deposta come in uno scrigno d’argento dentro la storia del romanzo»[14]). Esiste tuttavia la possibilità, forse più suggestiva, anche alla luce di quanto si è detto sopra, di concentrarsi semmai sul suo ‘negativo’, cioè sulle forme e le modalità con cui nei testi letterari si manifesta la figura del ‘non europeo’, che funge in sostanza da sponda e limite per delineare lo stesso profilo identitario occidentale. Si tratta, com’è evidente, di una concezione di alterità che si appoggia alla riflessione filosofica di autori come Emmanuel Lévinas, in cui tale concetto assume il valore di ‘trascendenza dell’io’ attraverso un dialogo con l’Altro (anzi con l’autrui, per dirla con l’autore)[15]; o Michel Foucault, la cui riflessione è tutta attraversata (segnatamente nelle Parole e le cose) dall’«interrogazione sul limite, inteso innanzitutto quale linea di demarcazione e di correlazione tra identità e alterità»[16]; o ancora, per citare soltanto un altro referente di questo discorso, Pierre Bourdieu, con la sua ‘distinzione’ tra alterità, intesa come mera percezione dell’Altro, e differenza, che richiede invece procedure di astrazione, ordinamento e classificazione specifiche, fondate su una «‘fabbricazione’ a partire da alcuni dati relativi la cui unicità viene enfatizzata (‘esagerata’) allo scopo di determinare in senso ‘unico’ l’oggetto preso in considerazione»[17]. E insomma, se l’identità si costruisce anche (o soprattutto?) attraverso una dialettica con l’altro da sé, il montaliano «ciò che non siamo e ciò che non vogliamo», l’indagine potrà legittimamente dirigersi in questa direzione.
In questa chiave, uno specimen interessante è offerto dalla complessa dialettica che ruota attorno alla presenza, linguistica e ideologica, del Moro nella letteratura umanistico-rinascimentale: in quanto lessema, caratterizzato da una connaturata polisemia[18], che giustifica a sua volta la varietà di incarnazioni narrative della corrispondente figura, dal moro ‘barbaro e crudele’ a quello ‘nobile e magnanimo’, in particolare nella novellistica 4-500esca, in cui ad accenti di rifiuto e di paura si alterna una prospettiva più favorevole e aperta nei suoi confronti, com’è stato messo in rilievo da una ormai solida tradizione di studi critici sul tema[19]. Si proverà qui a verificarlo analizzando la celebre storia del ‘moro di Venezia’; ma non nella versione del celeberrimo play shakespeariano, a cui corre subito il pensiero, bensì in quella del suo ‘prototesto’ italiano, la settima novella della Deca III degli Ecatommiti di Giovan Battista Giraldi Cinzio, raccolta pubblicata nel 1565 dopo una gestazione decennale, e incentrata su una cornice o ‘storia portante’ che alla peste decameroniana sostituisce il sacco di Roma del 1527 (evento capitale, manco a dirlo, per l’identità cristiano-occidentale), dal quale appunto la brigata dei narratori decide di allontanarsi per mare, trascorrendo il lungo e periglioso tempo della navigazione in dialoghi e novelle[20]. A parte Disdemona, tutti i personaggi sono nella novella designati con epiteti generici: il Capitano Moro (colui che diverrà Othello), l’Alfieri (il futuro Iago), sua moglie (Emilia), il Capo di Squadra (poi Michael Cassio); anche qui la donna è vittima della gelosia del marito, subornato dall’insinuazione dell’Alfieri che la moglie lo tradisca con il Capo di Squadra; ma a distinguerla dal futuro sviluppo tragico è il dettaglio che sia qui lo stesso Alfieri a sopprimerla materialmente, con la complicità solo passiva del Moro, il quale del resto non si suicida, come nella tragedia, ma è ucciso dai parenti della moglie, dopo essere stato esiliato dai veneziani (al servizio dei quali era come comandante della guarnigione di ‘Cipri’).
Anche quest’ultimo aspetto contribuisce almeno parzialmente ad alleggerire il giudizio morale sul protagonista, la cui figura, come sostiene Karina Feliciano Attar, presenta tratti tali da fare della novella un’esplorazione degli stereotipi etnici circolanti nell’immaginario del XVI sec., esprimendo da una parte le ansie sugli incontri interculturali (il ‘matrimonio interetnico’ tra Disdemona e il Moro[21]) nel contesto dell’espansione Ottomana nell’Europa coeva; dall’altra, piuttosto che limitarsi a mettere in guardia contro le differenze pericolose, allerta il lettore su quelli che sono più vicini e simili a noi stessi, insomma su coloro che dovrebbero essere gli ‘alfieri’ ˗ è il caso di dire ˗ della nostra identità[22]. Si potrà aggiungere che il protagonista sembra soggetto a un’evoluzione, nell’arco del racconto, tra i due poli evocati da Bourdieu, scorrendo cioè della mera percezione iniziale di un’alterità alla sanzione finale di una differenza[23]. All’inizio del racconto, infatti, la caratterizzazione etnica del Moro, nonostante l’apparente eloquenza dell’epiteto che lo designa (utilizzato tuttavia come un normale nome proprio)[24], sembra neutralizzata ˗ nelle parole del narratore Curzio cui il racconto è delegato (secondo il consueto meccanismo novellistico), come anche, si sospetta, nella prospettiva dell’autore ˗ dall’assenza di qualunque riferimento a un’effettiva differenza razziale o religiosa. Anzi, dopo aver sottolineato il suo valore militare e morale, che lo aveva reso «molto caro a que’ signori» (veneziani), il narratore sottolinea come Disdemona si fosse innamorata di lui «tratta non da appetito donnesco, ma dalla virtù» sua, smentendo così lo stereotipo del richiamo sessuale esercitato dai ‘mori’ sulle donne europee[25]. E altrettanto neutrale appare nel riportare un’esclamazione rivolta dal moro alla moglie, all’apice della felicità coniugale: «Iddio ci conservi lungamente in questa amorevolezza»; in cui è evidente il proposito di evitare di marcare di quale ‘Dio’ si tratti (quello dei cristiani o quello dei musulmani?), cauterizzando così la differenza religiosa di cui il personaggio sarebbe portatore agli occhi del coevo Lettore Ideale (italiano e cristiano) della novella. Una prospettiva che sarà totalmente ribaltata, come si vedrà, nel corso del racconto, culminando nell’epilogo con il significativo accostamento all’epiteto usuale del personaggio di quello più connotato di barbaro: «I signori veneziani, intesa la crudeltà usata dal barbaro in una lor cittadina, fecero dar delle mani addosso al moro in Cipri e condurlo a Venezia» (58).
In base a quanto si è detto sinora, quello del Moro giraldiano sembrerebbe costituire un classico caso di ‘stereotipizzazione’, di un’identità cioè prodotta dallo ‘sguardo degli altri’, come illustrato dal celebre apoftegma sartriano: «è l’antisemita che fa l’ebreo»[26]. Ma più significativo è che l’evoluzione di cui si è parlato non pertenga in questo caso solo alla prospettiva dell’autore o dei personaggi che attorniano il protagonista, ma si consumi nella stessa coscienza di quest’ultimo: è cioè il Moro stesso ad aderire gradualmente ai pregiudizi veicolati dall’epiteto che lo designa. Le tappe di questa graduale involuzione si consumano all’ombra della sua «leggerezza» e credulità (altro blasone negativo ascritto ai mori[27]), su cui fanno leva le trame dell’Alfieri. Apparentemente, è Disdemona a cedere per prima a uno stereotipo razziale, nel momento in cui, notando i segni incipienti della gelosia del marito verso il Capo di squadra, un tempo suo caro amico, ricorre al pregiudizio sulla natura irascibile e passionale dei mori: «voi mori sete di natura tanto caldi ch’ogni poco di cosa vi move ad ira e a vendetta» (21). Eppure, la successiva sua reazione di stupore nel vedere il marito adirarsi ancor più svela quanto tale cliché le fosse in sostanza estraneo, e come il Moro, fino a quel momento, ne fosse rimasto almeno ai suoi occhi lontano[28]. A restarne imbrigliato è in realtà il Moro stesso, proprio nell’inverare il luogo comune dell’iracondia ‘moresca’: «A queste parole più irato rispose il moro» (ivi). Ma la vera svolta cade nel punto in cui l’Alfieri, come argomento decisivo per far esplodere la gelosia del Capitano, insinua che Disdemona lo avesse tradito perché le era «venuta a noia questa vostra nerezza» (23): perché stanca, insomma, del suo essere Moro, si potrebbe commentare. Parole che danno corpo a un pregiudizio razziale, ma che, nonostante la loro falsità, commenta il narratore, «passarono il core al Moro insino alle radici» (24). È così che da questo punto in poi il Moro sembra arrendersi, aderendovi, a tutti i tratti del cliché di differenza ‘fabbricato’, per dirla ancora con Bourdieu, intorno a lui: nel convincersi che la moglie lo avesse trattato davvero da ‘moro’ (e cioè che la sua fosse in realtà un’infatuazione passeggera, in ciò conforme allo stereotipo dell’«appetito donnesco» verso la fisicità esotica dei mori); nell’abbandonarsi a quell’iracondia che si dice tipica dei mori; e ancora, e forse soprattutto, nel dare stoltamente credito alle insinuazioni dell’Alfieri, conformandosi in tal modo all’ingenuità moresca.
Più che aderire alla nozione di identità stereotipa ‘esterna’ à la Sartre, il caso del moro giraldiano è dunque più vicino, se si vuole restare nei paraggi dell’esistenzialismo francese, all’idea resa da un’altrettanto celebre frase di Simone de Beauvoir, che esplica la potente influenza degli stereotipi sull’edificazione della stessa identità ‘interna’ (in quel caso femminile): «donne non si nasce, lo si diventa»[29]. Ma il caso si presterebbe, a fortiori, a illustrare le riflessioni di Frantz Fanon sull’interiorizzazione, da parte dei popoli colonizzati, dei pregiudizi e miti del dominatore, esemplificati, dallo psichiatra di origine martinicana, con la ‘negrofobia’ e il conseguente conflitto interiore dei discendenti di schiavi antillani, in cui paradossalmente s’instillava «lo stesso inconscio collettivo dell’europeo»[30]. Una condizione che sembra riflettere quella del valoroso capitano Moro.
Illustrando le sue Città invisibili, in un saggio destinato poi a fungere da Presentazione del libro, Italo Calvino si soffermava a lungo sulla sua genesi e struttura, finché, quasi colto da una sorta di repentino esprit d’escalier, riconosceva: «Non ho ancora detto la cosa che avrei dovuto dire per prima: Le città invisibili si presenta come una serie di relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Kan»[31]. Non si trattava di una dimenticanza da poco: la finzione del libro consiste in effetti nel succedersi delle paradossali descrizioni fatte dal viaggiatore veneziano all’imperatore di cinquantacinque città orientali, ripartite, cinque alla volta, in undici serie tematiche (Le città e la memoria, Le città e il desiderio, ecc.), secondo un rigido criterio combinatorio-matematico. La pur momentanea rimozione d’autore della fictio primaria del viaggio orientale trova in verità un omologo nella stessa critica, che ha per lo più trascurato di valutare il peso che nell’opera ha l’ambientazione orientale, e per la quale anzi, come scrive Cristina della Colletta, è divenuto quasi luogo comune «affermare che le Città invisibili non evocano il levante, ma descrivono piuttosto universali città dell’immaginazione e dell’irrealtà»[32]. Le città calviniane sono certo, dichiaratamente, ‘luoghi mentali’, tanto per la voce narrante[33], quanto per la prospettiva d’autore, per il quale esse divengono occasione per intrecciare un serrato dialogo, pur volutamente aperto, frammentario e paradossale, con la contemporaneità occidentale, sul piano teoretico-linguistico, filosofico, narratologico, ma anche su quello della realtà urbanistica, politica e sociale di fine Novecento. Semplificando, ogni città diviene ‘figura’ di un tema cruciale per la cultura occidentale, cui agganciare suggestioni leggibili, e così infatti lette, in plurime direzioni allegoriche[34]. Si delinea così una sorta di vademecum ‘postmoderno’ dei caratteri fondamentali dell’identità occidentale, che con l’evocazione dell’Oriente favoloso, confinata all’interno della ‘cornice’ che ospita i dialoghi di Marco e Kublai, sembrerebbero avere poco a che fare. Eppure, come forse intendeva suggerire lo stesso Calvino con la precisazione citata in apertura di paragrafo, non era in realtà irrilevante che tutto ciò fosse realizzato attraverso l’adozione del palinsesto poliano, archetipo di ogni rappresentazione letteraria dell’Altro e di tutta la tradizione ‘orientalista’, si dirà con Said, ovvero dell’immagine che dell’Oriente ha fabbricato la letteratura occidentale. Ancora la Presentazione calviniana ricordava[35]:
Adesso l’Oriente è un tema che va lasciato ai competenti, e io non sono tale. Ma in tutti i secoli ci sono stati poeti e scrittori che sono ispirati al Milione come a una scenografia fantastica ed esotica […] Solo Le Mille e una notte possono vantare una sorte simile: libri che diventano come continenti immaginari in cui altre opere letterarie troveranno il loro spazio; continenti dell’‘altrove’, oggi che l’‘altrove’ si può dire che non esista più, e tutto il mondo tende a uniformarsi.
È dunque un viaggio nell’Oriente, inteso come archetipo dell’altrove/alterità, quello delle Città, un altrove scaturito, quale sua proiezione ‘interna’, dallo stesso immaginario occidentale, come conferma l’onomastica delle città, carica di estenuate suggestioni letterarie, tra le quali spicca quella rinviante alle turqueries librettistiche ’7-’800esche (ad esemplificare la quale basterebbe la copiosa serie di nomi in Z-: Zaira, Zenobia, Zemrude, Zirma, Zobeide, Zora), che mostrano appunto come quelli delle Città non sono l’Oriente e il Medioevo tout court, ma una delle modalità con cui tali categorie sono raffigurate in una certa tradizione occidentale[36]. Non sarà ininfluente a questo proposito la constatazione che ad incombere, dichiaratamente, dietro ognuna della città orientali descritte da Marco sia la sua Venezia: «Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia […] Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia» (p. 88)[37]. Al di là anche delle complesse valenze psicoanalitiche che può assumere questa Venezia-madre[38] (e dello stesso suo valore di archetipo cronotopico di ogni vicenda fondata sull’incontro tra Oriente e Occidente), la circostanza varrebbe a confermare quanto sinora si è detto: come l’alterità si riflette sempre nell’identità (e viceversa), così dietro le città orientali (l’Altro) si cela sempre qualcosa di qualcosa di sé (Venezia), un po’ come avverrebbe in uno specchio. A ulteriore sostegno di questa lettura, si noterà che sull’intero libro di Calvino sembra incombere, più ancora che la nozione di utopia (pur certamente presente all’autore[39]), quella di eterotopie. Ciò che Michel Foucault, nella Prefazione de Le parole e le cose (1966), definiva come luoghi reali (a differenza delle utopie), ma che, come poi precisava lo stesso filosofo, «costituiscono una sorta di contro-luoghi», «luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili […] luoghi che sono assolutamente altro da tutti i luoghi che li riflettono e di cui parlano»[40]; come, ad esempio, uno specchio, luogo che ci fa vedere dove non siamo partendo da dove siamo. E cos’altro sono che le Città di Calvino[41], se non, appunto, ‘specchi’ orientali in cui l’identità occidentale si proietta? Un’interpretazione che trova una sorta di autoesplicativa mise en abyme nelle parole pronunciate da Marco a Kubilai: «L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà» (p. 27).
Ma questa frase fornisce forse anche un’epigrafica sintesi del tema che si è qui indagato sotto l’ottica di due specimina (Giraldi e Calvino) quanto mai distanti, ma altrettanto eloquenti ad illustrare alcune delle modalità con cui la letteratura riflette sul rapporto tra identità europea e sua alterità.
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Note.
[1] C. Wickham, L’eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C, Laterza, Roma-Bari, 2015.
[2] R. Brubaker, F. Cooper, Beyond ‘identity’, Theory and Society, 29 (2000), pp. 1-47.
[3] F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 5.
[4] Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari, 2005; Id., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[5] «Quest’opera intende cogliere la letteratura europea come un tutto unico, e fondare tale unità sulla tradizione latina»: così la recensiva infatti Erich Auerbach (citato in Moretti, La letteratura europea, cit., p. 2).
[6] Cfr. rispettivamente Moretti, La letteratura europea, cit., pp. 1-2; R. Antonelli, Filologia e modernità, in E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze, 2000 [1a ed. 1992], pp. vii-xxxiv.
[7] Cfr. F. Moretti, La letteratura europea, in P. Anderson, M. Aymard, P. Bairoch, W. Barberis, C. Ginzburg (edd.), Storia d’Europa, I. L’Europa oggi, Einaudi, Torino, 1993 (Piccola Biblioteca on line), p. 11.
[8] Su questi cfr. R. Antonelli, La letteratura europea ieri, oggi, domani, «Critica del testo», X (2007), 1, pp. 9-40.
[9] Per avere un’idea di tale approccio ‘dissacrante’, si vedano gli interventi raccolti in I. Paccagnella, E. Gregori (edd.), E. R. Curtius e l’identità culturale dell’Europa, Atti del XXXVII Convegno Interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 13-16 luglio 2009), Esedra, Padova, 2011.
[10] E. Said, Orientalism, Vintage-Random, New York, 1979.
[11] D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial thought and historical difference, Princeton University Press, Princeton-Oxford, 2000.
[12] M. Domenichelli, Il canone letterario europeo, in XXI secolo. Comunicare e rappresentare, diretto da T. Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2009, pp. 65-75. Ma cfr. anche M. Fusillo, Europa / Mondo: raccontare la letteratura oggi, in P. Boitani, M. Fusillo (edd.), Letteratura europea, UTET, Torino, 2014, vol. 1, pp. 31-39.
[13] C. Segre, Quei luoghi comuni che fecero l’Europa, «Corriere della sera», 24.12.1992.
[14] Su questa linea, ad esempio, P. Di Stefano, Scoprire nei romanzi l’identità europea, «Corriere della sera», 13.04.2014, da cui la citazione kunderiana.
[15] Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Lévinas. Alterità e trascendenza, Rosemberg & Sellier, Torino,
[16] Cfr. su questo V. Sorrentino, Michel Foucault: il limite, l’altro, la libertà, «Lo Sguardo», 4 (2010).
[17] P. Bourdieu, La distinzione, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 466.
[18] Etimologicamente disceso da mauru(m) ‘abitante della Mauritania’ (a sua volta dal gr. (a)maurós e màuros ‘scuro’), come sost. il termine, originariamente usato, al plurale, per indicare gli ‘arabi di Spagna’, assume il valore generico di ‘saraceni, musulmani’ all’altezza del primo Furioso (1516), ma come agg. già a fine ’400 ha valore di ‘africano’ (Masuccio), ‘servo o schiavo negro’ (Macinghi Strozzi), o ‘musulmano’ (Luca Pulci): cfr. M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna, 1998, vol. 3 (I-N), e W. Schweickard, Deonomasticon Italicum. Derivati da nomi geografici, vol. 3 (M-Q), Walter de Gruyter, Berlin, New York, 2009, s v.
[19] Cfr. ad esempio R. Girardi, Raccontare l’Altro. L’Oriente islamico nella novella italiana da Boccaccio a Bandello, Liguori, Napoli, 2012; P. Pucci, Barbari fratelli: identità cristiane e mussulmane nelle novelle del Bandello, «Italian Quarterly», 45 (2008), pp. 5-19; Id., «La vertù ancora appresso ai barbari è onorata»: limiti all’incontro interreligioso nelle novelle di Bandello e gli Ecatommiti di Giraldi Cinzio, «Forum Italicum», 45 (2011), 1, pp. 5-31.
[20] Per tutto, cfr. S. Villari, Introduzione all’edizione a sua cura: G. B. Giraldi Cinzio, Gli Ecatommiti, Salerno Editrice, Roma, 2012, t. I, p. xxiii (da qui tutte le citazioni della novella, pp. 612-26).
[21] Significativo è il timore da Disdemona manifestato alla moglie dell’Alfieri, che dal fallimento della sua unione «le donne italiane imparino di non si accompagnare con uomo, cui la natura e il cielo e il modo della vita disgiunge da noi» (39): affermazione in cui non si legge tanto il cedimento del personaggio (e dell’autore) ai pregiudizi contro le unioni interetniche, quanto il disappunto per la loro possibile riemersione.
[22] K. Feliciano Attar, Genealogy of a Character: A Reading of Giraldi’s Moor, in L. Tosi, S. Bassi (edd.) Visions of Venice in Shakespeare, Farnham and Burlington, Ashgate, 2011, pp. 47-64.
[23] Analogamente Pucci, «La vertù», p. 8, applica le categorie di distinzione e gerarchizzazione per l’identificazione del foreign a due altre novelle giraldiane incentrate sul rapporto tra cristiani e musulmani.
[24] Senza voler riprendere l’ipotesi, avanzata a proposito della versione shakespeariana, che si trattasse appunto di un cognome, ‘Moro’ (R. L. Brown, Ragguagli sulla vita e sulle opere di Marin Sanuto, Alvisopoli, Venezia, 1837, vol. 1, nota 94, pp. 226-35), si noterà il valore allocutivo neutro con cui lo usa Disdemona, nei discorsi diretti o quando parla di lui in terza persona; non a caso del resto la princeps e le edd. antiche lo riportano costantemente con la maiuscola. Sull’onomastica della novella mi permetto di rinviare al mio Disdemona e il Moro: il destino in un nome e un nome mancato, «il Nome nel testo», XVI (2014), pp. 369-78.
[25] Su cui cfr. F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’Altro, Tropea, Milano, 1996, p. 148.
[26] J. P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Edizioni di Comunità, Milano, 1982, p. 50.
[27] Si veda ad esempio la nov. I 4 degli stessi Ecatommiti, in cui l’ingenuo protagonista è soprannominato Africano, «cognome che al suo proprio nome si confacea».
[28] Cfr. su questo Feliciano Attar, Genealogy, cit.
[29] S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 15.
[30] Cfr. Fanon, Pelle nera, cit., pp. 158 e 163-64.
[31] I. Calvino, Presentazione a Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1993, pp. vii-viii (corsivo mio; da questa edizione proverranno tutte le citazioni).
[32] C. della Colletta, L’Oriente tra ripetizione e differenza nelle Città invisibili di Italo Calvino, «Studi novecenteschi», XXIV (1997), pp. 411-31: 413.
[33] «Confessa cosa contrabbandi», rinfaccia Kublai a Marco, «stati d’animo, stati di grazia, elegie!» (p. 442).
[34] Cfr. ad esempio M. Zancan, Le città invisibili di Italo Calvino, in Letteratura italiana, Le Opere, IV, Il Novecento, II, La ricerca letteraria, Einaudi, Torino, 1996, pp. 875-929.
[35] Calvino, Presentazione, cit., p. viii.
[36] Ho trattato questo tema in I nomi non importano. Funzioni e strategie onomastiche nella tradizione letterarie italiana, ETS, Pisa, 2012 (cap. XII, Il ‘grado zero’ onomastica delle Città invisibili di Italo Calvino, pp. 195-217).
[37] Cfr. su questo anche della Colletta pp. 418-19, che riprende il concetto di ‘ripetizione platonica’ di Deleuze: Venezia è l’originale di cui le altre città sono copia (o meglio ‘simulacri’ di una Venezia assente: ivi, pp. 422-23).
[38] Cfr. su questo A. Frasson-Marin, Structures, signes et images dans Les villes invisibles de Italo Calvino, «Revue des études italiennes», 23 (1977), pp. 23-48: 28.
[39] Cfr. P. Kuon, Critica, e progetto dell’utopia: Le città invisibili di Italo Calvino, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (edd.), La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino, Mondadori, Mondadori, 2002, pp. 24-41, che ne rimarca l’accezione critica in Calvino.
[40] Cfr. rispettivamente M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano, 1985 [1966], p. 5; e Id. Eterotopia, luoghi e non luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 1994, pp. 9-20: 14 [1967]. Non casuale che il filosofo introducesse il concetto citando la reazione di sconcerto dinanzi al paradossale elenco che Borges in Altre inquisizioni diceva tratto da «una certa enciclopedia cinese»: ovvero dall’Oriente favoloso, «una regione precisa», concludeva Foucault, «il cui solo nome costituisce per l’Occidente un grande serbatoio d’utopie».
[41] Cfr. B. McHale, Postmodernist Fiction, Routledge, London, New York, 1987, p. 44: «The empire of Calvino’s Great Khan is just such a heterotopia».