Volume V, Issue 4(18), New series, september – november 2017

Populismo e neoliberismo

(Populism and Neoliberalism)

Angelo CHIELLI

Abstract: What is the relationship between populism and neo-liberalism? The press and most analysts argue there is a substantial incompatibility between the two ideological currents.

The essay wished to show, on the contrary, that there is a continuity relationship between them and that to fully understand the novelty of today’s populism with respect to the past experiences of the past century (especially Russian and American populism) it has to be analyzed by capturing the affinities between them.

Keywords: populism, neo-liberalism, ideological currents, Russia, USA.

 

 

Uno dei termini più abusati nel dibattito politico contemporaneo è sicuramente quello di populismo.1 L’espressione è adoperata in modo così ampio che risulta complesso delimitarne i confini concettuali.2 Nel linguaggio politico e giornalistico odierno, esso è polemicamente adoperato per sottolineare una distanza, un atteggiamento fortemente critico, al limite del disprezzo intellettuale, nei confronti di coloro che non condividono le politiche neoliberali e restrittive che, soprattutto in ambito continentale, sono state attuate dalle autorità centrali dell’Unione Europea, dalla maggioranza degli stati membri e delle forze politiche. Queste ultime, in particolare, hanno presentato le proprie scelte come frutto di una razionalità unica ed esclusiva, legittimate dal ricorso ad una tecnica da questa direttamente discendente. In modo conforme a questa rappresentazione di se stesse, gli avversari non posso che essere apostrofati negativamente, come demagoghi e avventurieri. E’ manifesta una contrapposizione tra una razionalità strumentale opposta alla irrazionalità demagogica.Questa opposizione ne richiama, immediatamente, un’altra, alla prima equivalente, tra responsabilità contro irresponsabilità che sposta lo scontro dal terreno della presenza-assenza di una razionalità politico-funzionale a quello morale.

Questa indeterminatezza concettuale è stata da alcuni autori esplicitamente fatta propria tanto che, ad esempio, Marco Revelli lo ha definito come “uno stato d’animo. Un mood. La forma interiore che assume un disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale”.3

Neppure la storia ci aiuta a comprendere più precisamente il significato attuale di populismo. Storicamente le due esperienze storiche rilevanti sono il populismo russo e quello americano, entrambe sviluppatesi, nella forma più evoluta, nella seconda metà dell’Ottocento

Il populismo russo fu un movimento rilevante della storia culturale, politica e ideologica russa della seconda età dell’Ottocento.4 Fenomeno essenzialmente intellettuale, esso anticipò lo sviluppo delle socialismo nell’immenso e arretrato impero zarista. Caratteristica del populismo russo fu la fiducia nelle possibilità di riscatto delle sterminate masse contadine, condizione questa che avrebbe consentito la rinascita complessiva del paese. Ma soprattutto, i populisti rifiutavano di applicare alla storia e alla società russa i modelli di sviluppo economico e di emancipazione sociale che si stavano sperimentando in Europa, preferendo attingere alle fonti propriamente slave.

Indubbiamente, il merito principale di questo movimento fu quello di porre in modo esplicito, e per la prima volta,il problema riguardante il modo in cui i paesi “ritardatari”  dal punto di vista dello sviluppo industriale – ovviamente, ritardataririspetto alle potenze industriali europee, in primis Inghilterra e Francia –avrebbero affrontato il problema della modernizzazione, poiché essi si trovavano in una situazione diversa rispetto ai paesi che avevano già conosciuto, sin dalla seconda metà del XVII secolo, l’affermazione del capitalismo e della nascente industria moderna. I populisti sostennero che i paesi arretrati si trovavanoin condizioni anomali “create dalla coesistenza con i paesi a capitalismo avanzato, e tentarono di elaborare la teoria di una modernizzazione socialista di tali paesi “.5

Da questo punto di vista si può sostenere che il populismo non fu una reazione solo allo sviluppo del capitalismo nel paese ma fu, al contempo, una reazione al socialismo occidentale e al marxismo. Quest’ultimo, infatti, almeno in alcune sue linee interpretative, ipotizzava la necessità dello sviluppo del capitalismo come premessa necessaria per innescare processi rivoluzionari. Il marxismo apparve, così, agli occhi di alcuni intellettuali populisti, come un fervido sostenitore dello sviluppo capitalistico della Russia, con tutto ciò che questo avrebbe potuto comportare dal punto di vista degli enormi costi sociali che le masse contadine avrebbero dovuto sopportare.

Lo stesso Walicki sottolinea, però, che il rapporto tra marxismo e populismo non può essere inteso solo in termini di opposizione, infatti “tale opinione è troppo semplicistica e superficiale. Il rapporto tra populismo russo e il marxismo fu assai più complesso e dialettico, e i populisti non si limitarono a opporsi al marxismo, ma ne subirono anche profondamente l’influsso” .6

I populisti accettarono la critica di Marx alla democrazia politica borghese, ma non condivisero mai la sua visione evoluzionistica, ovvero, l’idea che il capitalismo rappresentasse comunque un passo in avanti rispetto all’antico regime. L’interpretazione populista del capitalismo fu essenzialmente non marxista in quanto lo consideravano non un progresso ma un regresso della storia dell’umanità.

Negli Stati Uniti il populismo conobbe, negli ultimi decenni dell’Ottocento, un considerevole sviluppo e asunse caratteristiche che, in parte, ritroveremo nei similari movimenti sorti a cavallo tra il XX e XXI secolo.

Queste correnti polico-ideologiche trovarono un fertile terreno in cui germinare quando la filosofia romantica tedesca fu accolta negli Stati Uniti sotto forma di un trascendentalismo che però, poco o nulla, aveva a che fare con quello kantiano in quanto postulava una dimensione spirituale che, appunto, trascendeva il mondo fisico, e attingibile per mezzo di un approccio intuitivo. Il ricorso all’intuizione quale strumento principale, se non esclusivo, della conoscenza rendeva superfluo ricorso alle fastidiose argomentazioni discorsive e alle lungaggini delle dimostrazioni logiche. Discendeva da questo assunto teorico un atteggiamento pratico in cui la libertà è concepita come assenza di vincoli, ritenuti intralci al pieno dispiegamento della personalità.

Forte è anche il richiamo ad una visione individualista della società.  L’individuo, infatti, è posto al di fuori di qualsivoglia vincolo – neppure il popolo è qui considerato come soggettività autonoma, al pari,invece, di quanto tutte le forme di populismo riconoscono, perché anche il vincolo sociale è reputato come un intralcio alla libera espansione della personalità – e ciò conduce, sul piano antropologico ad esaltare gli elementi di conflittualità tra gli uomini, conformemente all’indiscusso assunto liberistico, fatto proprio in maniera aprioristica, della concorrenza. Sul piano politico ciò significò il rifiuto di ogni forma di governo o, al massimo, l’accettazione un governo che esplica la propria funzione nel modo più limitato possibile. Il progresso, infatti, è frutto della spontanea creatività degli individui, continuamente imbrigliata dalla legislazione. La conseguenza di tutto ciò è concezione impolitica della politica: tutto ciò che rinvia ad  una dimensione sociale e cooperativa (stato, politica, amministrazione, governo), è considerato un meccanismo demoniaco al servizio di forze maligne. Di fronte a questo pericolo occorre attivare forme di resistenza e disobbedienza civile con lo scopo di negare il proprio sostegno alla infernale e immorale macchina statale. Come pensare, allora, insieme, la libertà indeterminata delle singolarità e come assicurare la difesa di essa senza ricorrere ad una amministrazione che se ne faccia garante? Questo complesso problema, che affascinò e incuriosì il giovane Tocqueville nel suo Democrazia in America, nella trova una sistemazione e soluzione mediante l’invocazione di una Provvidenza insondabile – e perciò non lasciata alla esclusiva mediazione ermeneutica di apparati ed autorità ecclesiastiche – ma disponibile a lasciarsi catturare dalla intuizione di individui particolarmente dotati.

Questi eterogenei e disarticolati elementi culturali costituirono, uniti alle particolari condizioni economiche degli ultimi decenni dell’Ottocento negli Stati Uniti, caratterizzate da una crisi dell’agricoltura delle regioni centrali del paese e con il conseguente indebitamento dei contadini nei confronti delle banche,il terreno di coltura di quel fenomeno politico noto come populismo che vide la nascita dell’effimero, dal punto di vista della durata, ma assai incisivo e persistente nel tessuto politico statunitense, per ciò che attiene ai contenuti ideologici, People’s Party. Composto da salariati, piccoli proprietari terrieri, contadini che guardavano con crescente insoddisfazione l’affermarsi di una oligarchia di magnati spropositatamente ricchi e delusi dall’atteggiamento arrendevole, quando non esplicitamente connivente, dei due tradizionali partiti molto più sensibili alle ingenti risorse economiche che i grandi gruppi industriali e la finanza poteva loro assicurare rispetto alla tutela del proprio tradizionale elettorato. La corruzione degli apparati pubblici e dei partiti e le crescenti disuguaglianze innescarono una polemica feroce contro le élite tanto più vasta quanto maggiore appariva la distanza di tutto ciò dalle retoriche patriottiche, individualiste ed egualitarie che innervavano la democrazia americana sin dal suo sorgere. Il populismo di fine Ottocento del People’s Party appare un grandioso fenomeno carsico che all’improvviso fa riemergere temi e argomenti presenti, in modo disarticolato, nel profondo della  società americana7, soprattutto nelle realtà poco urbanizzate dei farmers, che di colpo si materializzano assumendo forma politica organizzata. Questa si incarna, essenzialmente  intorno a due elementi: l’individualismo  e il dualismo manicheo che contrappone il lavoratore, semplice onesto e produttivo alle élite, parassite e corrotte, espressione del potere del danaro.

Le convulsioni populiste appaiono come una sindrome che accompagna il passaggio da una democrazia ancora aristocratica ad una compiuta democrazia di massa, anzi possiamo affermare che ogniqualvolta si verifichi, in determinate condizioni storiche, l’ingresso delle masse sulla scena politica, questo fenomeno è sempre associato alla presenza di temi populisti.

Non è secondario ricordare che il fugace People’s Party venne, nel giro di pochi anni assorbito dal Partito Democratico, di cui fu, nella sua breve vita, alleato. Le battaglie dei suoi principali esponenti spaziavano dal  sostegno ad una tassazione progressiva, alla lotta contro la legislazione antisindacale, a quella contro i monopoli nel settore delle ferrovie e della finanza8. Temi, questi, che avevano un innegabile connotato progressista, sebbene sostenuti ricorrendo ai consueti appelli di carattere morale e patriottico e con una attenzione particolare a quelle figure sociali che, nel prodigioso sviluppo industriale di fine Ottocento, finirono ai margini o furono del tutto escluse dall’espansione economica. Proprio per questi aspetti il partito populista fu accusato di essere retrogrado e nostalgico, nonostante molti suoi adepti fossero sinceri democratici spesso di fede socialista.

Ecco quindi i caratteri tipici del populismo americano: una rivolta delle periferie contro le città, degli esclusi contro coloro che erano insediati al centro del sistema produttivo, dei ricchi contro i poveri. Le contraddizioni della società americana sembrano rispecchiarsi interamente nelle incongruenze programmatiche del People’s Party.

Il populismo dell’ultimo ventennio presenta una indubbia continuità con le esperienze storiche precedenti, americana soprattutto, su alcuni temi: l’appello generico al popolo, la contrapposizione popolo-élite, il localismo, il leaderismo, la demonizzazione della finanza. Ciononostante il mutato quadro storico connota, questa innegabile persistenza tematica, in un modo completamente nuovo.

Il populismo americano di fine Ottocento, a differenza di quello odierno, (improponibile sarebbe il confronto con quello russo), pur con tutti i propri limiti e contraddizioni, fu un movimento progressista che tentò di recuperare alcuni aspetti del pensiero politico dei padri fondatori della democrazia statunitense. La natura composita della sua base sociale (in prevalenza contadini impoveriti dalla crisi dell’ovest e operai delle città industriali dell’est) costrinsero il movimento, che successivamente si trasformò nel People’s Party, ad oscillare continuamente tra rivendicazioni tipiche delle organizzazioni sindacali (riduzione orario di lavoro, tutela delle libertà sindacali ecc.) e rievocazioni di nostalgiche comunità agrarie autonome e autosufficienti. Una insufficienza programmatica e pratica che condusse il People’s Party ad allearsi con i democratici e ad essere, nel volgere di pochi anni, assorbito del tutto sino a scomparire come forza politica autonoma. Ciò si verificò quando le basi economiche che ne avevano sorretto l’espansione – ovvero la transizione al taylorismo e al fordismo, fase caratterizzata dalla coesistenza di operai specializzati tipici dell’industria artigianale e manodopera non specializzata addetta alla catena di montaggio – vennero meno. La sconfitta dell’aristocrazia operaia, come conseguenza della profonda riorganizzazione della produzione, soprattutto dopo il primo conflitto mondiale, segnarono le sorti del People’s Party e del movimento populista americano, almeno dal punto di vista politico-organizzativo.Dal punto di vista ideologico, al contrario, i materiali simbolici dei populisti si resero disponibili agli usi più disparati da parte di forze politiche di varia estrazione, svolgendo, sotto traccia, un lavoro poco visibile ma intenso poiché si alimentava attingendo in profondità a quei cleavages che attraversano e danno formaalla società e alla cultura politica americana.

Il populismo odierno si presenta, come già accennato, con una fisionomia per larghi tratti simile ma con un significato completamente diverso. Esso più che porsi come antagonista del neoliberismo, come pure tenderebbe ad accreditarsi, appare alla stregua di un suo complemento.

Alcuni autori, penso a Marco Revelli, hanno sostenuto che il populismo sia il risultato della rivolta degli esclusi dalla globalizzazione, gruppi e spezzoni di classi sociali messi “con le spalle almuro” dalla mondializzazione prima e dalla crisi economica successivamente. Indubbiamente, questa analisi presenta molti punti di verità ma non è sufficiente a comprendere la natura del populismo contemporaneo. Si deve, infatti, sottolineare come neoliberismo e populismo al di la delle differenze che pure esistono al loro interno, possiedono un indiscutibile patrimonio genetico comune. Sintetizzo brevemente alcuni punti di contatto particolarmente rilevanti.

In primo luogo entrambe condividono la convinzione che economia e democrazia siano, nell’attuale fase storica, incompatibili. La prima è considerata del tutto eterogenea rispetto ai modi e ai tempi della seconda. Al  topos classico, proprio anche del liberalismo ottocentesco, secondo il quale la sfera politica non deve, perché ne ostacolerebbe il naturale percorso, interferire con le scelte economiche, si associa che la democrazia (ma discorso analogo viene esteso alle procedure parlamentari e rappresentative delle forme di Stato moderne), ha costi non più giustificabile a fronte di una funzione, quando esercitata, quasi superflua, oltre che inefficiente. Funzioni che oggi possono essere svolte, ed in parte lo sono già, con maggiore efficacia  dal mercato e da forme di autogoverno delle comunità locali su base, per lo più, identitarie.

Il governo di una società, secondo questa visione insieme neoliberale e populista, può oggi “saltare” la fase democratico-rappresentativa ed essere affidato completamente ad istituzioni tecniche che, proprio in virtù di questa caratteristica, sono al “riparo” dalle perturbazioni  e manomissioni che le istanze democratico-rappresentative, inevitabilmente, perché insite nella propria natura, eserciterebbero nei confronti della capacità autoregolativa del mercato, che è principio ordinativo anche del sistema sociale oltre che, ovviamente, di quello economico.

Ciò su cui neoliberalismo e populismo divergono è la distanza che dovrebbe intercorrere tra gli individui e le istituzioni tecniche. Il primo pone le istanze di governo a livello globale, quindi a grande distanza dai cittadini, mentre il secondo le colloca a ridosso delle comunità locali.

Il processo già avviato di autonomizzazione dell’economia dal controllo democratico rende impossibile, per le istituzioni parlamentari, incidere su di essa. Pertanto la classe politica vede ridursi fortemente il proprio spazio d’intervento e, conseguentemente, di porre riparo, attraverso l’intervento pubblico, a squilibri che l’andamento del ciclo economico genera. Ma paradossalmente alla classe politica ed alle istituzioni dello stato sociale novecentesco vengono addossate colpe per fenomeni che non hanno causato e che non possono neppure gestire perché gli sono stati sottratti gli strumenti per poter intervenire. La crisi del ceto politico, in quasi tutti i paesi europei, ha fondamento nello loro irrilevanza. Anche in questo caso possiamo individuare, nella la concordanza complessiva, una differenza tra le due correnti ideologiche. Il neoliberismo utilizza il discredito che si è accumulato nei confronti della classe e delle istituzioni politiche per rimodellare dall’alto, in modo uniforme e subordinata, la sfera dei rapporti politici. I populisti, al contrario, invocano una ricostruzione, sempre subalterna alla sfera economica, ma dal basso che tenga conto della specificità dei luoghi e dei contesti delle realtà locali.

Un ulteriore elemento di condivisione è la quistione fiscale. Questo tema è strettamente connesso al precedente, poiché l’eccessiva tassazione è ascritta, principalmente, alla rapacità della classe politica. Ridotta nella quantità e nelle funzioni quest’ultima, si libererebbero risorse che potrebbero essere più utilmente impiegate.

Possiamo riscontrare anche in questo caso una discordanza di opinione circal’utilizzo migliore delle disponibilità monetarie prodotte della diminuzione della pressione fiscale: per i populisti queste dovrebbero tradursi in un aumento dei salari e, quindi, in un a crescita della spesa privata; i neoliberisti le indirizzerebbero a vantaggio delle imprese che, in questo modo, avrebbero a disposizione maggiore liquidità da investire.

In realtà, le divergenze di giudizio tra le due correnti è più apparente che reale. Queste divergenze possono essere poste lungo un asse i cui estremi sono globale e locale. Il populismo si muove secondo una logica spaziale, il neoliberismo risponde ad una logica temporale. Ma non sono, come potrebbe apparire, in opposizione: l’una non nega l’altra ma si presentano come le due facce della medesima medaglia. Il populismo, infatti, non contesta gli assetti della società capitalistica, si limita a criticarne alcuni caratteri valutati, da un punto di vista morale,  particolarmente negativi: la corruzione, l’esistenza di gruppi parassitari (élite contro lavoratori) o privilegiati (occupati contro disoccupati). Come è facile constatare non si rifiutano gli assunti di fondo del neoliberismo ma si rimane rinchiusi nella logica propria del populismo che è quella della logica binaria inclusione-esclusione. Ma proprio questo muoversi lungo prospettive divergenti fa si che la critica populista non intacchi mai realmente il neoliberismo (almeno sino a quando rimane rinchiusa entro schemi di tipo spaziale), esso si condanna alla ineffettualità perché incapace di porsi all’altezza dei processi produttivi ed economici attuali che invece si muovono lungo una prospettiva di tipo temporale. Il tono moralistico dei discorsi e delle argomentazioni critiche del populismo  è figlio di questa incapacità. O, detto in altri termini, il moralismo è il risultato della forza egemonica del neoliberalismo.

Le condizioni per lo sviluppo di un conflitto politico-sociale di ampia portata vi sono tutte (disuguaglianze, sfruttamento e povertà sono in crescita esponenziale), ma questo non accade, o perlomeno non nella misura in cui ci si attenderebbe. La neutralizzazione del conflitto economico-sociale è il sintomo più eclatante dell’egemonia neoliberale, in grado di indirizzare le fortissime tensioni sociali verso obiettivi appositamente costruiti e in grado di confinare le forze antagoniste verso logiche (quelle spaziali) per se stesso del tutto indifferenti.

In conclusine il populismo è l’altra faccia del neoliberismo, è lo strumento con il quale quest’ultimo spoliticizza il conflitto.

Note

1    Sul fenomeno del populismo la bibliografia è oramai cospicua. Ci limitiamo a segnalare gli studi che maggiormente sono stati tenuti presenti nella stesure di questo articolo: G. Ionescu, E. Gellner, Populism. Its Meaning and National Characteristics, Weidenfeld & Nicolson, London 1969; M. Kazin, The Populist Persuasion. An American History, Cornell U. P., Ithaca-London, 1998; Y. Mény-Y Surel, Par le peuple, pour le peuple, LibraireArthèmeFayard, Paris 2000, tr. it., Populismo e democrazia, il Mulino, Bologna, 2001; P. Taggart, Populism, Open University Press, Buckingham-Philadelphia 2000, tr. it., Il populismo, Città Aperta, Troina, 2002; N. Merker, Filosofie del populismo, Laterza, Roma-Bari, 2009; M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017;

2     Scrivono Mény e Surel che “gli studi sul populismo si scontrano infatti con l’impossibilità di classificare questo ismo nell’ambito delle ideologie tradizionali”, Y. Mény-Y Surel, Par le peuple, op. cit., p. 167;

3     M. Revelli, Populismo 2.0, op. cit, p. 10;.

4     F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, Torino, 1972; A. Walicki, Un utopia conservatrice. Storia degli slavofili, Einaudi, Torino, 1973;  Id., Socialismo russo e populismo, in Storia del marxismo. Il marxismo nell’età della seconda Internazionale, Einaudi, Torino, 1979, vol.II, pp. 357-88 ;

5     A Walicki, Socialismo russo e populismo, op. cit., p. 361;

6     Ibidem, p. 360 ;

7     Scrivono Mény e Surel che “il movimento populista non riuscì a far eleggere i suoi candidati alla presidenza, ma riuscì comunque a influenzare profondamente il quadro politico e istituzionale dl paese, legittimato nelle sue rivendicazioni dal richiamo alle parole che segnano l’inizio della costituzione: “We the people”“, Y. Mény-Y Surel, Par le peuple, pour le peuple, LibraireArthèmeFayard, Paris 2000, tr. it., Populismo e democrazia, il Mulino, Bologna, 2001, p. 57;

8     Sempre Mény e Surel notano come il movimento populista americano fu in grado di far inserire nelle costituzioni dei singoli Stati “molte disposizioni a carattere popolare: selezione dei candidati alla presidenza attraverso elezioni primarieal posto dei caucus di partiti (manipolati dagli apparati); elezione popolare dei responsabili di numerose funzioni non solo politiche ma anche amministrative e giudiziarie a livello statale, cittadino o locale; instaurazione in molti stati, in particolare nell’ovest e nel sud, di procedure di democrazia diretta (referendum, iniziative popolari, recall)”, ibidem.

Bibliografia

IONESCU, G., Gellner, E., Populism. Its Meaning and National Characteristics, Weidenfeld &                                                            Nicolson, London 1969;

KAZIN, M., The Populist Persuasion. An American History, Cornell U. P., Ithaca-London, 1998;

MERKER, N., Filosofie del populismo, Laterza, Roma-Bari, 2009;

REVELLI, M., Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017;

SUREL, Y. Mény-Y, Par le peuple, pour le peuple, LibraireArthèmeFayard, Paris 2000, tr. it., Populismo e democrazia, il Mulino, Bologna, 2001;

TAGGART, P. , Populism, Open University Press, Buckingham-Philadelphia 2000, tr. it., Il populismo, Città Aperta, Troina, 2002;

VENTURI, F., Il populismo russo, Einaudi, Torino, 1972;

WALICKI, A., Un utopia conservatrice. Storia degli slavofili, Einaudi, Torino, 1973;

IDEM, Socialismo russo e populismo, in Storia del marxismo. Il marxismo nell’età della seconda Internazionale,  vol.II, Einaudi, Torino, 1979.