Volume IV, Issue 4 (14), New Series, September – November 2016
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Corpi differenti. Per la ripresa di un approccio teorico-critico
(Different bodies. Going back to a theoretical critical approach)
Ubaldo FADINI
Abstract: In order to think at best today’s consequences of technological progress, at least in some of its components, on the human psycho-physical structure, the author of this contribution considers important to reflect on some transformations of the complex of labor activities, understood as exceeding in respect to the effective economical “expense”. This indicates that form the complication of the relation between man and technology, so crucial for example in the philosophical discussion of the twentieth century, it can also derive a displacement of the same relation in favor of a renewed centrality of the constitutive sociality of human being, which does not have thus to be considered as unavoidably resolved in the modalities given by its private appropriation to the aim of the earning of wealth.
Keywords: Work, Body, Technology, Alienation, Web.
Alcuni articoli degli ultimi mesi di un giornale – «il manifesto» – abitualmente attento alle questioni dell’uso intensivo delle “macchine” nel loro rapporto con il nostro quotidiano “cognitivo” e “sensoriale”, mi aiutano a delineare uno scenario di interesse specifico che vorrei tenere ben presente: ad esempio, Intelletti al servizio delle macchine (a proposito di N. Carr), Internet è un feudalesimo in salsa digitale (in riferimento ad A. Keen), La fine della storia e il cigno nero (su P. Domingos). Accanto a ciò, segnalo anche il recente Anime elettriche, del collettivo “Ippolita”, che sottolinea un carattere della nostra condizione di utenti, soprattutto dei social network, nel momento in cui si legge: «Quando condividiamo via web ci sentiamo al contempo più gratificati e più informati. Sempre presenti e al contempo proiettati in un altrove, siamo come anime elettriche in estasi permanente.»1
Si sa ormai come questa condizione sia stimolata all’eccesso per via della sua appetibilità rispetto ai meccanismi “pubblico”-informativi utilizzabili per la produzione di profitto e la sua indagine vuole proprio spendersi – per “Ippolita” – nel senso di una ricerca di “vie di fuga”, di “strategie di autodifesa” da opporre a tale sovradeterminazione. Altri studiosi possono aiutarci a tentare una sorta di smarcamento dal controllo asfissiante dei dispositivi di predazione che costellano la nostra esistenza, in particolare allorquando sviluppano critiche acute alle varie utopie tecnologiche della rivoluzione digitale: penso qui a E. Morozov,2 il quale insiste sull’ordine di causazione della rivoluzione in atto da individuare nel complesso delle crisi economiche e politiche («forze ben più maligne della digitalizzazione o della connettività»3), anche se poi si tratta di afferrare con precisione il legame tra «il vangelo urlante dell’innovazione»4 e le dinamiche accelerate del digitale e – appunto – dell’economico-politico. E se si parla di Silicon Valley non si può non parlare – oltre che di Wall Street – anche del Massachussets Institute of Technology (MIT), di Boston, da cui provengono ulteriori stimoli di ricerca, alcuni dei quali si sono concretizzati in un testo importante di E. Brynjolfsson e A. McAfee (tradotto in italiano un anno dopo l’edizione in lingua inglese).5 Come indica il sottotitolo, Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, si tratta di un testo che si concentra sull’impatto sociale ed economico delle progressioni delle tecnologie digitali, attribuendo in definitiva alle “macchine” una capacità di investimento rispetto al lavoro mentale, dopo che è stato investito – ormai da tempo – il lavoro manuale. In breve, si manifesta qui la convinzione che il digitale, nelle sue diverse manifestazioni, stia proponendo (ma è un modo “gentile” di dirlo) al lavoro mentale le soluzioni imposte storicamente al lavoro manuale dalla applicazione dell’invenzione del motore a vapore. Dopo che la prima rivoluzione industriale ha prodotto i suoi effetti positivi e negativi (che ci sono ben noti), la seconda rivoluzione, quella tecnologica e in pieno svolgimento, caratterizzata dalla convergenza a tutti gli effetti di hardware super-veloci, software iper-sofisticati e reti informatiche assai ampie, potrà condurre a soluzioni – di ordine digitale – degli accidenti/incidenti che sono specifici del nostro attuale modello economico e di vita. Ma Brynjolfsson e McAfee sono particolarmente attenti a segnalare anche le “devastazioni economiche” provocate dall’odierno cambiamento di “passo” della civiltà, indicando come il progresso tecnologico possa lasciare “a spasso”, “a piedi”, molte persone, nel senso che andrà sempre di più selezionando una tipologia “speciale” di lavoratore, fornito di conoscenze/saperi in grado di renderlo capace di «usare la tecnologia per creare e catturare valore», relegando ai margini la tipologia del lavoratore dotato di capacità per così dire “ordinarie”, destinato a retro-cedere di fronte al protagonismo sempre più accentuato delle tecnologie digitali che assai velocemente stanno acquisendo e sviluppando ulteriormente contenuti di capacità e competenze del lavoro svolto in maniera “tradizionale”. Alla base di tutto questo sta una raffigurazione della rivoluzione industriale come “prima età delle macchine dell’umanità” (da non confondere con l’uso abituale della stessa formula per la definizione del rapido sviluppo tecnologico che va dalla fine dell’Ottocento ai primi del secolo scorso, da cogliersi invece come “seconda rivoluzione industriale”), nel senso di rilevare con nettezza come le invenzioni e le innovazioni della prima rivoluzione industriale abbiano avuto l’effetto di aumentare il controllo del soggetto umano sul proprio lavoro e sul lavoro in generale e anche sulle combinazioni/integrazioni delle macchine all’interno di quest’ultimo. Il lavoro e la macchina possono essere considerate, a partire da quel periodo preciso della storia dell’industria, come “prolungamenti” della natura dell’uomo, come sue proiezioni di fatto “esoneranti”, dipendenti in un qualche modo da una capacità decisionale variamente articolata. Con l’apertura della seconda età delle macchine inizia a venire meno tale effetto di proiezione ed il carattere complementare – per il soggetto umano – dei dispositivi tecnologici, in quanto si verifica una traduzione di compiti cognitivi e di sistematiche decisionali per il controllo di macchine artificiali governate da software capaci appunto di svolgere progressivamente la funzione decisionale (in un’ottica di crescente sostituzione dei caratteri specifici dell’uomo). È particolarmente interessante, a questo punto, l’indicazione, da parte di Brynjolsson e McAfee, delle tre caratteristiche principali della progressione in atto nell’epoca dell’hardware e del software, delle reti digitali, restituita infine sotto veste «esponenziale, digitale e combinatoria». Il richiamo alla cosiddetta “legge di Moore”, a proposito del raddoppio continuo della potenza di calcolo computazionale delle macchine, della loro velocità in vista del miglioramento delle prestazioni in tempi sempre più ristretti (nei confronti di quelli “lunghi” dell’età delle macchine a vapore), appare qui particolarmente opportuno in riferimento ai computer super-potenti o agli smartphone oggi a disposizione. Si prenda poi in esame anche il complesso degli sviluppi/avanzamenti digitali, l’imponente diffusione di Internet, che interessa, insieme, persone e cose, da vedere come fattore essenziale di scoperta e rilancio di ciò che funziona e di selezione di ciò che non va, contribuendo così alla realizzazione di modalità di condivisione e applicazione in tempi brevissimi di tutto quello che effettivamente fa progredire, andare avanti. Accanto a tali caratteristiche è da porre anche quella combinatoria, ben esemplificata da Google Maps insieme all’app per smartphone Waze, integrati operativamente in un sistema GPS che consente di guidare un auto nel modo più semplice e sicuro in virtù del monitoraggio efficace delle condizioni del traffico.
La questione è quindi quella delle macchine digitali che prendono progressivamente il posto della forza-lavoro in carne e ossa, in particolare, oggi sempre di più anche nei settori ad alta qualificazione professionale. Quest’ultimo aspetto risulta molto importante e di esso potevamo già trovare traccia nella analisi “classiche” di P. Lévy sull’“intelligenza collettiva”, degli anni Novanta, e nelle rilevazioni di impronta sociologica di B. Latour, più vicine a noi, sul delinearsi, accanto al soggetto umano, di un “soggetto” non-umano. D’altra parte è di indubbia suggestione e potenza teorica la formulazione oggi di un processo che vede un “internet delle cose” subentrare parzialmente all’“internet delle persone”.
È proprio nei confronti della riproposizione del tema del rapporto uomo-macchina (o uomo-tecnica) che trovo importante delineare una vicenda novecentesca che lo ha particolarmente meditato: penso all’antropologia filosofica che si fa anche antropologia della tecnica e filosofia della tecnica, proprio su base antropologica, a certe progressioni “destinali”, di segno spesso negativo, della riflessione sulla “questione della tecnica”, al rilievo della formula di G. Anders della “vergogna prometeica” ed alla presa d’atto del complicarsi di tale rapporto nella seconda metà del secolo scorso, realizzata anche attraverso la sua traduzione nella figura del cyborg come espressione significativa delle trasformazioni dell’immaginario contemporaneo sollecitate dalla progressione tecnologica. Su tutto questo ho insistito nei miei lavori/studi pregressi, a partire da una particolare convinzione di fondo, dettata da una particolare lettura del presente, che si è proiettata sul passato, ap-prendendolo e ri/disegnandolo in vista della comprensione di quelle che sono avvertite come urgenze dell’oggi. Tale convinzione è che il rapporto tra l’uomo e la macchina si è fatto indiscutibilmente sempre più “stretto” e che però si assiste – nel “nostro” tempo – ad un fatto decisamente importante e originale, vale a dire l’introduzione della “macchina” sotto veste (variegata) immateriale nel corpo vivo del soggetto (soggetto di lavoro, che però non è altro: anche quando pensa di non lavorare).6
Progressione tecnologica e processo lavorativo, nei suoi straordinari e inquietanti cambiamenti: vale forse qui porre di nuovo l’interrogazione sulla desiderabilità o meno di modalità di appropriazione “privata” della ricchezza prodotta da tale coniugazione, anche nella prospettiva della migliore gestione possibile, oltre che delle sue “positività”, anche delle sue “negatività”. Insomma, a me appare sensato riflettere sui caratteri della progressione tecnologia soprattutto riferendo quest’ultima al quadro d’assieme dei processi lavorativi (anche per evitare l’ennesima riproposizione della chiacchiera sul buono o sul cattivo del fenomeno “tecnica”), sulla base della convinzione di una sua costitutiva eccedenza rispetto alla “spesa” economica “e” politica che se ne può fare al momento, visto oltretutto che in tale progressione si esprime la forza della cooperazione produttiva, l’azione complessa su un numero elevatissimo di singolarità, al cui operato va rinviata la stessa formulazione e riarticolazione della questione economica. Molti studiosi sostengono che è la forza lavoro cognitiva a rivelarsi oggi come la più produttiva, apparendo – nei confronti della stessa struttura tecnica del capitalismo attuale – come più potente addirittura della forza lavoro dell’età cosiddetta industriale. A partire dalla letteratura critica sopra riportata, si può certamente sostenere che le tecnologie informatiche, sul piano proprio di delineazione di una informatica commerciale (che ben si esprime nel complesso delle piattaforme “social”, di massa), valgono come una sorta di seconda pelle del lavoro cognitivo “e” cooperativo e in modo particolare in quell’esercizio di estrazione di valore che si presenta come base ineludibile della modalità data di accumulazione di capitale e necessita di un rapporto ben coltivato con i saperi di coloro che assemblano e costruiscono gli algoritmi indispensabili per lo stesso processo estrattivo/predatorio.
A questo punto ritengo però opportuno ritornare su Anime elettriche, un testo che punta decisamente a sottolineare la possibilità di rilanciare una informatica effettivamente libera, a scommettere sulla realizzazione di una “autonomia digitale”, sulla base dell’affermazione dei valori della convivialità (per dirla con I. Illich), di una cooperazione/condivisione che qui trova espressione sul piano della pratica di scrittura. Il collettivo di “Ippolita” sostiene come l’intento del libro non sia quello di «fare un giro nella sala-macchine»7, di raffigurare ancora una volta con la maggiore precisione/nettezza possibile il complesso tecnologico al servizio del dominio, bensì di perlustrare il continente smisurato dell’interiorità/internità dell’utente, di orientarsi «nelle viscere delle emozioni esposte»8, laddove si concretizzano elementi decisivi di riconfigurazione delle identità, ad ogni livello (mente, corpo e “anima”). A me sembra un proposito condivisibile, soprattutto in quella mia ottica di ricerca che non si limita a sottolineare gli effetti – certo essenziali – di una relazione sempre più stretta tra il nostro assetto psico-fisico (la “corporeità”) e un determinato complesso di tecnologie, in particolare quelle digitali, ma punta a riscontrare ciò che accade nel momento in cui si assiste oggi sempre di più ad una specie di “introduzione” di funzioni produttive e significative (strumentali) all’interno del corpo vivente del soggetto-di-lavoro. È in tale prospettiva che riprendo/riassumo alcune articolazioni del testo di “Ippolita”, anche piegandole nel senso indicato da G. Deleuze e F. Guattari nel loro Mille piani.
Se le macchine motrici hanno costituito la seconda età della macchina tecnica, le macchine della cibernetica e dell’informatica costituiscono una terza età che ricompone un regime d’asservimento generalizzato: “sistemi uomo-macchine”, reversibili e ricorrenti, sostituiscono le vecchie relazioni d’assoggettamento non reversibili e non ricorrenti tra i due elementi; il rapporto dell’uomo e della macchina si stabilisce in termini di comunicazione reciproca interna e non più d’uso o d’azione. Nella composizione organica del capitale, il capitale variabile definisce un regime d’assoggettamento del lavoratore (plusvalore umano) che ha come contesto principale l’impresa o la fabbrica; ma, quando il capitale costante cresce proporzionalmente sempre di più, nell’automazione, si trova un nuovo asservimento e, al tempo stesso, il regime del lavoro si trasforma, il plusvalore diventa macchinico e il quadro si estende a tutta la società.9
Si potrebbe aggiungere anche un richiamo più diretto a Marazzi, soprattutto quando quest’ultimo insiste sull’idea del corpo vivente della forza lavoro come contenitore anche di funzioni specifiche del capitale fisso, di marxiana memoria, di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze,10 il che vuol dire mettere in evidenza come il corpo vivente comprenda in sé funzioni di capitale fisso e di capitale variabile, materiali di lavoro passato ed espressioni di lavoro presente, appunto vivo, in un senso che individua la forza lavoro odierna come combinazione/somma di capitale variabile e di capitale costante (meglio: della parte “fissa”, opportunamente riformulata, di quest’ultimo).
È, in breve, sullo sfondo di tale complesso di indagini che ricerco gli stimoli necessari – nel testo di “Ippolita” – per gettare uno sguardo più avvertito su una modalità particolare di rappresentazione dell’interno del corpo vivente, quella che si concretizza nella traduzione di tale corpo sotto veste di “utente” delle piattaforme “sociali” di massa. Dell’utente interessano, per ragioni che sono di ordine commerciale/economico, le viscere delle emozioni il più possibile esposte, quelle attraverso cui si riconfigurano incessantemente i modellamenti identitari e collettivi, i rapporti tra il corpo e la mente (e l’“anima”… aggiunge “Ippolita”). Il presupposto dell’indagine è che la qualificazione di ordine commerciale dell’informatica non sia l’unica possibile e che sia invece possibile, sia pure di difficile affermazione, una informatica libera, una autonomia digitale capace di organizzare pratiche alternative rispetto all’uso corrente degli oggetti tecnologici.
L’esempio, in “grande”, di questo uso è quello che si manifesta nella relazione con le piattaforme “sociali” (si consideri la realtà di Facebook), quelle che hanno presa su tutti gli strati sociali e che prendono in custodia i nostri costrutti identitari.
Si legge in Anime elettriche:
Quando ci autentichiamo sulle piattaforme e accediamo ai nostri profili con un nome e una password stiamo, di fatto, accedendo a noi stessi. Tradizionalmente rivolgersi a sé significa volgere lo sguardo all’interno, verso il secretum del proprio essere. Oggi invece accediamo a una parte autenticata (in che misura autentica? Forse più di quanto immaginiamo…) di noi stessi tramite un contratto che raramente abbiamo letto e compreso, con cui cediamo ogni diritto a società private. Come vedremo, l’ideale di utente trasparente alle macchine implica l’azione diretta degli apparati tecnologici sulle emozioni, gli immaginari, i rituali inconsci e il sistema neuro-cognitivo. Ecco perché i due temi sottesi a questo testo sono la ricerca della verità e la cura di sé. Ovvero i motivi e i sistemi con cui i dispositivi commerciali pretendono di indicarci la via per conoscere la verità su noi stessi.11
È a partire da questo, dalla comprensione del compito svolto da quelle tecniche, che si delinea una sorta di “copia” di noi stessi sulla base della raccolta dei “nostri” dati riversati sui social network commerciali (veri e propri “cooperanti” e “condivisori” – si fa per dire – di segno “confessionale”), una sorta di nostro “gemello digitale”; copia che va infine però ben al di là delle nostre capacità di controllo e di gestione sul piano “emotivo e narrativo” in quanto risulta disegnata dalle logiche che presiedono l’esercizio del particolare rapporto uomo-macchina in questione, quelle “regole” che si curano di noi e organizzano la nostra vita, prendendola in cura, fornendoci la “verità” di essa, supportata appunto da un dispositivo libidico/emotivo, che residua piacere, soddisfazione e “buone” abitudini. Si può quindi ribadire, come fa “Ippolita”, la centralità odierna del motivo della “pornografia emotiva” come tecnica di manifestazione/svelamento del sé, e poi l’importanza della cosiddetta “ipercoerenza narrativa”, intesa come modalità auto-promozionale nelle piattaforme social. In quest’ultima prospettiva, non si può non sottolineare l’utilizzo intrigante delle tesi del teorico della “metamorfosi” (antropologica), E. Canetti, nel momento in cui si indica il rapporto fondamentale tra determinate tecniche di comando (di potere) e la sollecitata riemersione nel presente individuale e collettivo di elementi ancestrali e simbolici che affondano le loro radici nel terreno appunto culturale delle prime fasi della storia dell’umanità. Accanto al rinvio a Massa e potere, di Canetti,12 importante è senz’altro anche l’attenzione prestata alle analisi foucaultiane sugli esercizi di autonomizzazione (relativa) e di soggettivazione della verità, tradotte nelle forme della “confessione” all’interno del cristianesimo, che si sviluppano come scritture quotidiane della propria intimità/internità nella esposizione delle nostre viscere sui ripiani del Web.
Ritornando però al tema dell’“anima elettrica”: quello che più conta è la rilevazione delle pulsioni digitali che premono in direzione di una soddisfacente organizzazione fondata su ordini/comandi (per riprendere ancora Canetti) a cui si arriva ad obbedire meccanicamente (anche per via del loro carattere procedurale), in modo inconsapevole. “Ippolita” scrive che ci si sente così liberi quando in effetti tutto è delegato, a livello cognitivo, sociale, psichico, vitale:
I servizi del web sociale si prendono cura di noi in vita, migliorano le nostre possibilità di lavoro, salute, interazione emotiva e sessuale; tendono a liberarci dal gesto del corpo e dalla fatica dell’organizzazione e, se vogliamo, lasceranno online il nostro profilo disponibile anche dopo la morte, così che una parte di noi viva per sempre, nel regno dei cieli digitale. E chissà, per incarnarsi un giorno in una carne inorganica, o diversamente organizzata da una tecnologia redentrice…13
In breve, l’attenzione del collettivo “Ippolita” punta sulla realtà sempre più diffusa delle piattaforme social di massa, su come gli apparati tecnologici estremamente sofisticati investano il piano delle emozioni, delle fantasie e lo stesso sistema neuro-cognitivo degli utenti, consentendo di fatto una fuori-uscita dell’intimo privato che viene pubblicamente normalizzato. C’è in tutto questo qualcosa che sfugge all’intenzione del soggetto sotto veste di utente, che si trova coinvolto nella produzione infinita di un di più, senza un vero e proprio scopo. Anzi, uno scopo c’è ed è quello che si ritrova nelle finalità commerciali, economiche, delle grandi corporazioni (a partire da Google) che di fatto gestiscono/governano il rapporto tra il corpo organico analogico (ciò che noi siamo) e i corpi tecnologici, vale a dire ciò con cui non smettiamo un momento di essere in relazione, trovandoci così, con essi, ai limiti della fusione/confusione. Molto concorre quindi, nel nostro presente, a raffigurare per noi, in termini di scoperta della “verità” di ciò che siamo, il processo di fuori-uscita come un movimento effettivamente in grado di soddisfare al meglio il bisogno di socializzazione, di solidarietà, di stare bene con gli altri e con noi stessi. Si tratta di un processo in cui quasi tutto viene realizzato, apparentemente “per” il soggetto, ma non ciò che effettivamente conta in una prospettiva di ampliamento dei suoi spazi di autonomia, di libertà, di raggiungimento cioè anche di una sorta di autonomia “digitale”.
È allora sensato definire questo processo di fuori-uscita, facendo ricorso agli ultimi sviluppi della tradizione della Teoria Critica, come un movimento di vera e propria alienazione in tempi di forte accelerazione sociale, con quella sua logica di/da regime temporale rigido che condiziona pesantemente e quindi in maniera negativa le strutture del riconoscimento (A. Honneth) e della comunicazione (J. Habermas), alle quali si affida spesso il compito di supportare tutto ciò che può permettere un avanzamento del discorso democratico. Non voglio qui confrontarmi con tali effetti/sviluppi della Teoria Critica: desidero invece sottolineare l’importanza del contributo fornito da H. Rosa,14 che ripropone appunto la centralità, per affrontare significativamente il “nostro” tempo, del concetto di alienazione, così caro agli esponenti della prima Scuola di Francoforte. Quello che è certo è che il concetto di alienazione va qualificato storicamente per individuare delle qualificazioni della vita sociale (decisamente “accelerate”, oggi) da affrontare criticamente, sulla base dell’individuazione/indicazione della loro “negatività”. Ciò va però articolato a partire dall’accettazione della inevitabilità del processo di fuori-uscita, per il soggetto in relazione con determinate tecnologie, se si vuole: di una alienazione, che però va sviluppata con consapevolezza e responsabilità, nel senso di una sua effettiva e positiva messa a valore.
In fondo si tratta, a mio avviso, di gettare lo sguardo sul rapporto tra il corpo organico e quello digitale (un rapporto sempre più stretto, come ormai si riconosce da più parti e non soltanto da sponda post-human) con il proposito di progettarlo non più nel rispetto soltanto delle logiche delle “megamacchine corporative” e del prolungamento all’infinito dell’esposizione del soggetto ridotto a utente (e destinato, come tale, all’esaurimento, allo stato (di) “terminale”) ma soprattutto – e, se si vuole, in contrapposizione netta con tali logiche – in vista di una condizione di esistenza in grado di consentirci di guardare criticamente quello che si fa, si dice, si “pensa”. In una parola, di prendere le opportune e proficue/fertili distanze da noi stessi, da ciò che attualmente siamo o si pretende (anche da parte di qualche “altro”) di essere.
Note
1 Ippolita, Anime elettriche. Riti e miti social, Jaca Book, Milano, 2016, quarta di copertina.
2 Cfr. E. Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, trad. it. Codice, Torino, 2016.
3 Ibid., p. 8.
4 Ibid., p. 6.
5 Cfr. E. Brynjolfsson, A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prospettiva nell’era della tecnologia trionfante, trad. di G. Carlotti, Feltrinelli, Milano, 2015.
6 Sia consentito qui il rinvio ai miei Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, Ombre corte, Verona, 2013 e Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche, Ombre corte, Verona, 2015.
7 Ippolita, Anime elettriche, cit., p. 8.
8 Ibid.
9 G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. di G. Passerone, introduzione di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma, 2003, p. 634.
10 Cfr. C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Ombre corte, Verona, 2010, pp. 205-210.
11 Ippolita, Anime elettriche, cit., p. 8.
12 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano, 2015.
13 Ippolita, Anime elettriche, cit., p. 10.
14 Cfr. H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, trad. di E. Leonzio, Einaudi, Torino, 2015.
Bibliografia
BRYNJOLFSSON E., McAfEE A., La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prospettiva nell’era della tecnologia trionfante, trad. di G. Carlotti, Feltrinelli, Milano, 2015.
CANETTI E, Massa e potere, trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano, 2015.
DELEUZE G. e GUATTARI F., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. di G. Passerone, introduzione di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma, 2003.
IPPOLITA, Anime elettriche. Riti e miti social, Jaca Book, Milano, 2016, quarta di copertina.
MARAZZI C., Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Ombre corte, Verona, 2010.
MOROZOV E., Silicon Valley: i signori del silicio, trad. it. Codice, Torino, 2016.
ROSA H., Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, trad. di E. Leonzio, Einaudi, Torino, 2015.