Volume IV, Issue 4(6), New Series, September – November 2014
A proposito di debito pubblico europeo: riflessioni keynesiane sull’ “ortodossia della virtù”
(European public flow: keynesian reflections over the “orthodoxy of virtue”)
Silvio BERETTA
Alberto BOTTA
Abstract. The paper connects the eurobonds issue to the political aspects of the current eurozone crisis. It firstly emphasizes that the possible future issuance of Eurobonds, or the refusal to do so, represent signs of the emergence of cooperative or, alternatively, non-cooperative behaviors among eurozone countries. Such a dichotomy, in turn, appears as a clear proof of the political roots of the crisis. Accordingly to this perspective, the persistent demand for a full European political integration as the decisive step out of the crisis is reviewed by analyzing a list of works, particularly the conclusions of the Reflection Group on the future of the European Union and the concluding remarks of the Governor of the Bank of Italy. The authors sadly note the close similarity between the kind of problems raised by the above contributions and the observations by John Maynard Keynes on the blindness of European countries’ Heads of governments at the time of the Paris peace agreement at the end of the World War I. Once again, the political cooperation among European countries, at the present time eurozone member States, turns out to be the ultimate solution to the existing problems.
Keywords: Eurobonds, cooperative behaviors, fiscal union, European political integration.
“We get into a vicious circle, we do nothing because we have not the money; but it is precisely because we do not do anything that we have not the money”
J.M. Keynes, Collected Writings, vol. XX: Activities 1929-31. Rethinking Employment and Unemployment Policies, p. 144
“One effect of the intense austerity imposed on the debtor nations is a sharp increase in the government debt ratios in these countries…Austerity programmes that can work in isolated cases fail to work well when every country imposes austerity at the same time”
De Grauwe – Yuemei Ji, The Legacy of Austerity in the eurozone, CEPS Commentary, 4 October 2013, p. 6
- Federalisti a Pavia
La nota che segue trae origine da un volume[1] che raccoglie, rielaborati e ampliati, saggi discussi in un seminario svoltosi nell’aprile 2011 presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia. Argomento della discussione erano gli eurobond, da tempo occasione di confronto fra concezioni dell’Unione Europea fra loro divergenti. Che inoltre le modalità dell’evoluzione dell’Unione Europea, e in particolare la sua capacità di costituirsi in unità sovranazionale efficiente e completa, rilevino anche ai fini della stabilità degli equilibri complessivi del sistema mondiale lo dimostra l’attenzione che riservano loro studiosi non europei. Valga come esempio quanto afferma Michael Spence in un recente saggio sulla convergenza economica in un mondo a più velocità[2], laddove ricorda che “Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa avviò un processo di integrazione, prima economica e poi politica, che sessant’anni dopo ancora non è giunto a termine. Probabilmente serviranno altri cinquant’anni perché arrivi a compimento, se mai vi arriverà. Si tratta di uno sforzo molto ambizioso…Se il progetto avrà successo, avremo strutture di governance autorevoli a un livello superiore a quello dello Stato-nazione. Sotto molti punti di vista si tratta di un maestoso esperimento…per la costruzione di una governancetransnazionale”[3]. Ma perché l’esperimento europeo è così importante? L’articolata opinione di Spence è che esso “È importante di per sé, per chi vive in Europa e per il sistema globale, quantomeno perché si tratta di un’economia colossale, e dunque in grado di modificare gli equilibri di potere e di influenza, ma anche perché è un enorme progetto pilota per la costruzione di capacità di governance sovranazionali. Il problema è se persone…la cui identità collettiva è profondamente radicata nelle rispettive nazioni, lingue e culture saranno disposte a cedere il controllo a entità sovranazionali”[4].
La sede dell’incontro – Pavia – era a sua volta evocativa, essendo da decenni luogo di elaborazione e di promozione dell’idea e dell’architettura istituzionale dell’Europa federale alla ricerca di soluzioni, sia politico-istituzionali sia tecniche, che la crisi in atto rendeva, come rende tuttora, nel contempo più urgenti da perseguire e più ardue da conseguire: apparente antinomia quest’ultima, che ha tuttavia contraddistinto tante tappe della costruzione dell’Europa unita. Proprio a Pavia, tra l’altro, era stata da poco completata, a cura di Nicoletta Mosconi, l’imponente edizione – nove volumi – degli scritti di Mario Albertini[5], cronaca straordinaria della quotidiana, cinquantennale militanza di uno studioso in favore, come sottolinea la curatrice in apertura del settimo volume, di una “…nuova cultura politica di cui il mondo ha bisogno, la cultura politica dell’unità del genere umano, per avviarsi verso il superamento dell’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza fra i popoli e verso il governo razionale del mondo”[6]. Fin dal primo documento del primo volume, datato “Pavia, 9 febbraio 1946”, apparivano ad esempio chiari, a testimonianza di una rigorosa continuità di riflessione, i termini essenziali del problema della democrazia politica, individuati nel “contrasto che ancora oggi dà forma a reali dissensi politici” fra la concezione della democrazia “come ordine statale che garantisca ai cittadini le libertà elementari” oppure “come ordine statale che dipenda in toto dalla volontà dei cittadini”[7]. L’ultimo documento del nono volume, dal titolo L’Italia non si salva senza l’Europa, riporta a sua volta una dichiarazione rilasciata il 24 ottobre 1995 e inviata “agli esponenti del governo italiano e ai responsabili delle forze politiche”. Vale la pena di richiamare qui i quattro punti enunciati da Albertini in quella sede. Il primo: “Per quanto riguarda l’Europa non serve la divisione italiana in parti ma l’unità nazionale”. Il secondo: “In questione è il fatto che con la ratifica del Trattato di Maastricht i cittadini italiani sono ormai anche cittadini europei”. Il terzo: “…col referendum europeo del 1989…l’88% degli italiani si è espresso a favore della Costituzione europea. Ne segue che ogni scelta politica che divide i partiti sul terreno europeo è antidemocratica e illegittima”. Il quarto: “Va detto…che coloro che non hanno perso il senso della realtà sanno che la degenerazione della lotta per il potere in Italia è ormai giunta ad un punto tale che può essere sanata solo con la piena assunzione da parte dell’Italia del ruolo europeo che ebbe con De Gasperi e con Spinelli”[8]. Nella Introduzione ai due volumi degli scritti su Senso della storia e azione politica di un altro federalista di spicco che ha operato anch’egli a Pavia, Francesco Rossolillo[9], Giovanni Vigo ricorda inoltre che: “…raggiunti i due obiettivi dell’elezione diretta del Parlamento europeo e dell’euro, non sono più pensabili obiettivi intermedi di carattere costituzionale. Dall’altra parte si è creata nel corso degli anni una situazione che mette in pericolo lo sbocco federale e lo rende sempre più urgente…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…Si assiste cioè al progressivo indebolimento della compattezza e della capacità decisionale dell’Unione in seguito ai successivi allargamenti, al riemergere della difesa degli interessi nazionali a scapito dell’interesse europeo e all’uscita di scena degli uomini politici che, dopo la seconda guerra mondiale, erano convinti che l’unificazione politica dell’Europa fosse la sola via di salvezza”[10]. Proprio Rossolillo, in un passo di una sua Relazione del 2003, ammoniva che “L’Europa è…destinata ad incamminarsi verso la propria decadenza, a meno che la tendenza non venga invertita…da un forte soprassalto delle coscienze dei politici e dell’opinione pubblica…che si deve produrre in un tempo relativamente breve, e che non può trovare la sua origine che in una crisi profonda, o nella concreta minaccia di una crisi imminente…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…che metta in discussione modi di vivere e di pensare che si ritenevano acquisiti una volta per tutte”[11]: uno strumento di analisi per l’azione, come si vede, di rilevanza strategica proprio in tempi di crisi.
Un perché “strutturale” di tali difficoltà è racchiuso poi in un’arguta affermazione dell’allora presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, citata in ”The Economist” del 15 marzo 2007 e collocata in epigrafe a un saggio – sugli esiti prevedibilmente non positivi del Trattato di Lisbona – di Michele Ruta, raccolto in un fascicolo monografico della serie “Temi e problemi” de “Il Politico”[12], rivista che ha dedicato all’Europa, alle sue vicende e alle sue istituzioni, dodici dei suoi sessanta “Quaderni”. La frase è la seguente: “Sappiamo tutti cosa fare, solo che non sappiamo come fare per essere rieletti una volta che lo abbiamo fatto”[13]. In controtendenza rispetto ad altri autori (Alesina-Giavazzi e Wolf, ad esempio) Ruta, nel saggio citato, ribadisce a sua volta la necessità di una riforma in senso federale dell’architettura costituzionale dell’Europa come unico strumento efficace per contrastare gli effetti paralizzanti delle resistenze opposte dagli interessi costituiti. Sostiene infatti che “I gruppi di pressione nazionali prosperano in un ambiente chiuso creato da politiche economiche nazionali. Fare ripartire il processo di integrazione politica e istituzionale in Europa è la via per limitare l’influenza di interessi costituiti e per riportare l’Europa su un cammino di riforma e di maggiore crescita economica”[14]. Ma c’è un ulteriore passo, anche questo collocato in epigrafe al saggio di Ruta, dovuto a un altro grande europeista, Tommaso Padoa-Schioppa[15]. Da ministro dell’Economia del Governo italiano, e con riferimento ai lavori dell’Eurogruppo, Padoa-Schioppa affermava, sempre nel 2007 che: “L’Eurogruppo sta prestando una sempre maggiore attenzione alle riforme strutturali…Tuttavia l’approccio…si limita a comparare le esperienze fatte da diversi paesi, incoraggiando i ritardatari a imparare dai riformatori più attivi…Ciò che manca, io credo, è l’Unione. Se le riforme non vengono attuate, spesso la ragione risiede nel fatto che i governi si mettono d’accordo in questo senso. Lo abbiamo visto con l’energia, lo abbiamo visto con la finanza, lo abbiamo visto con i servizi…So quanto difficile e raro sia abbandonare un approccio comparativo per lavorare come una vera Unione. Penso, tuttavia, che sia di vitale importanza per le nostre economie comprendere che il destino della maggior parte delle riforme strutturali risieda a Bruxelles, non nelle capitali nazionali”[16].
- La relazione del Gruppo di riflessione e gli snodi reali dell’Europa
Gli avvenimenti successivi alla data del seminario pavese rendevano l’argomento trattato, e le proposte formulate in quella sede, di particolare interesse. Pretendevano tuttavia un inquadramento più documentato, attento anche a prese di posizione ulteriori, sia antecedenti che contemporanee o immediatamente successive. Di alcune fra queste daremo brevemente conto prima di soffermarci su taluni contenuti del volume.
Nel rassegnare – nel maggio 2010 – al Consiglio Europeo la propria relazione conclusiva[17], ilGruppo di riflessione sul futuro dell’UE insediato nel dicembre 2007 (presidente era Felipe González e ne faceva parte, fra gli altri, l’ex commissario europeo Mario Monti) identificava i principali snodi problematici della costruzione europea, formulando proiezioni al 2030; avanzava inoltre proposte circa le modalità di intervento più idonee ad affrontarli. Ad avviso del Gruppo quegli snodi – significativamente tutti reali – riguardavano 1) la promozione del capitale umano, 2) la realizzazione di una politica energetica comune, 3) la lotta contro i cambiamenti climatici, 4) la necessità di fronteggiare la sfida demografica (invecchiamento della popolazione più contrazione della forza lavoro interna), 5) il perseguimento della sicurezza interna ed esterna sulla base di una visione europea della difesa collettiva e di fronte “…al passaggio da un ordine mondiale bipolare, seguito da un breve ‘momento unipolare’ dominato dagli Stati Uniti, fino alla graduale affermazione di un sistema policentrico”[18]. Rispetto all’urgenza di ciascuno di tali problemi lo stato dell’Europa non appariva tuttavia confortante tanto che, in apertura della relazione, i componenti del Gruppo anticipavano che “Le nostre conclusioni non sono rassicuranti né per l’Unione né per i nostri cittadini”, identificando successivamente le criticità incombenti in: “…crisi economica mondiale, Stati in soccorso delle banche, invecchiamento demografico che minaccia la competitività delle nostre economie e la sostenibilità dei nostri modelli sociali, pressione al ribasso su costi e salari, sfide poste dai cambiamenti climatici e dalla crescente dipendenza energetica e spostamento verso est della distribuzione mondiale di produzione e risparmio. E per di più incombono su di noi le minacce poste dal terrorismo, dalla criminalità organizzata e dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa”[19]. Rispetto a ciascuna delle urgenze identificate, l’Unione appariva, agli estensori della relazione, non adeguatamente “attrezzata”.
Dovendosi confrontare con la necessità di promuovere il capitale umano, infatti, “…l’Europa si sta facendo distanziare nella corsa alle competenze. Alle attuali tendenze di investimento, nel 2025 l’Asia potrebbe trovarsi alla testa del progresso scientifico e tecnologico a spese dell’UE e degli Stati Uniti”[20]. Quanto alle politica energetica (e alle sue carenze) le proiezioni al 2030 indicano un fabbisogno in crescita e un’offerta in diminuzione, con elevatissimi margini di vulnerabilità anche in ragione del fatto che “…gli approvvigionamenti provengono da alcune delle zone del mondo caratterizzate da maggior volatilità politica”[21]. Quanto poi ai cambiamenti climatici, si sottolinea l’enormità delle dimensioni della sfida, valutabili sulla base del fatto che “…il costo annuale della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra è stimato a circa il 2% del PIL mondiale, mentre il costo di un mancato intervento è stimato ad almeno il 5% del PIL all’anno”[22]: all’entità dello sforzo che l’UE sarebbe chiamata a sostenere per avviare i necessari cambiamenti dei modelli industriali e dei comportamenti dei cittadini, corrisponderebbe tuttavia la concreta possibilità di cogliere “una vasta gamma di opportunità tecnologiche, imprenditoriali e commerciali”[23], recuperando nel contempo un ruolo di guida politica in un dibattito cruciale. Nei confronti della sfida demografica – sintetizzabile, per l’Europa, nella necessità di fronteggiare le conseguenze sistemiche del verificarsi congiunto di una speranza di vita elevata e tuttora crescente e di un tasso di fertilità tuttora molto basso – l’impegno politico del continente dovrebbe indirizzarsi alla promozione di “…due filoni d’azione complementari: innalzare i tassi di partecipazione al mercato del lavoro e attuare una politica dell’immigrazione equilibrata, equa e proattiva”[24]. Quanto infine alla sicurezza, questa dovrebbe essere considerata alla stregua di un bene pubblico transnazionale, e quindi “prodotta” con un “approccio autenticamente pan-UE”[25], e tuttavia “Un’azione comune in questo campo è stata finora inibita dalle resistenze opposte dagli Stati membri allo scambio d’informazioni e al coordinamento delle politiche in materia di ordine pubblico, materia tuttora fra le più sensibili nella politica interna degli Stati”[26].
Se quelle sinteticamente descritte sono le sfide reali alle quali l’Europa si trovava già allora a dovere far fronte, è al loro raggiungimento che dovrebbero essere finalizzate le politiche comunitarie. Ma è proprio a questo proposito che il giudizio del Gruppo – elaborato nel pieno della crisi – si fa severo. La crisi infatti “…iniziata sull’altra sponda dell’Atlantico, ha colpito l’Europa più di qualsiasi altra regione del mondo portando alla luce le debolezze strutturali dell’economia europea, da lungo tempo individuate ma troppo spesso ignorate…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…La crisi è stata quindi un campanello d’allarme che sollecita una risposta europea a un assetto mondiale in evoluzione. Come in tutte le trasformazioni, l’assetto che sta emergendo creerà nuovi vincitori e nuovi vinti. Per non finire tra questi ultimi, l’Europa deve guardare avanti e avviare un ambizioso programma di riforma a lungo termine per i prossimi venti anni”[27]. La gestione della crisi costituisce quindi un permanente banco di prova per valutare l’idoneità dell’Unione Europea di oggi a raccogliere l’eredità delle proprie origini: infatti ”Di fronte a una crisi che non hanno provocato, i cittadini continueranno a credere al progetto europeo solo se i leader saranno onesti sull’entità delle sfide che si prospettano e se essi saranno chiamati a uno sforzo paragonabile a quello che ha dato prosperità all’Europa dopo la seconda guerra mondiale”[28]. Completamento del mercato unico accompagnato da un più efficace coordinamento fiscale e dal rafforzamento delle procedure di controllo sui bilanci nazionali, riforme del mercato del lavoro, modernizzazione delle pratiche del governo societario, riforma del funzionamento e della vigilanza sugli istituti finanziari sono ambiti di intervento essenziali per “…rafforzare il buon governo economico nell’UE”[29], in un contesto in cui euro e patto di stabilità e crescita – allo stato attuale assi portanti della costruzione europea ma non certo cause scatenanti della crisi – non si sono rivelati adeguati ad assicurare un sufficiente grado di convergenza fra i sistemi economico-sociali europei. Più nel dettaglio, parte integrante dello sforzo di coordinamento dovranno essere, fra gli altri fattori: 1) la creazione di “…uno strumento finanziario volto a contrastare crisi impreviste e shock asimmetrici, tenendo conto nel contempo dei pericoli di rischio morale”[30] e 2) la fissazione di “…un obiettivo di crescita per la componente relativa agli investimenti della spesa pubblica degli Stati membri”[31]. In questo quadro, e su entrambi i punti, l’opinione del Gruppo anticipa con chiarezza eventi e dibattiti successivi, che per altro faranno seguito a posizioni critiche già autorevolmente sostenute in passato[32]. “La prima priorità – si afferma infatti – deve restare la creazione di posti di lavoro e la crescita”[33], dal momento che “Se si taglia troppo presto la spesa, la ripresa potrebbe scivolare nella direzione opposta”[34], e di conseguenza “…gli Stati membri che non possono più permettersi di spendere, per le costose operazioni di salvataggio, le spese sociali che aumentano e le fonti di gettito che si riducono, dovranno fare affidamento sull’iniziativa dell’UE e degli altri Stati membri per creare le condizioni per la ripresa economica”[35]: nel valutare l’adeguatezza degli strumenti di intervento rispetto agli obiettivi si dovrà comunque porre mente al fatto che “Perseguire obiettivi ambiziosi con risorse limitate e meccanismi di attuazione deboli è la ricetta della delusione”[36].
3. A un anno dal Gruppo di riflessione: Mario Draghi all’Assemblea della Banca d’Italia
A un anno dalla relazione conclusiva del Gruppo di riflessione, e a poche settimane dall’incontro di Pavia, l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, in sede di Assemblea dell’Istituto[37], doveva constatare come la crisi e la sua gestione avessero, nei fatti, disatteso le aspettative dei suoi estensori. Pure in presenza di dati “oggettivi” favorevoli se confrontati con quelli relativi a sistemi comparabili (deficit di bilancio previsto – per il 2011 – pari al 4,5% del Pil europeo, valore inferiore di oltre la metà rispetto a quelli statunitense e giapponese; debito pubblico pari all’88% del Pil, quindi anch’esso inferiore a quello statunitense e molto di più a quello giapponese; bilancia dei pagamenti corrente prossima al pareggio, prospettive di consolidamento della ripresa produttiva), la prova che l’Unione economica e monetaria si trovava a fronteggiare era tuttavia la “…più difficile dalla sua creazione”[38]. In due successive affermazioni il Governatore chiarirà le ragioni di fondo della ‘fragilità’ dell’Unione di fronte alla crisi, alle sue conseguenze e alle politiche di contrasto attuate e da attuare, tutte riconducibili alla natura stessa dell’Unione quale è andata realizzandosi nel corso degli anni tanto per le scelte compiute quanto per quelle non compiute e/o rinviate. La prima affermazione sottolinea l’insufficiente coordinamento delle politiche di bilancio, nei seguenti termini: “La sorveglianza europea sulle politiche di bilancio nazionali, indebolita a metà dello scorso decennio su iniziativa dei tre più grandi paesi…[Germania, Francia e Italia, n.d.r.]…si è dimostrata carente proprio nel momento in cui diventava essenziale[39]. La seconda mette in relazione i successi raggiunti in campo monetario con gli effetti distorsivi che di quegli stessi successi erano il risultato, nei seguenti termini: “Per lungo tempo la moneta unica ha velato le differenze tra paesi membri nelle condizioni di fondo e nelle politiche economiche, l’assenza di regole comuni realmente vincolanti. Per lungo tempo i premi per il rischio non hanno rivelato la verità …[corsivo non nel testo, n.d.r.]”[40].
Quanto agli interventi di sostegno ai paesi in difficoltà, il 2010 aveva visto, nel marzo, la predisposizione di un meccanismo di sostegno a favore degli Stati membri dell’area euro basato su prestiti bilaterali. Nel maggio venivano definiti due ulteriori strumenti temporanei di intervento/assistenza, lo European Financial Stabilisation Mechanism (EFSM) e, successivamente, loEuropean Financial Stability Facility (EFSF). Il primo era un meccanismo amministrato dalla Commissione per conto dell’UE, con una capacità di intervento di 60 miliardi di euro, la cui provvista era garantita dal bilancio dell’Unione stessa; il secondo era affidato a una società per azioni con una capacità di intervento fino a 440 miliardi, la cui provvista sarebbe stata assicurata mediante il collocamento di obbligazioni garantite dai paesi dell’area euro in proporzione alle quote di partecipazione al capitale della BCE. Sarà nel marzo 2011 che il Consiglio europeo definirà le caratteristiche dello European Stability Mechanism (ESM), una vera e propria organizzazione internazionale destinata a sostituire l’EFSF a partire dal luglio 2013 e dotata di una capacità di prestito pari a 500 miliardi: in quanto organizzazione internazionale, le operazioni di provvista dell’EFSF non avrebbero prodotto, a differenza di quelle dell’EFSF, la conseguenza di aumentare il debito pubblico degli Stati membri.
La predisposizione di meccanismi di sostegno finanziario progressivamente più cospicui sotto il profilo del potenziale di intervento, e strutturalmente più ‘multilaterali’, accompagna il succedersi di situazioni di tensione. Nel maggio del 2010 la Grecia otterrà il sostegno sia del Fondo Monetario Internazionale sia dei paesi dell’area euro, sostegno vincolato alla realizzazione di un drastico programma di aggiustamento dei conti pubblici nonché di “riforme strutturali”. A fine novembre sarà la volta dell’Irlanda: ancora il Fondo, l’EFSM e l’EFSF affiancheranno con i propri mezzi risorse domestiche, e anche in questo caso il sostegno sarà vincolato a un piano di risanamento dei conti pubblici e di riforme, soprattutto del sistema bancario. Nell’aprile 2011 sarà la volta del Portogallo, e il sostegno sarà fornito di nuovo da Fondo, EFSM e EFSF. A riprova della stretta connessione che viene a instaurarsi fra stato dei conti pubblici di un paese membro, robustezza del suo sistema bancario, grado di incisività dei poteri comunitari e necessità del loro rafforzamento, nella Relazione della Banca d’Italia per il 2010 si legge inoltre, a commento degli avvenimenti dell’anno precedente, che “Il sistema di sorveglianza multilaterale non disponeva di strumenti incisivi per la prevenzione e la correzione di squilibri di tipo macroeconomico. Mancavano inoltre meccanismi di intervento per le situazioni di grave crisi finanziaria di uno Stato membro. Infine, sono emerse fragilità del sistema bancario che hanno favorito il propagarsi della crisi; ciò ha reso necessario un rafforzamento della regolamentazione e della supervisione a livello europeo”[41].
4. A due e a tre anni dal Gruppo di riflessione: Ignazio Visco all’Assemblea della Banca d’Italia. La “volontà irremovibile”
Crisi, modalità di contrasto, strutture decisionali “a tendere”, modalità e tempi per attuarle o quantomeno per approssimarvisi, erano dunque, alla data dell’incontro pavese, componenti stabili del contesto politico-economico e del dibattito che andava svolgendosi: l’aggravarsi delle tensioni accentuava inoltre il convincimento che non soltanto fosse urgente intervenire, ma che modalità e meccanismi di intervento dovessero essere quanto più possibile prossimi proprio a quelle strutture “a tendere” che da tempo erano stati individuate: il fatto poi che su di esse non si desse unanimità di propositi era, ed è tuttora, fattore eminente di tensioni ulteriori, e quindi del permanere dello stato di crisi. Come già il suo predecessore, l’attuale Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, rivolgendosi per la prima volta all’Assemblea della Banca[42], ribadiva nei seguenti termini un concetto già espresso da Draghi: “Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate hanno favorito l’emergere di squilibri interni, a lungo offuscati dall’euro e ignorati dai mercati…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…, che rischiano oggi di mettere a repentaglio l’intera costruzione”[43]. E, ricordando i lineamenti essenziali dell’assetto-obiettivo dell’Unione, affermava: “Se si guardasse all’area dell’euro come a un’entità unitaria, nella forma ad esempio di uno Stato federale, non emergerebbero allarmi sulla tenuta del suo impianto monetario e finanziario, pur nella preoccupazione per le ripercussioni della crisi su ciclo economico, intermediari e mercati. Ma una unione politica in Europa ancora non c’è. Questo rende alla lunga l’unione monetaria più difficile da sostenere; sono necessari passi avanti concreti nella costruzione europea; va definito un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale, scandendone le singole tappe…Si devono rammentare le ragioni originarie fondamentali del progetto europeo, anche in sfere che trascendono l’agire economico”[44]. D’altra parte: “L’economia dell’area dell’euro è da tempo integrata; comprende oltre 300 milioni di cittadini, quasi venti milioni di imprese. Considerata nel suo insieme, ha conti con l’estero bilanciati e un debito del settore pubblico previsti quest’anno…[il 2012, n.d.r.]…poco sopra, rispettivamente, il 3 e il 90% del PIL; famiglie con una ricchezza finanziaria lorda che è 3 volte il loro reddito disponibile annuo e un indebitamento pari al reddito; un debito finanziario aggregato delle imprese pari al prodotto di un anno. Sono dati che configurano un’economia solida ed equilibrata, per molti aspetti più di altre aree avanzate del mondo…[corsivo non nel testo, ndr.]”[45]. È proprio in ragione della presenza di tali elementi che “Si avverte la mancanza di fondamentali caratteristiche di una federazione di Stati: processi decisionali che favoriscano l’adozione di politiche lungimiranti, nell’interesse generale; risorse pubbliche comuni per la stabilità finanziaria e per la crescita; regole davvero condivise e azioni concordate e tempestive sul sistema finanziario e sulle banche. Sono compiti e condizioni che esorbitano dalla sfera d’azione del Sistema europeo di banche centrali: investono responsabilità politiche, nazionali e comunitarie”[46]. Ne deriva che “…servono…manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica: se i governi, le autorità europee, la stessa Banca centrale europea valutano positivamente i progressi compiuti dai paesi in difficoltà nel risanamento finanziario e nelle riforme strutturali, ne deve seguire un loro impegno attivo a orientare in tal senso anche le valutazioni dei mercati. I differenziali attuali di rendimento dei titoli pubblici non sembrano tener conto di quanto è stato fatto: alimentano ulteriori squilibri, determinando una redistribuzione di risorse dai paesi in difficoltà a quelli percepiti più solidi; impediscono il corretto operare della politica monetaria unica; sono fonte di rischio per la stabilità finanziaria, un ostacolo alla crescita”[47]. Nel merito delle riforme da realizzare, si precisa che “La disponibilità di maggiori risorse comuni e anche l’istituzione da più parti proposta di un fondo ove trasferire i debiti sovrani che eccedano una soglia uniforme, da redimere gradualmente in tempi e modi ben definiti, sostanziano una forma di unione fiscale che non può essere disgiunta da regole cogenti, da poteri di controllo e intervento…L’azzardo morale di chi fida sull’aiuto altrui per perseverare nelle cattive politiche del passato va evitato con una forte pressione politica e normativa, esigendo il rispetto degli impegni concordati, sulla base di programmi ambiziosi ma nello stesso tempo realistici…Va accelerato il passaggio verso un sistema uniforme di regole e sorveglianza sul settore finanziario, in particolare nell’area dell’euro. Di pari passo occorre considerare l’istituzione di meccanismi di garanzia e assicurazione comuni, in grado di rasserenare i risparmiatori, prevenire il panico e fughe destabilizzanti di capitali. Progressi rapidi nella costituzione di un fondo europeo per la risoluzione delle crisi bancarie contribuirebbero a ridurre l’incertezza sui mercati”[48].
Ancora una volta, comunque, alle severe considerazioni di fondo del Governatore corrispondevano, nel corpo della Relazione, sia un apprezzamento complessivo degli sforzi compiuti nella direzione di assetti strutturali più adeguati (“I governi e le istituzioni europee hanno definito un insieme di interventi volti a rafforzare la disciplina di bilancio, a coordinare le politiche economiche, a gestire gli squilibri macroeconomici e le crisi finanziarie, nonché a dare impulso alle riforme strutturali”[49]), sia la constatazione di dati oggettivi di massima favorevoli. Una volta ancora, tuttavia, la mancanza di progressi definitivi – e percepiti come tali – verso l’adozione sia di “processi decisionali che favoriscano l’adozione di politiche lungimiranti, nell’interesse generale” sia di “regole davvero condivise e azioni concordate e tempestive sul sistema finanziario e sulle banche” si è resa manifesta, determinando la necessità di ulteriore sostegno finanziario a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo da parte di FMI, EFSM e EFSF. Il meccanismo in capo all’EFSF è stato inoltre potenziato, ammettendo – fra l’altro – la possibilità che il suo intervento si realizzi acquistando titoli di Stato dei paesi membri sui mercati sia primario che secondario e finanziando la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie: quanto all’ESM, ne è stata anticipata l’entrata in vigore al luglio 2012, è stata prevista la possibilità di voto a maggioranza qualificata in luogo dell’unanimità nel caso di decisioni urgenti in materia di assistenza finanziaria, è stata ampliata la gamma degli strumenti operativi disponibili, è stata anticipata la data prevista per il versamento della dotazione iniziale di capitale. La crescente consapevolezza della mancanza sia di regole di bilancio europee idonee a garantire “l’adozione di politiche prudenti nelle fasi favorevoli del ciclo economico per consolidare i conti pubblici”[50], sia di un sistema di sorveglianza multilaterale funzionale a prevenire e correggere squilibri macroeconomici, sia ancora di “meccanismi di intervento per situazioni di grave crisi finanziaria di uno Stato membro”[51], ha inoltre spinto la Commissione a proporre (novembre 2011) l’adozione di due nuovi regolamenti, il primo contenente “disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri della zona euro”, il secondo contenente disposizioni “sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria nella zona euro”. È inoltre entrato in vigore (dicembre 2011) il cosiddetto six-pack, complesso di cinque regolamenti più una direttiva intesi a rafforzare le regole di bilancio europee introducendo “nuove procedure per la prevenzione, rilevazione e correzione di squilibri macroeconomici”[52]: il six-pack rende inoltre operativa la “regola del 60%” prevista dal Trattato di Maastricht, regola che fissa l’incidenza massima ammissibile del debito sul prodotto, unitamente all’indicazione dei percorsi di rientro per i paesi con un debito eccedente, nonché delle circostanze – ad esempio di carattere ciclico – che consentono di non avviare automaticamente la procedura per disavanzi eccessivi. Successivamente (marzo 2012) è stato sottoscritto il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”: nella parte conosciuta come fiscal compact, il Trattato “impegna i paesi firmatari a inserire nella legislazione nazionale, preferibilmente a livello costituzionale ed entro un anno dalla sua entrata in vigore, una norma che preveda il raggiungimento e mantenimento del pareggio o di un avanzo di bilancio in termini strutturali e un meccanismo automatico in caso di scostamento…”[53].
A un anno di distanza dalla sua prima Relazione Annuale come Governatore, Ignazio Visco, nel sottolineare, nella stessa occasione, che “Il rilancio dell’area dell’euro ha bisogno dell’apporto di tutte le politiche economiche”[54], ricordava: 1) che “Ricorrendo anche a strumenti ‘non convenzionali’, la politica monetaria ha dato un contributo essenziale a evitare gravi conseguenze per la stabilità finanziaria…abbiamo mirato prima di tutto a sostenere la liquidità delle banche, che nell’area dell’euro più che altrove svolgono un ruolo preminente nel finanziamento dell’economia”[55]; 2) sottolineava per altro come i livelli raggiunti dai tassi sovrani nell’area euro “riflettessero non solo il deterioramento delle prospettive nazionali di crescita, ma anche un fattore di rischio sistemico, poi definito ‘rischio di ridenominazione’, connesso con timori di disgregazione dell’unione monetaria dovuti anche all’incompletezza del suo disegno istituzionale [corsivo non nel testo…n.d.r.]”[56]; 3) dava inoltre conto non solo dell’ “utilizzo flessibile ed efficiente dei meccanismi di sostegno finanziario” (EFSF e ESM) approvato nel giugno 2012 “al fine di stabilizzare le condizioni di finanziamento degli Stati esposti alle tensioni sul debito sovrano, purché questi rispettassero gli impegni assunti a livello europeo”, ma altresì dell’introduzione – nel successivo mese di agosto – “delle ‘operazioni monetarie definitive’ (Outright Monetary Transactions, OMT) di acquisto sul mercato secondario dei titoli di Stato, senza limiti quantitativi [corsivo non nel testo, n.d.r.]” [57], e con riferimento alle quali l’Eurosistema non sarebbe stato considerato un creditore privilegiato. Obiettivo delle OMT, prefigurate nel “discorso di Londra” di Mario Draghi del 26 luglio dello stesso anno[58], era di impedire che forti tensioni al rialzo dei tassi sui mercati dei debiti sovrani ostacolassero il finanziamento a condizioni sostenibili di banche e imprese, aggravando quindi le spinte recessive nei paesi interessati, quelli cioè che si trovavano in difficoltà macroeconomica grave e conclamata e che in ragione di ciò aderivano a un programma di aiuto finanziario da parte dello EFSF o dello ESM: la liquidità immessa sul mercato a seguito di tali operazioni sarebbe stata inoltre “sterilizzata” per evitare il pericolo di effetti indesiderati sull’andamento del livello generale dei prezzi. Ma “La politica monetaria è in grado di garantire la stabilità solo se i fondamenti economici e l’architettura istituzionale dell’area sono con essa coerenti…Più di ogni condizione è però essenziale la comune determinazione a procedere verso una piena Unione europea: monetaria, bancaria, di bilancio, infine politica [corsivo non nel testo, n.d.r.]”[59], da conseguirsi al compimento di un percorso di integrazione: prodromici a essa sono sia il progetto di unione bancaria finalizzato “a spezzare la spirale tra debito sovrano e condizioni delle banche e del credito”, sia il progetto di un bilancio pubblico comune dell’area dell’euro, con il connesso proposito di “intraprendere, in via sperimentale, l’emissione di titoli di debito congiunti [corsivo non nel testo…n.d.r.]”[60].
- Eurobond: i contenuti di un volume
Collocati cronologicamente a metà strada fra la conclusione dei lavori del Gruppo di riflessione sul futuro dell’UE e la Relazione Annuale della Banca d’Italia del 2012 (la prima di Ignazio Visco) e pressoché contemporanei a quella dell’anno precedente (l’ultima di Mario Draghi), i contributi raccolti nel volume richiamato nella nota 1) partecipano di tesi, convincimenti, previsioni, preoccupazioni, auspici, tecnicismi che si rinvengono, variamente distribuiti, in tutti i documenti uffuciali ai quali si è fatto riferimento. L’orientamento di fondo, marcatamente avverso (ma senza eccessi dottrinari) all’approccio intergovernativo tuttora prevalente (e favorevole invece, per dirla con Paul De Grauwe, a procedure di decisione idonee a internalizzare le esternalità, che è poi il compito di ogni vero Governo), sembra quasi avere tratto ispirazione anche dall’ambiente intellettuale, quello pavese, nel quale l’incontro si era svolto.
A due dei contributi contenuti nel volume, rispettivamente di Alberto Botta e di Marcello Messori, sarà rivolta un’attenzione particolare, precisando tuttavia che anche gli altri (di Alberto Majocchi, di Dario Velo, di Vincenzo Visco e di Jacques Ziller, nonché la Presentazione di Franco Osculati e la nota introduttiva di Silvio Beretta) condividono la medesima impostazione di fondo. Alberto Botta, in particolare, propone un modello analitico utile a contrastare l’ “ortodossia della virtù” attualmente prevalente in Europa, inquadrando in una prospettiva post-keynesiana (à la Minsky) la relazione fra crisi dei debiti sovrani e instabilità finanziaria. Le misure di salvataggio attuate a favore di istituzioni finanziarie in difficoltà darebbero luogo, nell’opinione dell’autore, a comportamenti di mercato riconducibili alla categoria delle self-fulfilling expectations, innescando in successione “fuga” dai titoli pubblici, aumento dei rendimenti, aggravamento della gestione del debito, ‘avvitamento’ recessivo del sistema; nel tentativo di rassicurare i mercati si finirebbe con il porre in essere politiche di bilancio restrittive che determinerebbero un appesantimento degli stessi conti pubblici a danno delle prospettive di crescita (‘prima priorità’ secondo il Gruppo di riflessione sul futuro dell’UE, che già aveva lamentato i potenziali effetti recessivi delle misure di contrazione della spesa); il perseguimento dell’obiettivo della crescita richiederebbe, all’opposto, politiche espansive finalizzate al miglioramento di produttività e competitività, ma queste risultano inattuabili proprio in ragione delle loro prevedibili conseguenze sui comportamenti degli operatori. Gli eurobond, in quanto strumento di integrazione fiscale fra i membri dell’Unione, indispensabile all’attuazione di politiche di bilancio che contrastino le conseguenze reali delle crisi finanziarie promuovendo la crescita di lungo periodo, determinerebbero – e simboleggerebbero – proprio quella discontinuità istituzionale che (in quanto manifestazione della “volontà irrevocabile di preservare la moneta unica” auspicata dal Governatore Visco) appare condizione indispensabile per superare l’asimmetria strutturale caratteristica dell’assetto dell’Unione quale oggi registriamo: un’esperienza costituente davvero singolare per altro, quella europea, caratterizzata dal fatto di prefiggersi la Costituzione come obiettivo e non invece, come nell’esperienza statunitense, dal fatto di farvi riferimento come presupposto. Su tale assetto, ripercorrendo le vicende più significative delle istituzioni monetarie e di bilancio dell’Europa, si sofferma Dario Velo, che sottolinea come quella singolarità costituisca il cuore del problema, oltre che un potente fattore di vantaggio a favore degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa: la risposta statunitense alle situazioni di crisi risulta infatti, come mette in evidenza Alberto Majocchi nel suo contributo, più incisiva e tempestiva in ragione dell’agire congiunto di un processo decisionale federale – e non confederale, come tale governato dalla logica del ‘coordinamento’, strutturalmente inidonea a far fronte alle situazioni di urgenza – e dall’assenza dei vincoli unanimistici che tuttora regolano, in Europa, gli interventi in materia fiscale; riferendosi in particolare a De Grauwe, ma poi anche ad Amartya Sen, Majocchi sottolinea l’onerosità dei vincoli che i comportamenti dei mercati finanziari impongono ai paesi che partecipano a una Unione monetaria (Spagna), rispetto a quelli che mantengono il controllo della moneta nella quale emettono i propri titoli di debito (Regno Unito).
Al tema degli eurobond, strumento finalizzato alla provvista di risorse finanziarie indispensabili alla realizzazione di un piano di rilancio della produttività e della competitività dell’Europa e alla produzione di quei “beni pubblici europei” che sono condizione della sua crescita (da progettare congiuntamente alla garanzia di risorse di bilancio proprie a favore dell’Unione), sono dedicati gli ulteriori tre saggi del volume. Quello di Marcello Messori ripercorre le crisi di alcuni debiti sovrani europei e la conseguente attivazione di meccanismi europei di stabilizzazione finanziaria (EFSM, EFSF, ESM), sottolineandone l’inadeguatezza a risolvere il problema del “debito sovrano europeo” in contesti di persistenti tensioni di mercato e di difficoltà crescenti in settori rilevanti di alcuni sistemi bancari. Viene proposta, come soluzione strutturale, l’istituzione di una European Debt Agency (EDA), sostitutiva tanto dell’EFSF quanto dell’ESM, operante secondo regole (di particolare interesse risulta il proposto meccanismo dell’asta inversa) per quanto possibile ‘di mercato’, idonee a massimizzare la compatibilità fra gli interessi – tuttora divergenti – dei paesi ‘periferici’ e di quelli dei paesi ‘centrali’, di quelli del Sude di quelli del Nord dell’Europa. Nel suo contributo Vincenzo Visco ribadisce poi la proposta di attivare un Fondo, separato dai bilanci pubblici dei singoli paesi, per gestire l’extra-debito determinato a loro carico dalla crisi finanziaria, “sterilizzandone” quindi le conseguenze, particolarmente quelle recessive: al Fondo sarebbe quindi affidato, sulla base di entrate proprie derivanti dal gettito di un’imposta sulle transazioni finanziarie, sia il compito di gestire collettivamente e autonomamente una quota dei debiti sovrani, sia quello di fare fronte alle necessità di ricapitalizzazione di istituti bancari. Jacques Ziller, infine, dopo avere sottolineato la scarsa attenzione della letteratura giuridica nei confronti delle problematiche collegate agli eurobond, consiglia di riferire ciascuna eventuale emissione al nome del paese emittente: sottolineando poi la necessità di procedere (in caso di attivazione) a una riforma dei Trattati, riconduce il problema alla sua sostanza politica, che sarà oggetto di una dichiarazione esplicita contenuta nelle Considerazioni finali del Governatore Visco del 2012 e ribadita in quelle dell’anno successivo, ma che era già ben presente tanto al Gruppo di riflessione sul futuro dell’UE quanto al Governatore Draghi in sede di Assemblea della Banca d’Italia dell’anno precedente: l’impossibilità cioè di perseguire l’obiettivo eurobond, equivalente a quello della “mutualizzazione” dei debiti sovrani degli Stati membri, in assenza di una politica del tesoro comune, anzi di un Tesoro comune[61].
- Il “cuore del problema” e le tesi di Hamilton
Il periodo intercorso fra la Relazione Annuale della Banca d’Italia del 2012 e la redazione di questa nota ha visto succedersi, alternarsi e confliggere – enfatizzati dalla percezione di una crescente generalizzata precarietà del sistema internazionale delle interdipendenze – numerosi e rilevanti eventi, molti dei quali hanno assunto – in Europa – la forma di riunioni e consultazioni di ‘vertice’. Ma gli elementi costituzionali dell’assetto “a tendere” dell’Europa stanno già tutti nelle Considerazioni finali del Governatore Visco del 2012: e tutti sono sintetizzabili nell’unione politica del continente come obiettivo del quale prevedere e realizzare alcuni degli elementi costitutivi: processi decisionali compatibili con il perseguimento dell’interesse generale continentale, messa in comune di risorse in vista di tale obiettivo, regolamentazione “europea” dei sistemi bancari e finanziari. La discussione non può quindi che rivolgersi con particolare impegno proprio agli eurobond in quanto, operativamente e simbolicamente, atto forte estrutturale di “messa in comune” e, in quanto tali e al di là dei tecnicismi delle numerose proposte, ‘segno di contraddizione’ fra visioni divergenti della costruzione europea. È proprio per questa ragione che, a oltre un anno dall’incontro di Pavia, riproporre (con altri) i contributi discussi in quella sede ha significato ribadire un elemento centrale dell’unificazione europea, ma soprattutto andare al ‘cuore’ del problema condividendo l’opinione secondo cui “Chi è in prima linea per salvare l’euro e fronteggiare la crisi sta…prendendo coscienza della natura sostanzialmente politica delle difficoltà che l’Europa deve fronteggiare e del fatto che il pesantissimo e prolungato attacco speculativo contro l’euro dei mesi scorsi è da imputare innanzitutto alla fragilità di un’unione monetaria che, priva di strumenti di governo efficaci, non riesce ad affermare le potenzialità dell’area che rappresenta e rischia di farsi trascinare nel baratro dalle situazioni di maggiore debolezza”[62]. L’alternativa (ad avviso di chi scrive non più a lungo sostenibile) conduce invece a inseguire ogni emergenza con interventi sempre meno incisivi seppure caratterizzati da “architetture” sempre più sofisticate: qualora si percorresse questa strada, quando cioè si seguisse una “politica di timidezza e di prudenza…del rallentatore…infine di sfiducia”, si sarebbe sempre “…‘en arrière d’une année, d’une idée et d’une armée’ come l’esercito degli Asburgo”[63]. La via maestra è invece indicata, e proprio con riferimento al problema dei debiti sovrani, dalle vicende della federazione paradigmatica, gli Stati Uniti d’America, e in particolare dagli esiti dell’acceso, prolungato dibattito svoltosi fra Alexander Hamilton e Thomas Jefferson (affiancato da James Madison e da John Taylor) lungo gli anni ’90 del Settecento[64]. Furono le tesi ‘sviluppiste’, ‘industrialiste’ e favorevoli al capitalismo finanziario sostenute da Hamilton (che riecheggiavano Hume e Mandeville e che Hamilton espose nei Reports del 1790-91 sul credito pubblico, sulla Banca centrale e sulle manifatture) a prevalere su quelle, conservatrici e di matrice mercantilista da “Repubblica di liberi agricoltori” di ispirazione rousseauiana, di Jefferson. Da quella vicenda emersero – nel 1791 – sia la First Bank di Filadelfia sia, più in generale, un assetto forte di Stato federale, contrapposto al modello agricolo fondato sull’autonomia delle repubbliche americane[65]. Fra le tesi di Hamilton, che alla fine prevalsero, strategica si rivelò proprio quella che sosteneva l’assunzione dei debiti degli Stati da parte dell’Unione, alla quale si sarebbero affiancati tanto una Banca nazionale autorizzata a emettere moneta e a fare credito al governo federale quanto un governo federale che assumeva su di sé l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle imprese manifatturiere in vista dell’indipendenza economica e del progresso generale dell’Unione stessa.
- Una digressione conclusiva: rivisitazioni keynesiane[66]
7.1 Gli argomenti sviluppati in precedenza consentono di individuare fin da ora, intorno al tema (e, in qualche misura, con il pretesto) degli eurobond, almeno due percorsi di riflessione, distinti ma integrabili, in merito a problemi di attualità e di rilevanza primarie sotto i profili sia analitico sia di policy. Quanto al primo percorso, il suo ambito tematico, nonché ‘cuore’ del discorso, resta il “maestoso esperimento” del quale l’Europa è protagonista[67], pur con i tanti fattori problematici che ne hanno contrassegnato – e continuano a ostacolarne – gli sviluppi nella direzione “a tendere” più volte ribadita, ma anche con gli aggiustamenti di volta in volta escogitati, e che tutti insieme ne fanno comunque “una formazione di tipo statuale: incompleta, imperfetta, ma reale”[68]. In questo ambito i riferimenti critici sono stati e restano, in particolare: il progressivo indebolimento della compattezza e della capacità decisionale dell’Unione in seguito ai successivi allargamenti; la “crisi profonda, o [la] concreta minaccia di una crisi imminente”,shock esogeno da ‘utilizzare’ per sollecitare quel “forte soprassalto delle coscienze dei politici e dell’opinione pubblica”[69] necessario a fronteggiare i “gruppi di pressione nazionali…[che]…prosperano in un ambiente chiuso creato da politiche economiche nazionali”[70], così da consentire di “abbandonare un approccio comparativo per lavorare come una vera Unione”[71]; lo short termism, la “veduta corta” di Tommaso Padoa-Schioppa, che caratterizza l’orizzonte delle classi politiche europee, condizionate dalla sempre incombente preoccupazione per le proprie scadenze elettorali[72], quella veduta corta che ha fatto sì che “La sorveglianza europea sulle politiche di bilancio nazionali…si è dimostrata carente proprio nel momento in cui diventava essenziale”, costringendo l’Unione a fare fronte alla prova “più difficile dalla sua creazione”[73], dovendo porre rimedio anche a ”Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate…[che]…hanno favorito l’emergere di squilibri interni”[74]; infine la conseguente, straordinaria contraddizione fra un’ “…economia dell’area dell’euro…da tempo integrata…un’economia solida ed equilibrata, per molti aspetti più di altre aree avanzate del mondo” e con risultati aggregati mediamente migliori degli obiettivi indicati negli aggiornamenti dei programmi di stabilità, da una parte, e la carenza, dall’altra, di “processi decisionali che favoriscano l’adozione di politiche lungimiranti, nell’interesse generale”, carenza a sua volta attribuibile, in ultima istanza, al fatto che “…una unione politica in Europa ancora non c’è”[75]: ed è dall’ “incompletezza del…disegno istituzionale” che conseguono, quasi obbedendo a una logica di causalità circolare, tanto i timori di disgregazione dell’unione monetaria con il conseguente “rischio di ridenominazione” dei debiti sovrani dei paesi membri, quanto la necessità della “comune determinazione verso una piena Unione europea: monetaria, bancaria, di bilancio, infine politica”[76].
Se quello delle istituzioni europee e della loro incompletezza è il primo percorso di riflessione, il secondo ‘interseca’ il primo individuando, proprio a carico del “maestoso esperimento” europeo, i contenuti-obiettivo reali più impegnativi nell’attuale contesto di crisi: ma è proprio rispetto a tali obiettivi (alla valorizzazione del capitale umano da promuovere, alla politica energetica comune da perseguire, ai cambiamenti climatici da fronteggiare, alla sfida demografica con cui confrontarsi e alla sicurezza interna ed esterna da assicurare in un mondo ormai policentrico) che quelle istituzioni manifestano le proprie debolezze strutturali da tempo individuate ma troppo spesso ignorate. Proprio in quanto incomplete tali istituzioni sono inoltre inadeguate ad assumere come obiettivi primari le priorità economiche funzionali alle esigenze di uno scenario di crisi, prime fra tutte la creazione di posti di lavoro e la crescita, sia astenendosi dal sollecitare tagli di spesa “sfasati” rispetto allo stato dell’economia e quindi incompatibili con tali priorità, sia potenziando il livello comunitario di decisione (e di intervento), potendo altresì, per tale via, attivare la “mutualità” indispensabile per fare fronte alle necessità degli Stati membri in difficoltà.
Emerge con chiarezza, da quanto detto, la logica circolare che caratterizza i due percorsi di riflessione accennati, tanto più quando questi vengano attivati congiuntamente. Essa procede dalla riconosciuta inadeguatezza del disegno istituzionale dell’Europa, che alimenta timori di disgregazione dell’unione monetaria; questi a loro volta, in quanto innestino comportamenti “nazionali” disincentivanti rispetto alla realizzazione di una struttura decisionale pienamente federale, ostacolano la presa di coscienza operativadelle priorità reali (economiche e non) dell’Unione; ne impediscono il perseguimento a motivo delle prevedibili conseguenze in termini di instabilità e divaricazione ulteriori fra Stati membri, conseguenze che tuttavia discendono proprio dal paradosso costituzionale più volte richiamato; danno origine a fenomeni di concorrenza per l’acquisizione delle risorse finanziarie, determinando flussi che tendono a muoversi in direzione opposta rispetto alle esigenze di riequilibrio interno dell’Unione, accentuando quindi sia l’instabilità sia la divaricazione; allontanano di conseguenza dall’orizzonte dell’Europa quell’affidamento sull’iniziativa dell’UE ai fini della ripresa economica, che sola può farsi carico di tali priorità e della quale proprio gli eurobond sono, nel contempo, strumento, risultato e simbolo.
7.2 In questo contesto si registra paradossalmente, fra i policy maker ma altresì nell’opinione pubblica e nella stampa, il consolidarsi di una sorta di “ortodossia della virtù” come regola di governo dei sistemi economici dell’Unione. Non meraviglia quindi che, in queste circostanze “ambientali”, e come reazione a queste, la rivisitazione di Keynes rappresenti una pratica diffusa, al pari del recupero dei lavori di Hyman Minsky[77], a sua volta un biografo di Keynes[78]. Occasione di un recente dibattito è stata, ad esempio, l’edizione italiana di Two Memoirs [79], introdotta da un saggio di Giorgio La Malfa. La prima delle due memorie, letta da Keynes il 2 febbraio 1921 ai membri del Memoir Club, il circolo fondato l’anno prima a Cambridge nonché successore del Bloomsbury Group, rievoca – attraverso la figura del banchiere ebreo Melchior, negoziatore tedesco alla Conferenza di pace di Parigi e al pari di Keynes anzitempo dimissionario – le drammatiche vicende che portarono, nel 1919, alla definizione delle condizioni di pace fra i belligeranti. Rappresentante del Tesoro britannico in seno al Supremo Consiglio Economico presieduto da Lord Robert Cecil (a questi verrà conferito nel 1937 il Premio Nobel per la pace) fino al 7 giugno di quell’anno, Keynes visse e contribuì a condurre dalla parte dei vincitori – pur criticandone aspramente metodi e atteggiamenti, dei quali previde le catastrofiche conseguenze[80] – le interminabili discussioni sui termini economici degli accordi (riparazioni, oro, prestiti, flotta tedesca da consegnare, approvvigionamenti alimentari da convogliare verso la Germania sconfitta nonché modalità e combinazioni diverse di questi elementi) in un clima politico condizionato dall’arroganza irresponsabile dei francesi e dall’ondivaga irresolutezza degli anglo-americani, a illustrare la quale basti la descrizione che Keynes fa di qualche concreta motivazione statunitense nel riferire dell’entusiastica disponibilità di Wilson nei confronti dei rifornimenti alimentari da inviare in Germania. “Il presidente Wilson – ricorda Keynes – …si profuse in nobili e retorici sforzi…Egli confidava nel fatto che…il ministero delle Finanze francese ritirasse le sue obiezioni, poiché occorreva fronteggiare i grandi problemi posti dal bolscevismo e dalle forze che minacciavano di condurre la società alla dissoluzione…ma le motivazioni degli uomini sono spesso ambigue. Al suo fianco c’era Hoover…[Herbert Hoover, in seguito presidente degli Stati Uniti, era allora US Food Administrator, n.d.r.]…che…aveva promesso agli agricoltori americani un prezzo minimo per la carne di maiale, causandone la sovrapproduzione, con il conseguente crollo dei prezzi. Il Congresso si era rifiutato di stanziare i fondi necessari per mantenere la promessa…Gli americani hanno proposto che si riversino sulla Germania i grandi stock di pancetta di bassa qualità in nostro possesso, e li si rimpiazzi con stock più freschi e vendibili. Dal punto di vista alimentare sarebbe chiaramente un buon affare per noi…La situazione è curiosa. L’embargo nei confronti dei paesi neutrali sta per essere revocato e la Germania potrà presto rifornirsi di grassi su scala molto generosa. È necessario sconfiggere il bolscevismo e dare il via a una nuova era. Al Supremo Consiglio di guerra il presidente Wilson è stato molto eloquente circa la necessità di un’azione tempestiva in linea con questi princìpi. Ma, in realtà, a ispirare le sue parole sono le abbondanti e costose scorte di carne di maiale, da scaricare a ogni costo su qualcuno, nemici o alleati che siano. I sogni di Hoover pullulano di maiali, ed egli si dichiara pronto a tutto pur di scacciare l’incubo…[corsivo non nel testo…n.d.r.]…“[81]. E di seguito, nel riferire di un accalorato intervento di Lloyd George a favore dello sblocco dei rifornimenti alla Germania, Keynes osserverà che: “Era in gioco l’onore degli Alleati. Le condizioni dell’armistizio prevedevano che questi ultimi consentissero alla Germania di procurarsi derrate alimentari. I tedeschi avevano accettato clausole sufficientemente severe, e le avevano quasi sempre rispettate, ma finora non una sola tonnellata di cibo era stata inviata in Germania. Alla flotta tedesca si era addirittura impedito di andare a pescare un po’ di aringhe….Si permetteva che i tedeschi soffrissero la fame, mentre centinaia di migliaia di tonnellate di viveri giacevano a Rotterdam…Si stava seminando odio per il futuro, e si creavano i presupposti di una situazione drammatica non tanto per i tedeschi quanto per gli stessi Alleati…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…”[82]. Fra intransigenze vendicative, equilibrismi diplomatici e interessi non confessati emergeva, dando origine a un sodalizio che sarebbe durato oltre i rispettivi mandati (e le rispettive dimissioni) proprio la figura del banchiere Melchior, del quale Keynes scriverà che “…parlava in tono pacato e senza pause, offrendo una straordinaria impressione di sincerità. Il suo compito più arduo…era quello di tenere a freno i colleghi…[gli altri membri della delegazione tedesca,n.d.r.]…, sempre pronti a intervenire a sproposito con appelli indecorosi, o con bugie…così sciocche che non avrebbero ingannato il più stupido degli americani. Questo ebreo…era il solo depositario della dignità degli sconfitti…[corsivo non nel testo…n.d.r.][83]. Incontrandolo di nuovo ad Amsterdam nell’ottobre del 1919 (Keynes era già tornato a Cambridge e Melchior aveva rifiutato per due volte la nomina a ministro delle Finanze del nuovo Stato tedesco) scriverà di lui: “Capii…fino in fondo quanto fosse intransigente, un moralista rigoroso e onesto, un adoratore delle Tavole della Legge, un rabbino. La violazione della promessa e della disciplina, il venir meno del comportamento onorevole, il tradimento degli accordi da una parte e l’insincera accettazione, dall’altra, di condizioni impossibili da rispettare, la Germania colpevole di essersi assunta impegni che non era in grado di mantenere quasi quanto gli Alleati erano colpevoli di aver imposto condizioni che non avevano diritto di esigere [corsivo non nel testo,n.d.r.]…: erano queste offese al Verbo che lo ferivano tanto”[84].
Dal ritratto che Keynes traccia del “nemico sconfitto” Melchior, come dall’intero racconto della sua esperienza di negoziatore emergono non soltanto la straordinaria attitudine di Keynes a essere protagonista di esperienze drammatiche di “gestione” di rapporti internazionali successivi a eventi bellici (senza successo dopo il primo conflitto mondiale, con largo ma non pieno successo dopo il secondo), ma anche la sua convinzione della necessità di relazioni cooperative fra gli Stati, particolarmente fra quelli europei, per l’organizzazione pacifica della convivenza universale: in fondo quella stessa superiore finalità di “governo razionale del mondo”, che necessita di una “cultura politica dell’unità del genere umano”, alla quale si è fatto cenno in apertura con riferimento al pensiero federalista di Mario Albertini[85]. E tale convinzione, drammaticamente rafforzata dall’esperienza del negoziato che si concluderà con la “pace cartaginese” del 1919, emergerà immediatamente, e con rinnovata chiarezza, neLe conseguenze economiche della pace redatte di getto dopo il ritorno a Cambridge. “Ben pochi di noi – scriverà nel capitolo introduttivo – si rendono conto appieno del carattere fortemente insolito, instabile, complicato, incerto, temporaneo dell’organizzazione economica con cui l’Europa occidentale è vissuta nell’ultimo mezzo secolo. Consideriamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni dei più singolari e temporanei nostri vantaggi recenti, e ci regoliamo nei nostri piani di conseguenza. Su questa base precaria e ingannevole progettiamo miglioramenti sociali e allestiamo piattaforme politiche, coltiviamo le nostre animosità e le nostre particolari ambizioni…”[86]. Poco oltre, nel riandare con la mente alle trattative di pace, osserverà che “I lavori di Parigi avevano tutti quest’aria di straordinaria importanza e irrilevanza insieme. Le decisioni sembravano gravide di conseguenze per il futuro della società umana; eppure l’aria bisbigliava che il verbo non era carne, che esso era futile, insignificante, inefficace, dissociato dai fatti; e si aveva fortemente l’impressione…di eventi marcianti alla loro conclusione destinata, ininfluenzati dalle elucubrazioni degli statisti riuniti a consiglio…”[87]. Avviandosi verso la conclusione del saggio, Keynes scriverà poi che “L’Europa è il più denso aggregato di popolazione della storia del mondo. Questa popolazione è abituata a un tenore di vita relativamente alto, nel quale alcuni settori di essa si aspettano anche adesso un miglioramento anziché un declino…La fame, che genera in alcuni apatia e un inerme scoramento, spinge altri temperamenti a un’isterica instabilità nervosa e al furore della disperazione. E nella loro angoscia costoro possono abbattere quel tanto di organizzazione che resta e sommergere la civiltà stessa nel tentativo disperato di soddisfare i prepotenti bisogni individuali. Questo è il pericolo contro il quale tutte le nostre risorse e coraggio e idealismo devono adesso collaborare”[88]. Concludendo infine con l’auspicio di un intervento finanziario a favore dell’Europa, un prestito internazionale che a quel tempo solo gli Stati Uniti avrebbero potuto concedere, Keynes individuerà proprio nei particolarismi europei una delle principali obiezioni che sarebbero sorte quando tale intervento fosse stato proposto. Infatti “Niente garantisce che l’Europa farà buon uso di aiuti finanziari o che non li sperpererà, trovandosi da qui a due o tre anni a mal partito come adesso: …Se io avessi influenza presso il Tesoro statunitense non presterei un centesimo a nessuno degli attuali governi europei…Ma se…i popoli europei… ripudieranno i falsi idoli sopravvissuti alla guerra, e sostituiranno in cuor loro all’odio e al nazionalismo che ora li possiede pensieri e speranze di felicità e solidarietà della famiglia europea: allora la naturale pietà e l’amore filiale dovrebbero indurre il popolo americano a mettere da parte ogni meschina obbiezione di vantaggio privato, e a completare, salvando l’Europa da se stessa, l’opera iniziata salvandola dalla tirannia della forza”[89]. Riferendosi inoltre alla trama di relazioni di debito-credito che caratterizzava in quel dopoguerra i rapporti reciproci fra alleati e fra questi e gli ex-avversari (“La Germania deve un’enormità agli Alleati; gli Alleati devono un’enormità alla Gran Bretagna; e la Gran Bretagna deve un’enormità agli Stati Uniti”[90]), osservava che “L’intera situazione è artificiosa, fuorviante e vessatoria al massimo grado. Non riusciremo più a fare un passo se non districhiamo le gambe da questi ceppi cartacei. Un falò generale è una necessità così impellente, che se non vi provvediamo in modo ordinato e benigno, senza fare grave ingiustizia a nessuno, il falò quando infine avrà luogo diventerà un incendio che può distruggere molte altre cose insieme”[91].
7.3 I brani tratti dal saggio di Keynes del 1919 ben si prestano a una lettura contestuale che, pur rifuggendo da analogie forzate e resistendo alla tentazione di simmetrie imprudenti che finirebbero con il trascurare le ovvie differenze (da una parte un conflitto mondiale appena concluso, dall’altra una costruzione europea sviluppatasi in tempi di pace continentale, benché successiva a quel secondo conflitto europeo che Keynes aveva preconizzato), prenda tuttavia atto di qualche significativa regolarità, utile a individuare percorsi operativi adeguati anche all’odierna crisi dell’Europa. L’esistenza di analogie non sembra contestabile. L’instabilità della costruzione europea e delle sue istituzioni è infatti intrinseca all’approccio funzionalista che tuttora la governa e che la rende, per dirla con il Keynes del 1919, insolita,complicata, incerta e perciò temporanea, nel senso di reversibile fino al completamento federale. Altrettanto agevole è inoltre constatare la somiglianza fra i lavori della Conferenza di Parigi, nel contempo importanti e irrilevanti agli occhi di Keynes, e la fitta sequenza odierna di “vertici” europei, una modalità di decisione connaturata all’approccio intergovernativo. Allo stesso modo colpisce l’analogia fra l’immagine di un’Europa già allora assuefatta a livelli di benessere comparativamente elevati, e quindi poco incline ad accettare pacificamente arretramenti in questo campo, e i timori ricorrenti di rottura della coesione sociale che accompagnano, oggi, le situazioni di crisi in ragione delle conseguenze delle misure restrittive attuate per fronteggiarle. I particolarismi “nazionali” infine (effetto e causa dell’approccio funzionalista) continuano a rappresentare un fattore di freno nei confronti di ogni intervento “cooperativo”, sia quello esterno all’Europa (in quanto promosso dagli Stati Uniti, come auspicava Keynes nel primo dopoguerra), sia quello interno in quanto deciso (come oggi accade) dal sistema delle istituzioni europee. Precarietà istituzionale, scarsa efficienza dei processi decisionali, vischiosità sociale e propensione a comportamenti divergenti da parte degli Stati membri erano quindi allora, e rimangono, tratti distintivi dell’Europa: se manca l’eco drammatica di un conflitto appena concluso, resta profonda la preoccupazione per lo stato e le prospettive del processo di unificazione, per la natura potenzialmente cumulativa dei divari interstatali e per le conseguenze che questi determinano su modalità e tempi di “governo” della crisi.
7.4 vviandoci alla conclusione, ci proponiamo ora di raccogliere le fila delle considerazioni svolte, ordinando per punti alcune riflessioni:
7.4.1 Prendiamo di nuovo lo spunto dal lavoro di Spence citato in apertura. Talune sue conclusioni possono essere infatti riprese, in particolare dove egli rileva che “L’estensione e la densità delle dipendenze reciproche nell’economia globale si sviluppano molto più velocemente delle strutture per lagovernance globale. Forse la struttura di governance (la tartaruga) riacciufferà l’economia (la lepre), ma non è un esito che si possa dare per scontato…Tuttavia, gli sviluppi di questa evoluzione probabilmente avranno un effetto profondo sul futuro della crescita…di tutta l’economia globale. Questo disallineamento fra istituzioni e mercato crea, nella migliore delle ipotesi, delle tensioni. Difficilmente la globalizzazione potrà proseguire nella sua marcia se il divario continuerà ad allargarsi…È un problema di grande rilevanza per milioni di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo, perché…è l’economia globale che rende possibile la loro rapidissima crescita. L’integrazione economica ha i suoi limiti senza un processo parallelo di contruzione di istituzioni politiche sovranazionali efficienti e legittime…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…”[92]. Inoltre “L’economia resta il regno dell’interesse personale, ma la struttura politica non è unificata ed è composta da gruppi di individui, chiamati nazioni, che perseguono il proprio interesse individuale collettivo. Non c’è nessuna prova o teoria che indichi che una struttura del genere possa funzionare, in termini economici o politici, o che possa produrre risultati validi. Sul versante economico potrebbe rivelarsi instabile…L’equilibrio non cooperativo…è un sistema positivo, a patto che esista un’entità governativa credibile che persegua, anche se in modo imperfetto, l’interesse comune o collettivo…[corsivo non nel testo, n.d.r.]…È quello che fa lo Stato, in modi diversi…”[93]. Tuttavia “Nell’economia globale, l’elemento quasi del tutto assente è un governo mondiale efficace, in grado di perseguire l’interesse comune”[94], che cioè, in un contesto “di mercato” e limitatamente all’ambito economico, 1) garantisca il rispetto dei contratti, 2) individui le esternalità nonché le “insufficienze” di mercato derivanti da divari e da asimmetrie informativi e assuma al riguardo i provvedimenti di sua competenza, 3) fornisca i beni comuni la cui produzione non sarebbe altrimenti garantita. In un mondomultispeed in cui le istituzioni finalizzate a “produrre” comportamenti cooperativi sono, a dir poco, carenti, rileva in misura particolare la presenza di entità politico-istituzionali, di “aggregati di nazioni”, la cui presenza minimizzi, e comunque riduca, l’instabilità connaturata al sistema. Sono queste le considerazioni che rendono l’ “esperimento europeo” così strategico per gli equilibri mondiali: date ledimensioni dell’Unione in quanto sia considerata come un’entità unitaria e dato l’elevato grado diintegrazione della sua economia considerata come aggregato (lo ricorda Ignazio Visco nel passo richiamato nella nota 45), essa si presenta infatti come un potenziale produttore di stabilità, un partecipante strategico a un auspicabile “gioco cooperativo” su scala mondiale.
7.4.2 L’Europa in quanto Unione Europea, tuttavia, non possiede le caratteristiche idonee a candidarsi con successo a tale ruolo. Non può quindi concorrere alla produzione di relazioni cooperative planetariedal momento che non le ha prodotte, e non le produce, neppure al proprio interno in misura adeguata ad assicurare la propria stessa sopravvivenza, con quella degli obiettivi finora raggiunti (in particolare l’euro): l’Unione à infatti oggi, oggettivamente, un produttore di instabilità sia interna che esterna, particolarmente in un contesto di crisi come l’attuale che, per di più, va sperimentando quel grandioso fenomeno noto come “transizione a oriente”, che Giovanni Arrighi designa con l’espressione “deriva dell’epicentro dell’economia politica globale dall’America del Nord all’Oriente asiatico”[95] a vantaggio del cosiddetto China Circle secondo un modello interpretativo fondato sul concetto di “transizione egemonica”[96], e che, proprio in ragione della propria straordinarietà, dà luogo a un fabbisogno di cooperazione del pari straordinario, che l’Europa non contribuisce a soddisfare. Di tale inadeguatezza strutturale danno conto tanto il Gruppo di riflessione sul futuro dell’UE, che ne evidenzia le conseguenze con riferimento alle sfide reali incombenti (cfr. paragrafo 2), quanto i Governatori Draghi e Visco nel riferirsi alle modalità di gestione della crisi e ai limiti delle strategie e degli strumenti utilizzati per fronteggiarla (cfr. paragrafi 3 e 4).
7.4.3 Anche l’Europa con i cui policy maker Keynes si confrontò durante le trattative di pace del 1919 non produceva, e non avrebbe prodotto per lungo tempo ancora, alcun incentivo al ristabilimento di relazioni cooperative nei rapporti fra gli Stati del continente. Con il primo conflitto mondiale era andata infatti distrutta, con il gold standard, una delle istituzioni sulle quali poggiava la civiltà del diciannovesimo secolo, il meccanismo che regolava i rapporti economici fra gli Stati nel contesto del sistema internazionale di equilibrio delle potenze che, del primo, rappresentava la “controfaccia” politica in un rapporto – al solito – di reciproca interdipendenza. Al gold standard e all’equilibrio delle potenze, “cifra” del sistema internazionale prebellico, si affiancavano a loro volta, in quanto tratti distintivi interniai sistemi, il mercato autoregolantesi e lo Stato liberale. Seguendo Polanyi, “Messe assieme…[quelle quattro istituzioni, n.d.r.]…determinavano i lineamenti caratteristici della nostra civiltà”[97]. E furono quelle istituzioni a trovarsi, alla conclusione del conflitto e nonostante i successivi (spesso rovinosi) tentativi di restaurazione, in crisi profonda. Seguendo Gourevitch, alla “…forza dell’epoca, che trascende la particolarità delle circostanze” era andata succedendo – in quel tornante storico – “…la forza delle traiettorie nazionali, che esprime le caratteristiche specifiche della storia di ogni nazione” [98].
7.4.4 La stretta interrelazione individuata da Polanyi fra le quattro istituzioni anzidette (due interne e due esterne ai sistemi in equilibrio, due economiche e due politiche) rimanda poi, proprio in ragione del legame che le unisce, a una delle dimensioni interne nelle quali si manifestava la “forza dell’epoca”, particolarmente a quella che, per Polanyi, rappresenta la “…chiave del sistema istituzionale del diciannovesimo secolo”[99], cioè il mercato autoregolantesi (al quale venivano attribuite caratteristiche dinaturalità) e del quale lo Stato liberale costituiva una sovrastruttura, come l’equilibrio delle potenze lo era del gold standard. È proprio quest il ben noto nucleo centrale della sistematica keynesiana, come sottolinea ancora Giorgio La Malfa in un altro dei suoi contributi in argomento, l’introduzione a una raccolta di saggi dell’economista di Cambridge da lui curata[100] e che ha preso il titolo da uno dei testi keynesiani più noti, l’Am I a Liberal? del 1925. Nota infatti il curatore che “Nella Teoria generale Keynes si era concentrato sulla questione che a lui appariva fondamentale: dimostrare perché e in che modo il sistema economico capitalistico, lasciato a sé stesso, poteva dar luogo a situazioni di non pieno impiego della forza-lavoro, e provare che non esistevano meccanismi autocorrettivi capaci di ricondurre spontaneamente il sistema alla piena occupazione…Fatta la diagnosi, aveva anche individuato gli strumenti di politica economica – politica monetaria e spesa pubblica – con i quali intervenire quando le circostanze l’avessero imposto. Keynes additava così una ‘terza via’…”[101], che si sostanziava inpolitiche regolatrici, ed era quindi alternativa tanto al sovvertimento del sistema quanto alla pregiudizialeastensione da ogni intervento riequilibratore. E proprio da Keynes si ha conferma della interrelazione fra le “quattro istituzioni” di Polanyi: alla contestazione dell’esistenza di meccanismi autocorrettivi Keynes aggiungerà infatti, in uno scritto del 27 settembre 1931 (da qualche giorno l’Inghilterra aveva sospeso ilgold standard), il proprio compiacimento per quel provvedimento scrivendo: “Sono pochi gli inglesi che non esultano per la rottura delle nostre catene d’oro. Sentiamo di avere finalmente mano libera per fare ciò che è giusto. È finita la fase romantica…”[102].
7.4.5 Si è fatto riferimento sopra ad alcuni passi keynesiani, concernenti in particolare 1) il cruciale problema della natura (cooperativa/non cooperativa) delle relazioni fra Stati filtrato attraverso la personale esperienza di Keynes delle relazioni intraeuropee nel primo dopoguerra e 2) la non meno cruciale alternativa interventismo/automatismo in materia di governo dei sistemi economici rispetto all’obiettivo della piena occupazione: richiamando Polanyi, si sono inoltre sottolineati i collegamenti fra i due ambiti problematici. Torniamo ora all’Europa, di nuovo sulla scorta di un’ analisi dei suoi problemi strutturali che ancora Giorgio La Malfa aveva svolto già in un saggio del 2000, recentemente riedito con una prefazione di Paolo Savona e una nota introduttiva dell’autore[103]. Sono proprio il tema della cooperazione fra Stati e quello del governo dei sistemi per obiettivi di sviluppo a occupare un posto centrale nell’analisi. Bastino due riferimenti testuali: “…proprio perché l’UME è nata in assenza di una decisione preliminare sull’unione politica dell’Europa, nel fissarne le regole le diffidenze reciproche sono state più importanti delle convenienze comuni. Il Trattato di Maastricht non ha disegnato le istituzioni della politica economica dell’Unione Europea; ha cercato di limitare il rischio del contagio di alcuni Paesi finanziariamente solidi – o reputati tali – da parte di Paesi caratterizzati negli anni Settanta e Ottanta da condizioni di elevata inflazione e da squilibri nei bilanci pubblici. Per questa ragione si è voluto porre entro confini estremamente rigidi la politica monetaria comune e nello stesso tempo sterilizzare, attraverso il “patto di stabilità”, le politiche di bilancio dei Paesi membri”[104]. E più avanti “…nella sua attuale configurazione, l’UME non è in condizioni di svolgere una politica economica efficace per affrontare il problema del rallentamento dei tassi di sviluppo dell’economia europea: la BCE ha il compito esclusivo di tenere sotto controllo l’inflazione anche quando essa non c’è; la Commissione europea dispone di risorse limitate da impiegare nel sostegno dello sviluppo economico; i Paesi membri sono vincolati al pareggio del bilancio…Dunque, gli strumenti di politica economica sono sterilizzati. Senza una modifica del trattato e del “patto di stabilità”, l’Europa rinuncia alla politica economica ed è costretta ad affidare le sue speranze alle circostanze favorevoli che si possano determinare nell’economia mondiale e alle misure di politica economica adottabili dagli Stati membri, fra le quali principali sono la flessibilizzazione dei mercati del lavoro e la promozione della concorrenza. È troppo poco per essere tranquilli sul futuro”[105]. Un’architettura istituzionale incompleta, e quindi fragile, costruita con spirito di cautela, riflesso a sua volta della diffidenza originaria fra gli Stati membri, una Banca centrale mono-obiettivo e Stati nazionali politicamente responsabili di fronte ai propri cittadini elettori, ma vincolati dagli obblighi europei rispetto agli obiettivi dell’occupazione e dello sviluppo, che tuttavia l’Unione in quanto tale non è in grado di perseguire in misura adeguata ai bisogni: questo, in sintesi, lo scoraggiante giudizio di uno studioso sullo stato dell’Europa all’inizio del nuovo secolo, quando il cammino verso l’unione monetaria era sostanzialmente concluso e meno di due anni la separavano dall’introduzione materiale della nuova moneta, con la cessazione del corso legale di quelle preesistenti. Un giudizio sostanzialmente coincidente, quindi, con quello che, aggiornato alle nuove urgenze poste dalla crisi mondiale, sarà formulato dieci anni dopo dal Gruppo di riflessione sul futuro dell’UE. E non dissimile da quello di un altro studioso di problemi europei, Jean-Paul Fitoussi, esposto in un saggio del 2002[106]. Questi concentrerà la propria analisi sulla vexata quaestio del deficit democratico delle istituzioni europee, che fa del policy maker comunitario il protagonista di un governo delle regole (di mercato), ma non di un governo delle scelte sulle quali i cittadini si possano esprimere. La questione è riassumibile (e semplificabile) in un interrogativo: dal momento che l’Unione ha “svuotato” le sedi (statali) della sovranità inibendo loro l’utilizzo dei tradizionali strumenti della gestione macroeconomica, a quale centro di decisione saranno in capo alcuni obiettivi prioritari (in particolare quelli reali formulabili in termini di sviluppo e di occupazione) dal momento che la funzione-obiettivo del policy maker comunitario ha come argomenti la stabilità dei prezzi, l’equilibrio di bilancio e la libera concorrenza, ed è solo per il tramitedell’aumento dell’intensità della concorrenza nel mercato unico del lavoro e dei beni che quegli obiettivi, sotto il vincolo dell’equilibrio di bilancio, vengono perseguiti? Tanto è vero che il governo dell’Unione poggia, a tutti gli effetti, sui tre “pilastri” della Banca centrale europea, del Patto di stabilità e crescita sotto il controllo del Consiglio europeo e della Commissione, infine della Direzione generale della concorrenza della Commissione europea?[107].
Conclusione
Quale è quindi, per concludere, la rilevanza degli eurobond in relazione ai contenuti di questo scritto? Le ragioni della loro rilevanza stannno tutte nelle pagine che precedono. La sintesi di tali ragioni sta tuttavia nella funzione degli eurobond [108] di sancire rendendoli manifesti, quando fossero attivati e in virtù della loro stessa esistenza, i progressi compiuti dall’Unione nella direzione dell’integrazione fiscale fra i paesi membri, assicurando alla politica di bilancio europea risorse adeguate, e correggendo quindi l’asimmetria che oggi caratterizza la “scatola degli attrezzi” a disposizione dell’Unione e delle sue istituzioni: l’attuale attribuzione di tali strumenti a livelli/istituzioni di decisione differenti (Unione, Banca centrale e Stati) e il sistema di vincoli e di competenze che ne regolano il funzionamento risultano infattiincompatibili con il pieno conseguimento di alcuni degli obiettivi che sono argomento della funzione del benessere sociale continentale e che sono menzionati all’art. 2 del Trattato di Roma, che recita: “La Comunità ha il compito di promuovere…mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni…, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale,…una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici,…il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri”. Il fatto che già negli articoli del Trattato immediatamente seguenti (precisamente nell’art. 3A) e nei Trattati successivi l’ “orientamento alla stabilità” abbia assunto rilevanza prioritaria nulla toglie né alla portata politica di quella dichiarazione né alla rilevanza tecnicadella simmetria fra gli strumenti di politica macroeconomica. Rilievo primario avrebbe inoltre il progressivo formarsi sia di un mercato unificato di titoli sovrani denominati in euro, sia di uno stock di debito pubblico europeo, che rafforzerebbe l’efficacia degli strumenti di intervento a disposizione dell’Unione potenziandone i canali di trasmissione, analogamente a quanto accade a livello di singoli Stati. L’asimmetria attuale, fra strumenti di intervento e fra livelli di decisione, accentua invece le spinte centrifughe, divaricando ulteriormente gli Stati membri (una delle manifestazioni più preoccupanti è la tendenza alla frammentazione dei mercati finanziari della zona euro, cioè alla loro rinazionalizzazione), specie quando shock esogeni si sovrappongano a squilibri strutturali preesistenti e non superati: l’obiettivo prioritario dei decisori dovrebbe essere, all’opposto, quello di rafforzare ogni istituzione idonea a internalizzare le esternalità in vista della produzione di beni pubblici transnazionali quali, ad esempio, la sicurezza e la stessa crescita europee. L’ “ortodossia della virtù” oggi praticata è invece un potente promotore di comportamenti non cooperativi, quasi un incentivo alla produzione e alla proliferazione di quelle esternalità negative contro il cui prevalere Keynes si era invano battuto nel primo dopoguerra.
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Note
[1] S. Beretta – F. Osculati (a cura di), Verso un debito pubblico europeo?, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.
[2] M. Spence, The Next Convergence. The Future of Economic Growth in a Multispeed World, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2011 (trad. it., La convergenza inevitabile. Una via globale per uscire dalla crisi, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012).
[3] M. Spence, ivi, p. 312 della trad. it.
[4] M. Spence, ivi, p. 315.
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[6] N. Mosconi, Premessa in M. Albertini, Tutti gli scritti, Vol. VII, 1976-1978, Bologna, il Mulino, 2009, p. 17.
[7] M. Albertini, Note sulla democrazia in Id., Tutti gli scritti, Vol I, 1946-1955, p. 79.
[8] M. Albertini, L’Italia non si salva senza l’Europa, in Id., Tutti gli scritti, Vol. IX, 1985-1995, Bologna, il Mulino, 2010, p. 943.
[9] F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I (Il senso della storia) e Vol. II (La battaglia per la Federazione europea), Bologna, il Mulino, 2009. Il riferimento è a G. Vigo, Introduzione in F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I, cit., pp. 25-6 dove, citando Albertini, Vigo precisa che “Si tratta…di introdurre nella costituzione dello Stato federale una norma…in modo che l’elezione degli organi del livello inferiore preceda sempre quella degli organi del livello superiore, e che l’intero processo – dalle elezioni di quartiere a quelle federali – si svolga in un tempo sufficientemente breve da consentirgli di conservare una fisionomia unitaria. In tal modo, l’elaborazione di programmi da parte delle forze che si affronterebbero ad ogni livello…risulterebbe necessariamente dallo sforzo di operare un sintesi, in una dimensione più vasta, tra i problemi e le esigenze emerse dal dibattito elettorale ai livelli inferiori”.
[10] G. Vigo, Introduzione in F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I, cit., p. 28.
[11] F. Rossolillo, Relazione al XXI Congresso del Mfe (Firenze, 21-23 marzo 2003) in Id., Senso della storia e azione politica, Vol. I, cit., p. 203. A questo passo fa riferimento anche G. Vigo in Introduzione, cit., p. 29.
[12] M. Ruta, Perché fallisce Lisbona, in S. Beretta – J. Ziller (a cura di), Nei labirinti dell’Europa, “Il Politico – Temi e problemi”, settembre-dicembre 2008, pp. 108-32.
[13] Citato da “The Economist”, 15 marzo 2007.
[14] M. Ruta, Perché fallisce Lisbona, cit., p. 132.
[15] Per una sintetica ricostruzione del profilo scientifico di Tommaso Padoa-Schioppa cfr. S. Rossi, Tommaso Padoa-Schioppa economista, in “Rivista italiana degli economisti”, aprile 2011, pp. 3-7.
[16] Il passo è tratto da una conferenza stampa in occasione della riunione dell’Eurogruppo, a Bruxelles, il 27 febbaio 2007.
[17] Progetto Europa 2030. Sfide e opportunità, Relazione al Consiglio europeo del gruppo di riflessione sul futuro dell’UE 2030, Unione Europea, 2010.
[18] Ivi, p. 37.
[19] Ivi, p. 3.
[20] Ivi, p. 21.
[21] Ivi, p. 31.
[22] Ivi, p. 32.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, p. 26.
[25] Ivi, p. 38.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 4.
[28] Ivi, p.7. Il problema delle carenze strutturali dell’Unione Europea e delle loro conseguenze in situazioni di crisi era stato sottolineato con fermezza già l’anno precedente dal Rapporto de Larosière (The High-Level Group on Financial Supervision in the EU, Chaired by Jacques de Larosière, Report, Brussels, 25 February 2009) dove si lamentava (p. 12) che “The regulatory response to this worsening situation was weakened by an inadequate crisis management infrastructure in the EU, both in terms of the cooperation between national supervisors and between public authorities…In the absence of a common framework for crisis management, Member States were faced with a very difficult situation. Especially for the larger financial institutions they had to react quickly and pragmatically to avoid a banking failure. These actions, given the speed of events, for obvious reasons were not fully coordinated and led sometimes to negative spill-over effects on other Member States”.
[29] Progetto Europa 2030. Sfide e opportunità, Relazione al Consiglio europeo del gruppo di riflessione sul futuro dell’UE 2030, cit., p. 4.
[30] Ivi, p. 19.
[31] Ibidem.
[32] Da tempo infatti, e prima del 1° gennaio 1999 quando l’euro entrò in vigore in undici dei quindici Stati allora membri dell’Unione, studiosi avevano mosso critiche ai parametri (3% del rapporto disavanzo pubblico/Pil e 60% del rapporto debito pubblico/Pil separatamente considerati) che un Protocollo allegato al Trattato di Maastricht individuava quali “valori di riferimento” per valutare la “sostenibilità” dei conti pubblici di un paese membro. Cfr. per tutti L.L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht “parameter” in “Cambridge Journal of Economics”, 1998, 22, pp. 103-16. Pasinetti sottolinea fra l’altro: 1) che il valore di riferimento del parametro debito pubblico/Pil rappresenta semplicemente la media osservata dei valori rilevati nei paesi europei al momento della redazione del Trattato; 2) che il valore di riferimento del parametro disavanzo pubblico/Pil ha carattere di mero simbolo, ma nessun’altra giustificazione; 3) che è invece individuabile per ogni paese un’ area di sostenibilità dei conti pubblici compatibile con un infinito numero di valori dei due parametri, oltre che del tasso di sviluppo del Pil nominale, che il Trattato implicitamente ipotizzava pari al 5% annuo; 4) che, ai fini della sostenibilità dei conti pubblici, è cruciale la differenza fra tasso d’interesse e tasso di sviluppo del Pil; 5) che, accanto a quello del debito pubblico, rileva il livello del debito del settore privato dell’economia.
[33] Progetto Europa 2030. Sfide e opportunità, Relazione al Consiglio europeo del gruppo di riflessione sul futuro dell’UE 2030, cit. p. 4. Riferendosi criticamente alle prescrizioni del Trattato a proposito del valore di riferimento del rapporto disavanzo pubblico/Pil, Pasinetti aveva già segnalato che “The whole of the Maastricht Treaty seems to have been reduced to the fulfilment of this symbolic figure of a 3% public deficit/GDP ratio…But even symbols cannot escape the reality of their implications. If a 3% public deficit/GDP ratio is to be rigidly adhered to and regarded as a symbol of European fiscal and financial stability (even at the cost of heavy sacrifice [corsivo non nel testo, n.d.r.]), it surely should be an absolutely necessary condition for fiscal and financial stability. Nobody has never proved this. In fact it cannot be proved…” (cfr. L. L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht “parameter”, cit., p. 104). In un successivo lavoro (L. L. Pasinetti, Public Debt in the European Union Countries: Two Ways of Facing the Problem in J. Krishnakumar, E. Ronchetti (a cura di), Panel Data Econometrics: Future Directions, Papers in Honour of Professor Pietro Balestra, Amsterdam, Elseviers, 2000, pp. 317-28) Pasinetti, riferendosi al secondo “valore di riferimento” – il rapporto debito pubblico/Pil – e alle relative prescrizioni del Trattato, segnalerà (p. 327) – in contrasto con l’orientamento prevalente a favore della mera riduzione del debito stesso – la via alternativa per la quale “A reduction of the social burden of the public debt can be obtained…through internationally co-ordinated efforts…designed to drive interest rates down and growth rates up, thereby producing a stunning triple benefit: to reduce fiscal pressure, to boost GDP growth and to curb unemployment”.
[34] Progetto Europa 2030. Sfide e opportunità, Relazione al Consiglio europeo del gruppo di riflessione sul futuro dell’UE 2030, cit. p. 4.
[35] Ibidem. Una interessante analisi, anche in prospettiva comparata, delle modalità di gestione dei problemi di insolvenza degli Stati membri in un’unione federale è condotta in D. Moro, Il bailout degli Stati nelle unioni federali e nell’Unione pre-federale europea, “Il Federalista”, 2011, n. 3, pp. 171-98. Nel trattare in particolare il caso tedesco (si ricordi che la Germania aveva promosso l’inserimento nel Trattato di Maastricht della clausola di no-bailout a carico degli Stati membri dell’Unione) si sottolinea come la Corte Costituzionale tedesca abbia sentenziato in maniera difforme a seconda che la sentenza sia stata emessa prima o dopo la nascita dell’euro: l’intervento straordinario di ripianamento da parte del Governo tedesco fu infatti ammesso nel 1992 nei casi della città-Stato di Brema e del Saarland, mentre fu respinto nel 2006 nel caso della città-Stato di Berlino.
[36] Progetto Europa 2030. Sfide e opportunità, Relazione al Consiglio europeo del gruppo di riflessione sul futuro dell’UE 2030, cit., p. 6.
[37] Banca d’Italia, Considerazioni finali, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, Roma, 31 maggio 2011.
[38] Ivi, p. 7.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Banca d’Italia, Relazione Annuale, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, Roma, 31 maggio 2011, pp. 63-4. Il riferimento è al Comitato europeo per il rischio sistemico (European Systemic Risk Board, ESRB) al quale veniva assegnato il compito della vigilanza macroprudenziale, e alle tre autorità europee di vigilanza microprudenziale (European Supervisory Authorities, ESA) con competenza, rispettivamente, sui settori bancario, mobiliare e assicurativo. Tali istituzioni erano operative dal 1° gennaio 2011.
[42] Banca d’Italia, Considerazioni finali, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, Roma, 31 maggio 2012.
[43] Ivi, p. 15.
[44] Ivi, p. 14.
[45] Ibidem.
[46] Ivi, p. 15.
[47] Ibidem.
[48] Ivi, p. 16.
[49] Banca d’Italia, Relazione Annuale, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, Roma, 31 maggio 2012, p. 58.
[50] Ivi, p. 64.
[51] Ibidem.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, p. 66.
[54] Banca d’Italia, Considerazioni finali, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, Roma, 31 maggio 2013, p. 6.
[55] Ibidem.
[56] Ivi, p. 7. Cfr. anche, sullo stesso punto, Banca d’Italia, Relazione Annuale, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti, Roma, 31 maggio 2013, dove si sottolinea (p. 18) che “I timori di reversibilità dell’Unione monetaria hanno accentuato la frammentazione, lungo i confini nazionali, dei mercati monetari e obbligazionari. Gli annunci, in agosto e in settembre, di nuove modalità di intervento da parte della BCE per contenere i premi per il rischio di ridenominazione e ridurre le gravi disfunzioni nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria unica hanno contribuito significativamente ad allentare le tensioni”.
[57] Ibidem. Cfr. anche, sullo stesso punto, Banca d’Italia, Relazione Annuale, cit., pp. 78-81.
[58] La dichiarazione di Draghi suonava come segue: “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”.
[59] Banca d’Italia, Considerazioni finali, 31 maggio 2013, cit., p. 8.
[60] Ivi, p. 9.
[61] Sul tema generale delle prospettive dell’integrazione europea cfr. il saggio, precedente la crisi dei subprime, di R. Di Quirico, L’euro, ma non l’Europa. Integrazione monetaria e integrazione politica, Bologna, il Mulino, 2007, e in particolare il capitolo conclusivo L’integrazione monetaria come elemento di deintegrazione politica?, pp. 267-76, dove si sostiene (pp. 275-6) che “…in mancanza di shock esogeni tali da rendere l’integrazione politica e militare una priorità ineludibile, allora il raggiungimento di un’integrazione politica completa sarebbe alquanto improbabile ed il mantenimento dell’attuale livello d’integrazione potrebbe essere a rischio. Da quanto è emerso…sembra…che, perlomeno nei prossimi anni, non solo non avremo l’Europa, ma continuare ad avere l’euro in tutti i paesi che l’hanno adottato sarà già un buon risultato”.
[62] Publius, Lettera Europea, maggio 2012. Significativa la seguente presa di posizione di Joseph Stiglitz a commento di un recente vertice europeo: “Come un detenuto nel braccio della morte, l’euro ha ottenuto, all’ultimo minuto, l’ennesimo rinvio dell’esecuzione. Sopravviverà. I mercati hanno festeggiato, come hanno fatto dopo ognuno dei precedenti vertici ‘anticrisi’, salvo poi accorgersi, immancabilmente, che i problemi di fondo non erano stati affrontati. I leader europei hanno finalmente capito che il metodo fai da te, con l’Europa che presta denaro alle banche per salvare gli Stati e agli Stati per salvare le banche, non funziona…Inquieta profondamente che i leader europei abbiano impiegato tutto questo tempo per rendersi conto di qualcosa di tanto ovvio” (j.e. stiglitz, L’euro e la pena sospesa, “la Repubblica”, 13 luglio 2012, tradotto da id., The Euro’s Latest Reprieve, www.project-syndicate.org).
[63] Le citazioni sono tratte dall’intervento del Consultore socialista Piero Della Giusta durante il dibattito sulla relazione del Ministro del Tesoro, il liberale Epicarmo Corbino, in sede di Consulta Nazionale nel 1946; cfr. Consulta Nazionale, Assemblea plenaria (seduta di martedì 22 gennaio 1946), Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, p. 482. Corbino aveva rivendicato quale principio ispiratore della propria azione di governo proprio la ‘politica della lesina’ praticata dal suo lontano predecessore Sidney Sonnino.
[64] Per una recente ricostruzione di quel dibattito cfr. G. Bottaro, Alexander Hamilton: potere politico e potere economico in America, “Il Politico”, 2012, n. 2, pp. 15- 32.
[65] Separazione dei poteri a livello federale con un esecutivo forte e divisione dei poteri tra governo federale e Stati federati costituiranno la struttura portante della nuova repubblica americana. Era stata questa la tesi di Hamilton, contrapposta a quella di Jefferson. I termini della contrapposizione sono ben formulati da Bottaro (Alexander Hamilton: potere politico e potere economico in America, cit., p. 17) come segue: occorreva decidere “…se occorresse in tutti i casi opporre il potere al potere e la forza alla forza, non per distruggere il potere e la forza ma, al contrario, per costruire un centro di potere nuovo, differente da quello dei singoli Stati, ossia un governo federale in grado di far valere la sua autorità su un vasto territorio; oppure se fosse necessario, vista l’impossibilità della divisione della sovranità, come affermava Rousseau, dividere il potere per ridurlo, e far sì che questo rimanesse intatto nelle piccole repubbliche, dove solamente avrebbe potuto continuare a rimanere incorrotto, senza che il governo centrale venisse ad essere considerato niente di più che la sede di una semplice alleanza”.
[66] Il contenuto di questo paragrafo trae origine dalla partecipazione di uno dei due autori, come discussant, a un incontro-dibattito con Giorgio La Malfa svoltosi il 10 dicembre 2012 presso l’Almo Collegio Borromeo di Pavia in occasione della presentazione della traduzione italiana di Le mie prime convinzioni di John Maynard Keynes, che reca un saggio introduttivo dello stesso La Malfa: cfr. J. M. Keynes, Le mie prime convinzioni, Milano, Adelphi, 2012 (titolo originale Two Memoirs, The Royal Economic Society, 1951).
[67] Così Michael Spence nel passo richiamato nella nota 2.
[68] Cfr. T. Padoa-Schioppa, Scritti per il ”Corriere” 1984-2010, Fondazione Corriere della Sera, 2011, p. 505.
[69] Così Francesco Rossolillo nel passo richiamato nella nota 11.
[70] Così Michele Ruta nel passo richiamato nella nota 14.
[71] Così Tommaso Padoa-Schioppa nel passo richiamato nella nota 16.
[72] Cfr. T. Padoa-Schioppa, La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della finanza, Bologna, il Mulino, 2009: cfr. anche Jean-Claude Juncker con riferimento alla nota 13.
[73] Così Mario Draghi nei passi richiamati, rispettivamente, nelle note 39 e 38.
[74] Così Ignazio Visco nel passo richiamato nella nota 43.
[75] Così ancora Ignazio Visco nei passi richiamati, rispettivamente, nelle note 45, 46 e 44.
[76] Così ancora Ignazio Visco nei passi richiamati, rispettivamente, nelle note 56 e 59.
[77] Basti ricordare la nuova edizione di Stabilizing an Unstable Economy, New York, McGraw Hill, 2008 a oltre venti anni dalla prima (1986), con un saggio introduttivo di D. B. Papadimitriou e L. Randall Wray intitolato, appunto, Minsky’s Stabilizing an Unstable Economy: Two Decades Later.
[78] H. Minsky, John Maynard Keynes, New York, Columbia University Press, 1975.
[79] J. M. Keynes, Le mie prime convinzioni, cit. Il testo conferma la predilezione di Keynes tanto per la struttura pamphletistica quanto per l’intonazione deliberatamente provocatoria degli scritti, caratteristiche che entrambe rimandano, ad esempio, agli Eminent Victorians di Lytton Strachey, un altro membro del Bloomsbury Group, del 1918.
[80] In apertura del sesto (e penultimo) capitolo di The Economic Consequences of the Peace pubblicato nel dicembre 1919 (The Royal Economic Society, 1971) Keynes scriverà infatti che “Il trattato non contiene norme utili alla riabilitazione economica d’Europa…Nessun accordo è stato raggiunto a Parigi per restaurare le dissestate finanze di Francia e Italia, o per aggiustare i sistemi del Vecchio Mondo e del Nuovo. A queste cose il Consiglio dei Quattro non ha prestato attenzione, preoccupandosi d’altro: Clemenceau di schiacciare la vita economica del suo nemico, Lloyd George di giungere a un accordo e di riportare in patria qualcosa che riscuotesse plauso per una settimana, il presidente Wilson di non far niente che non fosse giusto e retto. È straordinario come il fondamentale problema economico di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione su cui fu impossibile suscitare l’interesse dei Quattro. La loro principale escursione in campo economico ha riguardato la questione delle riparazioni, e l’hanno risolta come un problema di teologia, di politica, di artifici elettorali, da ogni punto di vista tranne quello del futuro economico degli Stati di cui avevano in mano i destini” (trad. it., Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007, pp. 181-2). Più oltre (ivi, p. 212) ammonirà “Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente potrà allora ritardare a lungo quella finale guerra civile tra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla, e che distruggerà, chiunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione”.
[81] J. M. Keynes, Le mie prime convinzioni, cit., p. 53.
[82] Ivi, p. 88.
[83] Ivi, p. 61.
[84] Ivi, p. 103.
[85] Cfr. nota 6.
[86] J. M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 17.
[87] Ivi, p. 19.
[88] Ivi, pp. 182-3.
[89] Ivi, pp. 223-4.
[90] Ivi, p. 220.
[91] Ivi, pp. 220-1.
[92] M. Spence, The Next Convergence. The Future of Economic Growth in a Multispeed World, cit., pp. 312-3 della trad. it.
[93] Ivi, p. 314.
[94] Ibidem.
[95] G. Arrighi, Adam Smith in Beijing. Lineages of the Twenty-First Century, London-New York, Verso 2007 (trad. it., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Milano, Feltrinelli, 2007 (trad. it., p. 9).
[96] Concetto che lo stesso Arrighi utilizza per dare conto dell’avvicendarsi delle “egemonie” che si sono succedute in Europa e nel mondo dalla Repubblica di Genova alle Province Unite olandesi, all’Inghilterra e poi agli Stati Uniti, nelle dimensioni prima della città-Stato, poi dello Stato-nazione e infine dello Stato-mondo: cfr., su questo punto, G. Arrighi, Global governance and hegemony in the modern world system in A.D. Ba, M.J. Hoffmann, Contending Perspectives on Global Governance: Coherence, contestation and world order, London and New York, Routledge, 2005. Sul tema sia consentito il riferimento a S. Beretta, Variabili finanziarie ed economia globale in tempo di crisi, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo – Accademia di Scienze e Lettere, Vol. 143 (2009), in particolare pp. 219-24.
[97] K. Polanyi, The Great Transformation, New York, Holt, Rinehart & Winston Inc., 1944 (trad. it. La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 2000 (la citazione è a p. 5 della trad.it.)
[98] P. Gourevitch, Politics in Hard Times. Comparative Responses to International Economic Crises, Ithaca, New York, Cornell University, 1986 (trad.it. La politica in tempi difficili. Il governo delle crisi economiche 1860-1980, Venezia, Marsilio Edizioni, 1991 (la citazione è a p. 278 della trad.it.).
[99] K. Polanyi, The Great Transformation, cit., p. 5 della trad.it.
[100] G. La Malfa, La terza via di John Maynard Keynes in J. M. Keynes, Sono un liberale? E altri scritti (a cura di Giorgio La Malfa), Milano, Adelphi, 2010, pp. 9-27.
[101] G. La Malfa, La terza via di John Maynard Keynes, op. cit., pp. 21-2.
[102] J. M. Keynes, La fine del gold standard in J. M. Keynes, Sono un liberale? E altri scritti, cit., pp. 249-56 (la citazione è a p. 251).
[103] G. La Malfa, L’Europa in pericolo. La crisi dell’Euro, Bagno a Ripoli – Firenze, Passigli Editori, 2011 (la prima edizione del saggio aveva per titolo L’Europa legata, i rischi dell’Euro, Milano, Rizzoli, 2000).
[104] Ivi, p. 143.
[105] Ivi, p. 148.
[106] J.P. Fitoussi, La règle et le choix. De la souveraineté économique en Europe, Paris, Seuil, 2002 (trad. it. Il dittatore benevolo. Saggio sul governo dell’Europa, Bologna, il Mulino, 2003). Sono numerosi le analisi critiche di Fitoussi alla costruzione europea quale oggi sperimentiamo. Al tema egli ha dedicato, di recente, tre dei sette capitoli – dai titoli assai eloquenti – del saggio Le Théorème du lampadaire, Éditions Les Liens qui Libèrent, 2013 (trad.it., Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale, Torino, Einaudi, 2013): precisamente il 4° (Stati federati orfani di una federazione, pp. 100-18), il 5° (Una federazione monetaria senza solidarietà di bilancio, o i vizi di costruzione della zona euro, pp. 119-46), e il 6° (Sulla strada dell’austerità, si può ancora sognare d’Europa?, pp. 147-74). Per un’analisi degli effetti perversi del cosiddetto “Berlin-Washington Consensus” cfr. anche J.P. Fitoussi – F. Saraceno, European economic governance: the Berlin-Washington Consensus, “Cambridge Journal of Economics”, 2013, 37, pp. 479-96.
[107] J.P. Fitoussi, La règle et le choix. De la souveraineté économique en Europe, cit., pp. 7-19 e 107-17 della trad.it. Il prolungarsi delle asimmetrie segnalate da Fitoussi e da La Malfa (cfr. nota 103) e l’aggravarsi delle loro conseguenze spiegano il diffondersi di una saggistica “alternativa” che, prendendo atto delle une e delle altre, auspica una riforma “all’indietro” del regime a moneta unica, con il conseguente recupero della svalutazione come strumento della politica economica “nazionale” degli Stati membri, secondo modelli già sperimentati quali il “serpente monetario” europeo degli anni ’70 e ’80, con l’euro che continuerebbe a esistere con la funzione di moneta di riferimento accanto alle valute nazionali, sull’esempio del Bancor proposto da Keynes a Bretton Woods. Su questa linea si colloca, ad esempio, il sociologo tedesco Wolfgang Streeck (direttore del Max-Planck-Institut per la ricerca sociale di Colonia) nel saggio Gekaufte Zeit. Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus (trad.it. Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013), secondo il quale l’euro si è rivelato un “esperimento frivolo” che “…ha eliminato un’importante variabile di autonomia politica dalla costituzione del mercato comune, obbligando quei governi e quegli stati membri a cui dovrebbero stare a cuore il lavoro, il benessere e la sicurezza sociale della popolazione, a usare lo strumento neoliberista della svalutazione interna, ossia l’aumento della produttività e della competitività grazie alla creazione di mercati del lavoro flessibili, salari più bassi, orari di lavoro più pesanti, più diffusa partecipazione al mercato del lavoro e completa mercificazione dello stato sociale” (cfr. ivi, pp. 201-4 e 213-15 della trad.it.).
[108] Si prescinde qui del tutto dalle pur significative differenze che caratterizzano le diverse proposte formulate in tema di emissione di eurobond, a partire da quella originaria di Jacques Delors del 1989, alla quale hanno fatto seguito le relazioni del Gruppo Giovannini costituito nel 1996. Per una documentata rassegna critica delle principali proposte, particolarmente di quelle formulate da De Grauwe e Moesen, Delpla e von Weizsäcker, Hellwig e Philippon si rinvia a D. D’Amico, Dei diversi usi degli eurobonds, “Il Politico”, 2013, n. 2, pp. 64-91.