Volum IV, Nr. 2(12), Serie nouă, Martie – Mai 2016
Croce e lo stato
(Croce and the State)
Angelo CHIELLI
Abstract. The essay analyzes the concept of State in the thought of Benedetto Croce. The author identifies three approaches: the State as an activity, the power State and the ethical State. However, this distinction has only an analytic function, because in Croce the different concepts are closely related.
Keywords: B. Croce, State as an activity, power State, ethical State, Politics.
Il problema dello Stato in Croce si presenta come una materia sommamente inquieta, oggetto di elaborazioni spesso motivate da urgenze storiche ma in cui è possibile rintracciare una certa continuità di argomentazioni. Le riflessioni crociane su questo argomento sono disperse in una gran quantità di scritti di varia natura e dimensione, e risulta, pertanto, poco agevole un’opera di ricostruzione concettuale. Per questa ragione analizzeremo tre differenti approcci del filosofo al tema dello Stato precisando che la distinzione ha natura solo analitica perché essi sono tra loro strettamente interconnessi.
Lo stato attivita’
Nella Filosofia della pratica Croce fa un esplicito riferimento, nell’ambito della discussione riguardo la natura delle leggi ed in particolare nel criticare la distinzione, a suo parere fittizia in quanto empirica, tra leggi sociali e leggi giuridiche, allo Stato.
La legge giuridica è l’espressione di un potere supremo che rende obbligatoria l’osservanza della norma da esso proveniente, mentre la legge sociale è convenzionale e frutto di cerchie ristrette d’individui che l’adottano. Questa distinzione appare al Croce del tutto superflua poiché ogni legge, qualsiasi legge, ha il proprio fondamento negli individui stessi, i quali «spontaneamente vi si conformano, reputando loro conveniente il conformarvisi»[1].
L’importanza di questo passo crociano è notevole sotto molteplici punti di vista. In primo luogo Croce si avvicina molto alla teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici S. Romano[2]. Questa ipotesi teorica nega il principio che fonte unica e originaria della norma sia lo Stato, ritenendo, al contrario, che questa prerogativa sia propria di tutti i corpi sociali intermedi (associazioni, sindacati, gruppi sociali organizzati). Nella visione di S. Romano la tendenza delle società moderne a sviluppare al proprio interno associazioni organizzate su base economica e professionale con autonoma capacità normativa è un processo inevitabile che, tuttavia, non lede il principio della sovranità dello Stato poiché l’ordinamento giuridico statale si pone, rispetto alla pluralità di quelli interni, come gerarchicamente superiore in grado di ricomprendere e riconoscere in sé tutti gli altri.
Tra Croce e Romano, al di la delle differenze, anche profonde, di prospettiva vi è una comune ambivalenza sul tema dello Stato. L’ambivalenza è tra una istanza di apertura alle trasformazioni politico-sociali e culturali che si tradurrà in una opzione teorica di tipo pluralista ed un’altra istanza conservatrice che innalzerà lo Stato-persona al di sopra di ogni altra articolazione in esso ricompresa. Ebbene nel giurista questa “doppiezza” si evidenzierà già nella prolusione del 1909[3] e risulterà ancora più rilevante nel suo capolavoro, il volume L’ordinamento giuridico del 1917,[4] mentre nel filosofo si mostrerà negli oscillanti contenuti che Croce riverserà nel concetto di Stato che, con il trascorrere degli anni, adotterà.
Croce nella Filosofia della pratica, pur partendo da presupposti differenti da quelli di Romano – Croce infatti ha alle spalle oltre un decennio, quello tra il 1890 e il 1900, di studi sul marxismo – analizza lucidamente lo stesso fenomeno e giungerà a conclusioni che, con i necessari distinguo, possono essere accostate alle teorie pluraliste. Per il filosofo napoletano il luogo in cui ha sede il potere supremo che emana le norme giuridiche non è diverso da quello da cui provengono le norme sociali: il luogo è il medesimo è non è esterno all’uomo, posto in una autorità che lo sovrasti, ma risiede nella volontà individuale. Quest’ultima, infatti, adeguandosi spontaneamente alla legge giuridica vi presta il proprio consenso. Nel consenso è la forza della legge giuridica che in tanto ha vigore ed effettualità in quanto la volontà del singolo, conformandovisi, la fa propria e la universalizza. Se l’espressione massima della potenza dello Stato, ovvero la legge giuridica, trae, in ultima istanza, nerbo e autorità dalla volontà dell’individuo allora lo Stato non può mai essere pensato come ente separato da coloro che gli assicurano l consenso. Lo Stato, afferma Croce, è unicamente «un complesso mobile di svariate relazioni tra individui»[5].
Nessuna entificazione dello Stato in Croce ma semplice complesso tra altri complessi, la cui natura è puramente fittizia. Lo Stato , pertanto, è solo un sistema, tra i tanti possibili, di relazioni, privo di quella pienezza pleromatica che lo differenzierebbe dalle molteplici creature che lo compongono. Quindi nessuna Potenza dello Stato che s’imponga da sé senza la volontà dei consociati.
Volendo riassumere in forma concisa le caratteristiche dello Stato-attività crociano possiamo sintetizzarle in tre punti:
- lo Stato è privo di una sostanzialità superindividuale;
- la principale funzione dello Stato consiste nel produrre una stabilità che assicuri l’instaurazione e la conservazione dell’ordine sociale;
- lo Stato è un nesso inscindibile di forza e consenso.
E’ evidente lo sforzo crociano di riformulare i caratteri e la natura dello Stato nei termini della propria filosofia pratica, in altre parole l’oggettività della realtà politica viene tradotta – o dissolta per essere più precisi – nei termini soggettivi della volizione-azione.
Nel 1919, ad oltre un decennio dalla Filosofia della pratica, Croce nello scritto Il disinteressamento per la cosa pubblica[6] riafferma l’identica concezione dello Stato come null’altro che la volontà dei propri aderenti. Oggetto di una feroce e pungente critica sono, in questo breve saggio, coloro che considerano lo Stato un istituto etico ed osservando le pessime condizioni in cui versa la cosa pubblica se paragonate a quell’ideale, che in realtà non è se non uno schema astratto, ne traggono auspici di crisi e decadenza morale. Ma siffatte conclusioni sono proprie delle “anime buone” non del vigoroso uomo politico il quale sa bene che lo Stato, kantianamente, è una continua lotta tra le forze dissocianti, rappresentate da quelle inclinazioni naturali che spingono ogni individuo a perseguire il proprio utile, e le forze associanti che Croce non specifica ma che possiamo individuare, dato l’esplicito riferimento a Kant[7] presente nel testo, nella tendenza dell’uomo a stabilire relazioni con i propri simili ed a tradurle in istituti sociali ed in istituzioni pubbliche[8]. Troviamo conferma della convinzione crociana dello Stato come realtà in continuo movimento in quanto risultante mai definitiva tra gli innumerevoli e contrastanti interessi individuali, tutti ricompresi nella sfera economico-politica. Lo Stato, infatti, non può fuoriuscire da questa dimensione poiché esso è interamente politico ed, in quanto tale, non etico. Etica e politica, così come il pratico ed il teorico, sono elementi distinti ed, in quanto distinti, anche opposti[9] . Tuttavia in Croce l’opposizione susseguente alla distinzione non è mai assoluta e ciò che prima è stato distinto deve essere unificato; questa unità, tuttavia, non può mai essere indistinzione cioè risoluzione totale di un elemento nell’altro tanto da sopprimere definitivamente le caratteristiche individuali[10]. Lo Stato, elemento politico-utilitario, non appartiene alla dimensione etica, ma non possiamo arrestarci a questa elementare constatazione poiché ciò significherebbe insistere nella separazione che non è concetto filosofico, poiché la separazione è solamente un permanere nel negativo, una rinuncia al processo spirituale che è continua lotta che supera e vince il negativo. Per questo la coscienza morale considera come propria materia il fatto economico-politico innervandolo di sé e con ciò innalzandolo al livello etico. Ma, e ciò deve essere ribadito con forza, questo processo di elevazione non dissolve mai l’economico-politico, cioè l’interesse personale e persino egoistico, che ritorna incessantemente come materia mai doma a disfare l’unità che l’istanza superiore tende a costruire.
Mantenere ferme l’unità e la distinzione delle forme dello spirito come momenti necessari ed ineliminabili, consente a Croce di riconoscere l’autonomia della politica dall’etica senza tuttavia negare una legittima pretesa della seconda ad esercitare una funzione di controllo e governo sulla prima[11]. Così Croce presume di aver fondato e garantito in modo definitivo, l’autonomia della politica dalle altre forme dello spirito, rendendo esplicito, una volta per tutte che «le lotte politiche non sono lotte morali, e che gli Stati in quanto lottano tra loro non sono individui etici ma individui economici» ed abbiamo pronta conferma di ciò osservando «non solo nella storia , ma nel vivo presente»[12].
Dopo aver ribadito, con scrupolo quasi ossessivo, la propria opinione nel saggio Lo Stato etico[13], Croce riprende il tema dello Stato-attività, sviluppandolo e perfezionandolo in un lavoro di più ampio respiro: gli Elementi di politica[14].
In questo testo Croce si oppone al tentativo di ridurre totalmente la dimensione politica a quella statale. Tra le azioni utilitarie non possiamo discriminare quelle statali determinandole come le azioni che riguardano lo Stato poiché quest’ultimo non è altro che azioni appartenenti alla sfera dell’utile, in nulla diverse dalle azioni utilitarie di qualunque gruppo o individuo. Nessun passo in avanti si compirebbe qualora lo Stato fosse considerato come un insieme di leggi ed istituzioni poiché, per Croce, ogni gruppo sociale – e persino ogni individuo – possiede leggi ed istituzioni.
La conclusione crociana è perentoria: «nel parlare che qui si fa dello Stato come qualcosa di specifico, s’intende del pari riferirsi semplicemente alla rappresentazione generale richiamata da quella parola»[15].
Quindi, se lo Stato non può «porsi come entità che abbia in sé una propria vita oltre o disopra degli individui» allora esso è una semplice metafora del linguaggio, «uno scherzo a cui lo Stato va soggetto insieme con le altre idee e ideali, il Vero, il Bello, scritti con la maiuscola e tutti sospesi in alto come astri luminosi» , mentre occorre essere consapevoli «che non c’è il Vero, ma il pensiero che lo pensa, non il Bene, ma la volontà morale, non il Bello, ma l’attività poetica e artistica; e non già lo Stato, ma le azioni politiche» [16].
Il termine “stato” può essere utilmente impiegato solo qualora lo intendessimo, in senso generale, come complesso di leggi, costumi ed istituzioni e, in un significato più ristretto, sistema di leggi costituzionali.
In sintesi, Croce riduce lo Stato alla legge e quest’ultima, a sua volta, alla volontà dei consociati che attuano e mantengono costanti comportamenti stimati vantaggiosi.
La legge funge, quindi, da termine medio tra lo Stato e la volontà individuale. Questo elemento di mediazione riveste, per il filosofo napoletano, una grande importanza. Nella legge, infatti, la volontà è tipizzata in modo astratto e, pertanto, la sua applicazione non è una pura e semplice obbedienza al dettato normativo, ma vero e proprio atto creativo, rispetto al quale la legge si pone come un dato materiale che deve essere negato e trasfigurato dalla sintesi formale. In definitiva, ciò che presenta maggior valore è il modo in cui la legge viene osservata e non la prescrizione – la cui stabilità, peraltro, è pura presunzione – oggettiva in essa contenuta. Nell’applicazione della legge essa è soggetta a continue trasformazioni ed è questa la ragione per cui lo Stato non riposa tanto sui codici e sulle costituzioni, ma piuttosto, sull’insieme delle azioni di governo.
Il venir meno della distinzione tra norma e sua esecuzione rende del tutto superflua anche l’altra grande distinzione che nella prima trova la propria matrice esplicativa: quella tra Stato e governo[17].
Il tentativo di entificazione dello Stato subisce uno scacco definitivo: Croce ritiene che la parola “stato” indichi, da un punto di vista logico, nient’altro che uno pseudoconcetto, una “rappresentazione generale” priva di quei caratteri di espressività, universalità e concretezza propri del concetto puro, unica vera realtà. Solo un nome, quindi, uno strumento operativo, un espediente pratico foggiato dal pensiero al semplice scopo di economizzare. Per questo esso non può contrapporsi alle singole e concrete azioni individuali – che sono, si rammenti, atto creativo – e porsi, rispetto a queste come un ente che abbia vita autonoma al di sopra degli individui.
Anche un altro caposaldo della filosofia politica moderna, la distinzione tra Stato e governo, viene meno, nella riflessione crociana, nel momento in cui entrambi rinviano all’esecuzione della legge e alla sottostante volizione-azione individuale.
Lo stato potenza
La dottrina crociana dello Stato come potenza non si pone, come a prima vista potrebbe apparire, in contrasto con quella dello Stato-attività ma, al contrario, ne rappresenta una sua ulteriore specificazione. Infatti, il terreno solido su cui Croce si situa è sempre quello, a lui congeniale, dell’autonomia della politica. Anzi, nel pensiero del filosofo italiano, Stato-potenza e autonomia della politica tendono spesso [18] a sovrapporsi. Croce, infatti, ribadisce che, come più volte sostenuto a partire dalla Filosofia della pratica, la politica ha leggi proprie, non solo diverse da quelle della morale ma del tutto indipendenti e autosufficienti rispetto a queste ultime. Questo ovviamente non significa che nella sfera politica non siano possibili comportamenti morali, solo che essi non devono essere intesi come ribellione, peraltro inutile in quanto vana, alle leggi proprie della politica ma come necessaria consapevolezza ed assunzione di quelli leggi per sottometterle al dovere etico[19].
Appare, perciò, molto chiaro il contesto teorico che vide sorgere la riflessione crociana sul tema, , invece, il contesto storico è quello del primo conflitto mondiale che spinse, sul piano culturale, uomini di scienza ad avvilire ed immiserire il sapere piegandolo a fini di parte . Nel 1927, nell’Avvertenza alla nuova edizione presso Laterza di Pagine sulla guerra[20], Croce notava come le pagine relative all’affermazione del principio della forza o potenza nella sfera politica contro la concezione avversa sostenitrice di una visione «astratta o “tribunalizia”»[21] , potevano apparire superate dopo l’ascesa del Fascismo al potere e, soprattutto, dopo il delitto Matteotti . Tuttavia questa patina di arcaicità fu dovuta alla circostanza che egli si trovò di fronte «avversarî ai quali non c’era niente di meglio o di più opportuno da dire, e bisognava ricordare e spiegare talune verità elementari, da essi improvvidamente ignorate o disconosciute»[22]. Questo ci aiuta a comprendere come la concezione dello Stato-potenza, nata sotto l’urgenza della battaglia politico-culturale, si presenti poco strutturata dal punto di vista dell’elaborazione dottrinaria (qualche riferimento al Machiavelli e al Treitschke e l’asserita superiorità delle lotte tra gli Stati rispetto alle lotte sociali[23]), ma mostri in maniera esplicita il proprio vero avversario: la forma mentis umanitaristica, egualitaria e democratica di origine illuministica, magistralmente fusi nella Massoneria, considerata da Croce come «il più gran serbatoio della “mentalità settecentesca”, uno dei maggiori impedimenti che i paesi latini incontrino ad innalzarsi a una vera comprensione filosofica e storica della realtà e a una politica adeguata ai nuovi tempi»[24].
Per meglio tratteggiare la concezione crociano dello Stato-potenza è necessario fare un piccolo salto indietro, precisamente al 1912, anno in cui il filosofo pubblica su La Critica un articolo dal titolo Contro l’astrattismo e il materialismo politici[25]. In questo scritto Croce differenzia due contrapposti ordini di valori: quelli culturali che hanno una portata universale e quelli storici che possiedono un carattere meramente empirico: esempi del primo sono la scienza e l’arte, del secondo lo Stato e la Chiesa. Il criterio distintivo appare immediatamente evidente: quelli culturali rispondono a bisogni eterni dello spirito, quelli storici sono formazioni storiche e istituzioni, fatti particolari in cui si incarnano, temporaneamente, quelli universali. Ma la distinzione che preme maggiormente a Croce attiene alla compatibilità propria di ciascun ordine di valori. I primi, infatti, hanno la prerogativa di non collidere l’uno con l’altro, anzi l’affermazione di uno di essi è, al contempo, attestazione anche di tutti gli altri; i valori storici, poiché in termini logici sono pseudoconcetti, cioè dei fatti in quanto fondati su concetti rappresentativi e non universali, si affermano esclusivamente sopprimendo altri valori empirici. Perciò all’interrogativo su quali siano gli istituti storici che, in un dato periodo, incarnano dei valori universali, Croce risponde che la filosofia lascia inevasa questa domanda, perché tutte le istituzioni rappresentano e non rappresentano i valori universali. Il criterio di selezione, pertanto, non potrà che essere di natura pratica: sarà l’appartenenza ad un particolare gruppo o istituto a decidere su quale fronte si combatterà. Inoltre, la natura totalmente pratica del principio di scelta condurrà necessariamente a riconoscere uguale dignità alla opzione dell’avversario. In definitiva, non una astratta idea di giustizia diversifica i contraenti, bensì un meccanismo di inclusione e di esclusione che, sotto taluni aspetti, richiama il più noto criterio distintivo schmittiano amico-nemico.
La dottrina dello Stato come potenza va compresa, quindi, alla luce della dialettica tra valori storici e valori culturali. Essa, infatti, deve essere valutata alla stregua di una affermazione scientifica, ed in quanto tale né morale né immorale. Anche la guerra, che di quella teoria è una logica e drammatica conseguenza, è assimilata, da Croce, ad un evento naturale da cui discende l’imperativo di schierarsi a difesa del proprio gruppo. Nella concezione dello Stato potenza si fondono in un corpo compatto l’accettazione crociana del realismo politico e la critica all’astrattismo illuministico e al democraticismo. In particolare da quando quest’ultimo, con la nascita dei partiti di massa, ha reso possibile l’accesso di classi sociali, precedentemente escluse, nei luoghi della decisione politica, più acuta diventa in Croce la critica al sistema politico democratico – rappresentativo, fenomeno d’altro canto, che caratterizzò l’intera cultura europea nel primo quindicennio del secolo[26].
L’adesione al realismo politico spinse Croce a considerare la vita dello Stato come continua lotta per la propria esistenza e da qui l’insistenza sulla forza, o potenza, quale suo momento centrale. Questo “universale principio direttivo” – così Croce definisce questa dottrina – impone a tutti gli Stati la potenza ovvero «il tendere di tutte le proprie forze per costringere gli altri alla stessa energia di vita in vantaggio dell’umanità, che solo col lavoro e con gli sforzi si salva dalla morte e dalla putredine»[27]. Nulla a che vedere, però, con la concezione che assimila la dottrina dello Stato come potenza alla giustificazione ideologica di qualsiasi prepotenza o inganno: lo Stato deve lottare per affermare la propria forza affinché consegua una vittoria non momentanea, bensì duratura, che sia trionfo di capacità e di prudenza, che avvantaggi non solo un popolo o un gruppo, ma tutta l’umanità. Proprio il perseguimento di quest’ultimo obiettivo richiede , nella lotta e nello scontro, l’osservanza di quei limiti imposti dalle consuetudini, dal diritto internazionale e dal rispetto nei confronti del nemico.
Se il clima politico e culturale degli anni della guerra aveva condotto Croce ad accentuare l’aspetto della forza, con animo più disteso, negli anni successivi al primo conflitto mondiale, egli smusserà le asprezze dovute alla foga polemica. Negli Elementi di politica del 1924, Croce chiarisce che il senso da attribuire all’idea di forza non è quello di «prendere pel collo altrui […] ma di pensarla nella sua piena verità che è di tutta intera la forza umana e spirituale, e comprende la sagacia dell’intelletto non meno del vigore del braccio»[28]. Il concetto di forza, all’interno di una filosofia idealistica, deve essere inteso come fenomeno qualitativo e non quantitativo, energia della volontà e dell’azione, come ebbe a scrivere nel 1927 nella Prefazione alla nuova edizione di Materialismo storico ed economia marxistica.
Ricondotto nell’ambito della virtù e della capacità, il concetto di forza fornisce a Croce il sostegno per affrontare e risolvere il problema del fondamento dello Stato. Alla domanda se lo Stato debba fondarsi sulla forza o sul consenso, Croce risponde, perentoriamente, che forza, o autorità, e consenso, o libertà, sono inscindibilmente correlati in ogni forma di Stato, in quello più dispotico come in quello più liberale, poiché, come in ogni distinzione, un termine non può sussistere senza il suo contrario dato che l’uno «è già incluso nell’altro accolto, perché suo correlativo»[29].
Negli scritti composti nella temperie degli anni di guerra – ove Croce aveva omesso di accostare al concetto di autorità a quello di libertà – lo Stato è considerato in un contesto che lo vede in lotta con altre entità statali e quindi il rapporto tra Stati e individui è preso in considerazione unicamente attraverso il criterio di inclusione-esclusione e solo in quanto funzionale alla potenza dello Stato. Nello scritto del ’24, invece, le mutate condizioni storiche riportano in primo piano il problema del rapporto giuridico e politico tra individui e organismo statale, considerato come dimensione costitutiva dello Stato e, per questa ragione, in questo nuovo quadro storico e teorico, ritrova piena cittadinanza il tema del consenso e della libertà.
Lo stato etico
A differenza dei precedenti nuclei tematici, il concetto di Stato etico è preso in considerazione da Croce soprattutto perché gli consente da un lato di definire la propria posizione nei confronti di Hegel, dall’altro lato di ritornare e chiarire sul tema del rapporto etica-politica.
Nel 1908, Croce pubblica su La Critica un articolo intitolato Il risveglio filosofico e la cultura italiana[30] in cui rivolge a Hegel l’accusa di prendere in considerazione, nella propria teoria politica, non lo Stato ma l’idea di esso, anzi di considerare l’idea di Stato ideale. Non che si possa separare l’idea di Stato dallo Stato stesso, ma dal punto di vista della scienza, l’identificazione di Stato ed etica, appare a Croce scandalosa. Lo Stato è un fenomeno storico, l’etica appartiene alla sfera dell’universale: come può, quindi, quest’ultima essere interamente contenuta ed esaurita nel primo? La risposta crociana non può che essere negativa: l’etica non può mai integralmente risolversi in un istituzione o in un insieme di istituti storicamente determinati. Stato ed etica devono essere riconsegnati ciascuno alla propria sfera di appartenenza perché lo Stato, in quanto momento economico, non può mai essere un tutt’uno con la coscienza morale. Questa infatti supera e rigenera continuamente gli istituti storici e non si sofferma mai definitivamente, cristallizzandosi, in uno solo di essi, ma tutti li ricomprende. Asserita in sede conoscitiva la irriducibilità tra Stato ed etica, il problema sarà per Croce di natura pratica, ovvero cogliere ove la forza etica si concretizza in un particolare momento storico: nella volontà del sovrano o piuttosto in quella di coloro che ad esso si oppongono?.
Come è facilmente constatabile la separazione non mediata tra valori culturali e storici – a cui Croce darà esplicita formulazione nel summenzionato articolo Contro l’astrattismo e il materialismo politici del 1912 – è una faglia sotterranea che percorre l’intera riflessione del filosofo. Infatti, in un contesto storico mutato e segnato profondamente dall’affermarsi del fascismo, il confronto con Hegel ritorna con una forza e intensità prima sconosciute. Innanzitutto la vita morale è tale solo perché assume come propria materia quella politica senza la quale sarebbe ineffettuale. Quindi se per Croce è facile dimostrare l’autonomia della sfera politica (è l’etica che, senza la politica, non potrebbe operare), non gli riesce altrettanto semplice mostrare l’autosufficienza di quella etica. Scrive Croce che «come la cerchia della politica non è la sola, neppure basta a se stessa; e questo è necessario avvertire affinché la specificità non sia mal concepita e travisata in una sorta di partogenesi e non s’immagini che possa darsi in concreto un politico privo affatto di coscienza morale»[31]. Ma, affermare che non possa esserci politica senza etica non vale l’aver logicamente dimostrato la necessità di quel nesso, né, a questo scopo, può essere sufficiente asserire che, nella sfera etica, la politica si muta da fine in mezzo.
Non a caso, alcune righe sotto, quando egli parla dello Stato trasposto nelle sfera morale, lo Stato etico appunto, questo assume i tratti di un ideale astratto e non assomiglia assolutamente ad un universale che si particola rizza, cioè si fa concreta realtà storica. In definitiva la Stato pare sottrarsi all’etica e vivere in salute solo nella sfera dell’utile, a conferma di ciò si veda ciò che Croce scrive nel paragrafo Hegel. Lo “Stato etico” negli Elementi di politica, ove accusa il filosofo tedesco di non aver compreso che «lo Stato, inteso in senso stretto, non sia se non appunto quella formazione in cui egli si era incontrato e che aveva battezzato “società civile”», mentre quando ci s’interstardisce a voler attribuire una sostanza etica allo Stato «si entra nel bivio: o negare lo Stato singolo, facendo valere l’unico spirito etico, o negare lo spirito etico mantenendo di fronte ad esso i recalcitranti Stati singoli».
La risposta alla domanda su dove si concentrasse la forza etica in un particolare periodo storico, fornita da Hegel e dai suoi epigoni moderni (tra cui Croce annovera esplicitamente Spaventa ma l’obiettivo polemico implicito deve considerarsi, invece, Giovanni Gentile), è considerata da Croce una concezione governativa della morale, in base alla quale la vita morale è accentrata interamente in coloro che governano, mentre sono esclusi da essa coloro che ai primi si oppongono. La risposta crociana si articola invece su due distinti livelli. Il primo consiste nella riaffermazione dello Stato quale «forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda»[32]; il secondo consiste nel riconoscimento che il criterio amico-nemico è utilizzabile solo all’interno della sfera economico-politica, in quella etica, invece, esso risulta privo di efficacia, poiché la vita morale non differenzia ma include e spesso proprio coloro che avversano i governanti sono quelli che aprono nuove strade al progresso civile dell’umanità[33].
Bibliografia
BAZZOLI M., Fonti del pensiero politico di Benedetto Croce, Marzorati, Milano, 1971.
BOBBIO N., Dalla struttura alla funzione Nuovi studi di teoria della funzione, Laterza, Roma-Bari 2007, (1° ed. Edizioni di Comunità, Milano, 1977).
CARINI C., Benedetto Croce e il partito politico, Olschki 1975.
CILIBERTO M. (a cura di), Croce e Gentile fra tradizione nazionale e cultura europea, Editori Riuniti, Roma, 1993.
COTRONEO G., Una teoria filosofica della libertà, introduzione a B. Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Rubettino, Catanzaro, 2002, pp. 17-104.
CROCE B., Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari, 1977.
Idem, Filosofia della pratica, Bibliopolis, Napoli, 1996.
Idem, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari, 1950, 9° ed.
Idem, Etica e politica, Laterza, Bari, 1973.
Idem, Cultura e vita morale, Laterza, Bari, 1955.
Idem, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari, 1965.
GALASSO G., Croce e lo spirito del suo tempo, Il Saggiatore, Milano, 1990.
GARIN E., Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1974
CINGARI S., Benedetto Croce e la crisi della cultura europea, Rubettino, Catanzaro,2003.
GENTILE G., I fondamenti della filosofia del diritto, Sansoni, Firenze 1961.
GRAZIANI E. e SERRA T. (a cura di), Etica e politica nella filosofia di Benedetto Croce, Edizioni Nuova cultura, Roma 2014.
KANT I., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 1995.
MAUTINO A, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Einaudi, Torino.
MONTANARI M., Politica e storia. Saggi su Vico, Croce e Gramsci, Pulierre Editore, Bari 2007.
ONUFRIO S., La politica nel pensiero di Benedetto Croce, Nuova Accademia Editrice, Milano 1962.
ROMANO S., Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffré, Milano, 1969.
SARTORI G., Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Morano, Napoli, 1966.
Idem, Studi crociani, il Mulino, Bologna, 1997, 2 voll..
SASSO G., Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Morano, Napoli 1975.
ZEPPI S., Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalsocialismo, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
[1] B. Croce, Filosofia della pratica, Bibliopolis, Napoli, 1996, (1° ed. 1908), p. 324.
[2] Scrive a tal proposito Norberto Bobbio che «Benedetto Croce è un pluralista convinto», N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione Nuovi studi di teoria della funzione, Laterza, Roma-Bari 2007, (1° ed. Edizioni di Comunità, Milano 1977), p. 144.
[3] Nel 1909 Santi Romano tenne il discorso inaugurale dell’anno accademico 1909-10 nella Regia Università di Pisa dal titolo Lo Stato moderno e la sua crisi. Pubblicato originariamente nella Rivista di diritto pubblico, 87, 1910 e, successivamente, ripubblicato in una raccolta di scritti dall’identico titolo presso l’editore Giuffrè di Milano nel 1969, pp. 5-26.
[4] S. Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1977, 3° ed.
[5] B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., p. 316.
[6] Idem, Il disinteressamento per la cosa pubblica, in Id., Etica e politica, Laterza, Bari 1973, pp. 128-33.
[7] Il saggio kantiano a cui Croce s’ispira è il celeberrimo Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del 1784, in cui Kant individua quale mezzo di cui la natura dispone per condurre al completo sviluppo le proprie disposizioni «la insocievole socievolezza degli uomini, vale a dire la loro tendenza ad unirsi in una società che tuttavia è congiunta ad una continua resistenza la quale minaccia continuamente di sciogliere questa società. […] L’uomo ha una inclinazione ad associarsi: poiché in tale stato sente in maggior misura se stesso in quanto uomo sente cioè lo sviluppo delle sue disposizioni naturali. Ha però anche una forte tendenza ad isolarsi: perché trova in sé, allo stesso modo, la proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il proprio interesse». Il saggio kantiano lo si può leggere nel volume I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 1995, la citazione è alla p. 148
[8] Il passaggio crociano recita così: «Nella realtà, lo Stato è la continua archia dell’anarchia, e perciò continua lotta tra le forze dissocianti e la forza associante, le prime delle quali sono nient’altro che la forma immediata e spontanea del rigoglio vitale»
[9] Per Croce l’opposizione è possibile solo nella distinzione, solo i dualisti pongono come un prius l’opposizione mentre essa è, realmente, un posterius rispetto alla distinzione.
[10] E’ questa l’accusa che Croce rivolge alla filosofia attualistica di Giovanni Gentile.
[11] Quasi a chiusura del saggio, Croce definirà gli Stati come «forme necessarie nelle quali si muove la vita storica», essi «somigliano alle cosiddette forze della natura (realmente le forze della natura sono come gli Stati) che l’individuo etico dirige e attualizza ma non crea, e nel dirigerle spende tesori d’intelletto e di volontà e in ciò si mostra, pur nel servirle a esse superiore»; B. Croce, L’antieroicità degli Stati, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 144.
[12]Ibidem, p. 142.
[13] «Sta bene che si parli dello Stato e, nel parlarne, lo si metaforeggi quasi un’entità; ma in effetto, lo Stato non è altro che l’uomo nel suo pratico operare e, fuori dell’uomo praticamente operante, non serba realtà veruna»; B. Croce, Lo Stato etico, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 148.
[14] Elementi di politica furono pubblicati nel 1925 e nel 1930 ripubblicati insieme a Frammenti di etica e al Contributo alla critica di me stesso nel volume Etica e politica.
[15] B. Croce, Elementi di politica, op. cit., p. 174.
[16] Ibidem.
[17] Scrive Croce che in sede teorica non si può ammettere«una distinzione assai usuale nelle dottrine e nei dibattiti politici – e che ha certamente importanza grande, ma affatto pratica: – quella tra Stato e governo; perché, per chi cerchi la concretezza e non le astrazioni, lo Stato non è altro che il governo, e fuori dalla, non mai interrotta, catena delle azioni del governo non rimane se non l’ipostasi dell’astratta esigenza di queste azioni stesse, la presunzione che le leggi abbiano un contenuto per sé stabile, diverso dalle azioni che alla loro luce, o alla loro ombra vengono compiute»; ivi, p.175.
[18] Discutendo dei limiti che lo Stato-potenza trova innanzi a sé, Croce scrive: «questi limiti, che lo Stato come potenza deve sentire e mantenere, non sono qualcosa che gli provenga dall’esterno o che la moralità gli appiccichi sul dosso come un cartellone;ma sono limiti e freni che esso trova in se stessoe trae dalla sua propria natura, dal suo interesse, dal suo utile, e, per così dire, dal suo istinto di conservazione. La mancanza di freno e l’oltrepassamento dei limiti non si chiamano, in politica, peccati o crimini, ma “sbagli” […]: sbagli, in quella cerchia, più gravi di ogni crimine e peccato: sbagli politici. Onde, dal riconoscimento dei suoi necessari limiti e freni, la dottrina dell’autono rassodata mia dello Stato, della indipendenza della politica dalla morale, viene non già scossa, ma confermata e rassodata »; B. Croce, La Critica, XIV, 1916, p. 242, ripubblicato in Id., L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1965, (prima ed. Ricciardi, Napoli 1919), pp. 108-9.
[19] Croce considerava la propria concezione del rapporto tra politica-(Stato) e morale come «una profonda correzione alla dottrina dello Hegel, il quale concepiva ancora lo Stato, e la lotta per lo Stato, come”superiore” alla morale, laddove la teoria da me difesa lo concepisce, se mai, come “inferiore” (sebbene fornito di una sua propria natura che alla morale è dato adoperare, ma mai convellere)», Ibidem, p. 107.
[20] Il volume fu edito nel 1919 presso l’editore Ricciardi di Napoli e raccoglieva scritti e articoli apparsi prevalentemente, ma non solo, su La Critica. Nel 1928 il volume fu ristampato presso l’editore Laterza e a partire dalla terza edizione del 1950 il titolo fu mutato in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, per non ingenerare equivoci su quale fosse il conflitto mondiale a cui ci si riferiva.
[21] Ibidem, p. 5.
[22] Ibidem, p. 6.
[23] «La guerra ha dimostrato, invece, che le lotte internazionali primeggiano pur sempre sulle sociali, e che attori della storia del mondo sono i popoli e gli Stati, e non le classi», ivi, p.111; nel settembre del 1917 (la citazione precedente è del maggio del 1916), nella Prefazione alla terza edizione de Materialismo storico ed economia marxistica, pubblicato presso l’editore Laterza di Bari, Croce scrive, ribadendo il pensiero dell’anno precedente: «il concetto di potenza e di lotta, che il Marx aveva dagli Stati trasportato alle classi sociali, sembra ora tornato dalle classi agli Stati, come mostrano nel modo più chiaro teoria e pratica, idea e fatto, quel che si medita e quel che si vede e tocca», p. xiv.
[24] B. Croce, Contro il secolo decimottavo, in Id., L’Italia dal 1914 al 1918, op. cit., pp. 110-1. Lo scritto fu pubblicato originariamente su La Critica, XIV, 1916, pp. 243-4.
[25] La Critica, X, 1912, pp. 232-6. Il saggio fu successivamente pubblicato nel volume Cultura e vita morale, Laterza, Bari 1914 ed infine riedito in L’Italia dal 1914 al 1918, op. cit., pp. 31-9.
[26] Una testimonianza di questo atteggiamento sono due scritti che Croce pubblica nel 1911 e nel 1912: Fede e programmi e Il partito come giudizio e pregiudizio. Nel primo saggio, Croce analizza la crisi del sentimento di unità sociale e, conseguentemente, anche di quello di disciplina sociale. Questo legame, che consiste nel vincolo di ciascun individuo con il tutto a cui si sottomette e da cui attinge il valore stesso della propria individualità – e che Croce definisce “la buona individualità – è sostituito dalla “cattiva individualità”, ovvero la rottura di quel legame. La radice della cattiva individualità, Croce la ritrova nei vizi della storia nazionale (tra cui l’incapacità della classe dirigente nazionale), nelle teorie socialiste e nell’idea di “lotta di classe”. In questo clima proliferano programmi politici di ogni tipo ma tutti viziati dall’essere astratti disegni privi di fede. Mentre il corretto rapporto tra fede e programmi è che la prima preceda e fondi i secondi. La riflessione avviata in Fede e programmi prosegue ne saggio del ’12, in cui i partiti politici sono considerati forme cristallizzate delle vita sebbene necessarie alla conservazione del lavoro già svolto. Ma l’agire politico è sempre un atto creativo e, pertanto, l’uomo politico dovrebbe aderire ad un partito esistente (e con questo lo trasforma) o crearne uno nuovo al termine della formulazione di un programma e non porre, quell’adesione o creazione, come momento iniziale della propria determinazione. Fede e programmi fu pubblicato su La Critica, IX, 1911 pp. 390-6 e Il partito come giudizio e pregiudizio in L’Unità, a. 1, 6 aprile 1912. Entrambi furono ripubblicati in Cultura e vita morale, Laterza, Bari 1955 (1° ed. 1914), rispettivamente alle pp. 160-70 e191-8.
[27] B. Croce, Lo Stato come potenza, op. cit., p. 86.
[28] B. Croce, Elementi di politica, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 177.
[29] Ibidem, p. 178.
[30] Idem, Il risveglio filosofico e la cultura italiana, in La Critica, v. VI, 1908, pp. 161-78; l’articolo è stato ripubblicato in Ibidem., Cultura e vita morale, op. cit..
[31] Idem, Elementi di politica, op. cit., p. 185.
[32] Ibidem, p. 188.
[33]«La vita morale abbraccia in sé gli uomini di governo e i loro avversari, i conservatori e i rivoluzionari, e questi forse più degli altri, perché meglio degli altri aprono le vie dell’avvenire e procurano l’avanzamento delle società umane», ivi, p. 187.
Vizualizare articol: [hits]