Coordonat de Angelo CHIELLI & Ioana Cristea DRĂGULIN
Volum IV, Nr. 2(12), Serie nouă, Martie – Mai 2016
Linguaggio e lavoro politico nel Gramsci del Quaderno XI
(Language and political work in Gramsci’s Quaderno XI)
Ledion LAKO
Abstract. The article focuses on some political categories of Antonio Gramsci’s political philosophy such as common language, political work and common sense. The thesis is that for Gramsci the analysis of language is always critique of language and the purpose of this criticism is the political transformation of the existing form of life. The political work on the life form needs a very long processing time so the intellectual characteristic for Gramsci is patience.
Keywords: political work, Language, common sense, Gramsci, patience
Secondo il Gramsci del Quaderno XI, gli elementi intorno a cui si costruisce una forma di vita sono tre: il linguaggio, il senso comune (e il buon senso), la religione (e il folclore).
In primo luogo, nel linguaggio è contenuta un’intera concezione del mondo, dice Gramsci a chiare lettere. Questo è il primo punto fermo da porre. Una filosofia (qui il termine sta essenzialmente per ‘critica del linguaggio’) che voglia operare una critica dell’esistente, non può che partire dal linguaggio comune e dalla sua analisi. Qui l’espressione linguaggio comune diventa «senso comune». Il luogo comune nella sua duplice accezione di ovvietà del vivere quotidiano, ma anche di casa della comunità, spazio fisico della convivenza sociale, senza del quale non si porrebbero neppure le condizioni per l’esistenza mera della forma di vita. Qui stiamo, tuttavia, ancora analizzando il problema del linguaggio nella sua forma ordinaria, come koiné che consente la convivenza tra individui e non valutando lo stato e la natura della relazione tra individui.
Ma, in secondo luogo, il parlare è sempre un fatto politico, l’uso del linguaggio è l’uso della propria capacità di assumere responsabilità politiche. Dunque, la critica del linguaggio, che consiste essenzialmente nel superamento del linguaggio comune e nel raggiungimento di una coscienza filosofica e civile di più alto livello, deve porsi già da subito come interrogazione circa la propria appartenenza ad un raggruppamento. In questo senso gli intellettuali (in questo caso i filosofi) per Gramsci non sono – ma, in verità non possono essere (si veda qui la critica del linguaggio privato in L. Wittgenstein)[1] – irrelati rispetto alle masse. Il che, d’altra parte mostra il vero problema, cioè il problema della salvezza dell’intera comunità come scopo ultimo dell’attività intellettuale/filosofica.
Dice Gramsci:
”[La filosofia si pone] innanzitutto come critica del «senso comune» (dopo essersi basata sul senso comune per dimostrare che «tutti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex novo una scienza nella vita individuale di «tutti», ma di innovare e rendere «critica» un’attività già esistente)”[2]
E’ interessante notare il frequente ricorso che Gramsci fa al termine «tutti» in questo passaggio. Egli ragiona in termini politici, cioè matura l’idea che da una parte non vi sia alcun linguaggio e, soprattutto, alcuna trasformazione del linguaggio (“innovare”) che non veda coinvolti ‘tutti’ i parlanti, tutta la comunità dei parlanti. I processi di trasformazione linguistica sono processi profondi che richiedono il coinvolgimento o, se si vuole, la responsabilizzazione, dell’intera comunità che usa il linguaggio in oggetto.
Ma qual è lo spazio della critica del linguaggio? In Gramsci (così come, osiamo dire, in Wittgenstein) tutto il linguaggio è sempre critica del linguaggio. Così come la politica non è altro che l’opportunità di cambiare l’esistente attraverso l’assunzione di responsabilità storica della prassi di liberazione delle masse, anche la critica del linguaggio trasforma continuamente l’orizzonte e i limiti del dicibile. Li trasforma, o li sposta, attraverso la presa in carico di una riflessione sul già dato, rifiutando la rassicurazione confortevole della casa del luogo comune e sottoponendo a critica – una critica radicale – ogni atto linguistico, di cui si assume appieno la responsabilità. Per Gramsci, per il Gramsci politico, questa assunzione di responsabilità equivale ad una prassi di cambiamento radicale che vada verso la direzione della salvezza dei semplici. Perché è la questione della salvezza dei semplici di cui vuol parlare, che lo motiva a parlare. Questo non va in alcun modo dimenticato, perché è quell’elemento che trasforma il linguaggio comune in linguaggio politico.
„La filosofia della praxis non tende a mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali”.[3]
Il legame forte tra il filosofo e tutti gli altri si esprime non tanto nell’attività di ricerca, per così dire, di avanguardia. Questo legame è strutturato come un doppio legame: se è vero che il ritorno del filosofo alla caverna è un momento illuministicamente importante, è anche vero che a monte vi è il linguaggio comune, cui neanche il filosofo può sottrarsi. E’ l’appartenenza ad una comunità di cui è impossibile fare a meno, essendo insieme legame, ma anche possibilità al tempo stesso. Per questo il legame di appartenenza alla comunità è sempre un doppio legame. E questo da valore alla ricerca di élite (in quanto possibilità), ma costituisce anche il vincolo, che rende questa élite responsabile dell’uso del linguaggio, dunque dei propri atti linguistici.
A questo scopo, Gramsci sollecita l’attenzione su due elementi:
Il primo è quello dell’educazione. Il rapporto con la propria forma di vita si determina a partire dal modo in cui noi apprendiamo ad usare il linguaggio (ovviamente attraverso la prassi linguistica). E’ su questo punto che Gramsci individua il fallimento delle filosofie della secolarizzazione (Rinascimento e Riforma protestante). Ed è su questo punto che sembra individuare lo snodo fondamentale per la crescita di tutti, cioè dei semplici, la loro sottrazione al mondo del folclore. Ma, in quell’ottica di doppio legame di cui si diceva, è su questo punto che una filosofia colloca sé stessa nella storia, solo attraverso questo vincolo trova la propria possibilità, il proprio senso.
„Solo per questo contatto una filosofia diventa «storica», si depura dagli elementi intellettualistici di natura individuale e si fa «vita»”.[4]
Il farsi vita della filosofia equivale alla trasformazione del mondo, di quel mondo che tiene separato il linguaggio comune dei semplici da quello specialistico dei filosofi. Il ricostruirsi del legame tra questi separati è già di per sé un’azione rivoluzionaria, già di per sé denota la politicizzazione del linguaggio. Questa connotazione politica riposa sulla possibilità di mettere in comune l’esperienza della critica del linguaggio attraverso un’azione di descrizione prima e di spiegazione poi. Nei processi educativi l’intellettuale trasferisce non solo dei topics linguistici più complessi, ma un’intera visione del mondo. Anzi, indica la strada della possibilità di trasformare il mondo. Dunque i processi educativi che portino alla condivisione delle possibilità di esercitare una critica del linguaggio sono atti propriamente già politici.
Il secondo elemento è quello della ripetizione. Questo elemento, in stretta connessione con il primo è anche l’elemento che, proprio sul piano linguistico, rivela il vincolo forte che c’è tra i tutti e le élite, poiché la ripetizione non è che quotidianità, lavoro, pazienza, nel senso sì della virtù, ma anche della sofferenza. In una parola nel senso del sacrificio. La ripetizione è ciò che trasforma una serie di atti linguistici in un lavoro linguistico e ne rivela il contenuto politico. In questo senso egli individua due necessità:
„1) di non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti (…): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare;
2) di lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le «stecche» del busto”. [5]
Qui Gramsci non sottolinea solo l’elemento della pazienza come strumento politico di lungo periodo, che scava in profondità, dissodandolo e rendendolo fertile, il terreno della forma di vita. Qui Gramsci sta declinando uno degli elementi attraverso i quali si consolida e si riempie di significato quell’universale vuoto di cui parla, ai nostri giorni, Ernesto Laclau. L’egemonia si costruisce esercitando con pazienza la critica del linguaggio, riempiendo, per così dire, di significato politicamente innovativo il linguaggio comune.
Questo ci porta alla considerazione conclusiva: l’idea della società di massa e, secondo me, della forma della democrazia come unica forma politica capace di rendere ragione a questa massa antropologica, necessita di un’idea di linguaggio – e quindi di una critica filosofica e quindi di una politica – che diventi una massa linguistica, all’interno della quale si trovino amalgamati ed in continua interazione fenomeni che urgono e premono dal basso (il linguaggio quotidiano) insieme a fenomeni che coltivano territori più rarefatti (i giochi linguistici degli specialisti). Questa massa linguistica deve salvarsi in toto. E questo è il rapporto tra élite politiche e masse, nelle società contemporanee moderne. A questo va aggiunto che:
„E’ evidente che una costruzione di massa di tal genere non può avvenire «arbitrariamente», intorno a una qualsiasi ideologia, per la volontà formalmente costruttiva di una personalità o di un gruppo che se lo proponga per fanatismo delle proprie convinzioni filosofiche o religiose. […] Le costruzioni arbitrarie sono più o meno rapidamente eliminate dalla competizione storica, anche se talvolta, per una combinazione di circostanze immediate favorevoli, riescono a godere di una tal quale popolarità, mentre le costruzioni che corrispondono alle esigenze di un periodo storico complesso ed organico finiscono sempre con l’imporsi e prevalere anche se attraversano molte fasi intermedie in cui il loro affermarsi avviene solo in combinazioni più o meno bizzarre ed eteroclite.”[6]
Dunque, al di là delle contingenze storiche, che possono incarnarsi in congiunture positive o negative o persino in leader carismatici di scarsa tenuta storica, ciò che conta politicamente è la capacità di un’idea critica di imporre se stessa attraverso un lavoro politico in grado di costruire una solida relazione tra intellettuali e masse ed è nient’altro che in questo che consiste un processo di egemonizzazione politica.
Bibliografia
GRAMSCI Antonio, Quaderni del carcere, Edizione Einaudi, 2001.
KRIPKE S., Wittgenstein on Rules and Private Language, Basil Blackwell Publishing, Oxford, 1982.
WITTGENSTEIN L., Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino, 1967.
[1] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino 1967, p.118, §243. Sull’argomento si veda soprattutto S. Kripke, Wittgenstein on Rules and Private Language, Basil Blackwell Publishing, Oxford, 1982.
[2] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione Einaudi, 2001, vol. II, pp. 1375-1395 – p. 1383.
[3] Ibidem, p.1394.
[4] Ibidem, p.1382
[5] Ibidem, p.1392
[6] Ibidem, pp.1392-1393
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