Coordinated by Ioana CRISTEA DRĂGULIN
Issue 2(8)2015
PROFEZIA E POLITICA IN ALDO CAPITINI
PROPHECY AND POLITICS AT ALDO CAPITINI
Abstract
In this paper, starting with certain assumptions offered by the thought of Aldo Capitini, we will outline a possible interpretation of the deep meaning of the prophet in our society.
Capitini, in his effort devoted to rethink the value of the word as a basis for action, draws inspiration from Tolstoj, Gandhi. He rejects the divorce between body and mind that characterizes a great part of philosophical thought in western countries since 15th century. Despite of that, he theorizes, in the political writings and in the pedagogical essays, the duty of radical dissent in our representative democracies, whose panoptical architecture, conceived upon the key-role played by institutions, is a veil obscuring the long way to freedom for the human being. That is why he launches the educational challenge to resilience, not only as a political way to fight the power, but also in the perspective of building an integrated society.
Keywords: Aldo Capitini, prophecy, nonviolence, politics, pedagogy.
Introduzione
In questo saggio, partendo da alcuni assunti offerti dal pensiero nonviolento di Aldo Capitini, delineeremo una possibile interpretazione del senso e del ruolo giocato dal profeta nella nostra società, favorito dalla parola che egli anticipa, nel rapportarsi con il futuro che traccia a grandi linee, senza per questo confonderlo risibilmente con l’indovino o il veggente.
L’inquieto e sensibile antifascista, il credente fustigatore degli apparti ecclesiastici, l’infaticabile docente universitario, l’ideatore della marcia della Pace Perugia-Assisi, ha riconosciuto nell’educatore (maestro, politico) la più elevata e pura incarnazione del profeta contemporaneo, e pertanto ritagliato uno spazio inedito alla parola, nella convinzione che la (ri)costruzione delle fondamenta culturali, su innovative basi educative, di una società, sia il presupposto indispensabile per poter giungere a una maturazione tale da disseminare la capacità diffusa di rigettare qualsivoglia confusione tra il ricorso a una parola forte, autorevole, aliena da compromessi al ribasso, e quello a una parola piegata alla violenza, alla distruzione, alla morte. Nel linguaggio, insomma, e in primis in quello poetico, quello creativo, Capitini riconosce non soltanto un potenziale di azione, ma l’azione stessa. Laddove persino in certa produzione kantiana esso era stato declassato ad accompagnamento per i concetti, a strumento per riprodurli in caso di necessità, nel perugino il pensiero (e inevitabilmente il linguaggio), rivalutato rispetto alla scissione con il corpo cui era stato sovente costretto, torna a rivelare, pur nella sua autonomia teoretica, il tratto essenziale della propria natura: l’azione. L’interiorità, allora, non è assimilabile in toto a un percorso ascetico, ma è confronto – drammatico, non scevro da tormenti – con l’esperienza e, quindi, apertura al mondo[1].
In tale opera di ricucitura, Capitini attinge, specialmente in tema di nonviolenza, e di ripensamento del valore della parola, a Tolstoj, a Gandhi. Pur rifiutando segnatamente la cesura operata dal pensiero occidentale tra corpo e mente, rimane agganciato alle premesse filosofiche di questa parte del pianeta. Nondimeno teorizza, tanto in ambito squisitamente politico quanto negli scritti di carattere educativo o divulgativo, il dovere a un dissenso radicale e non accomodante verso le forme dell’incompiuta democrazia nei cui dispositivi di controllo intravede, al di là delle apparenze, una neppure troppo larvata modalità di addomesticamento della libertà costitutiva dell’essere umano, contro cui lanciare la sfida educativa alla resilienza, non solamente come opposizione reattiva e meccanica al dato di realtà, ma come costruzione di un sistema integrato duttile, in grado di adattarsi al contesto offrendo risposte innovative, nella convinzione che le relazione umane non siano mai uno zero-sum game.
L’educazione e la politica, in tale prospettiva, non possono limitarsi alla gestione dell’ordinaria amministrazione, ma sono la misura del futuro atteso, desiderato. Il passato-presente è una dimensione che, istante dopo istante, consuma le proprie potenzialità e, benché mantenga in dote il dono di fungere da cinghia di trasmissione della memoria (per non ricadere più nell’abisso della dittatura), deve prefigurare la tramutazione, radicale e strutturale cambiamento della realtà naturale e umana, che in politica assumerà le sembianze della rivoluzione, depurata dalla violenza insita per esempio nell’esperienza bolscevica e molto più affine a un’accezione scientifico-astronomica del termine.
La tensione profetica
La tensione profetica è uno degli aspetti che più contraddistinguono la riflessione e l’azione di Aldo Capitini, maestro della nonviolenza[2], tanto da trovare un’esplicita tematizzazione in molti dei suoi scritti, e in particolare in quelli con più marcata connotazione pedagogica e politica. Non si tratta di un accidente del pensiero, che tanto più suonerebbe curioso in un pensatore per molti rispetti scevro dai formalismi accademici e dall’affanno verso la specializzazione del sapere di cui pure le Università si sono fatte imbuti castranti. La categoria del profetismo e l’attenzione alla figura del profeta, che affonda la propria rilevanza nell’esperienza del popolo ebraico tra l’VIII e il V secolo a.C., lungi dall’essere coniugata nel solco di certa tradizione, che in Europa era stata ancora particolarmente viva fino a tutto il Medioevo, restituisce l’intera Weltanschauung dell’intellettuale italiano, che alla connotazione anche lessicalmente “religiosa” del proprio pensiero riesce a dare una cifra pienamente “laica”[3].
Religioso, nella peculiare accezione che il termine assume nell’opera capitiniana, è il dualismo rintracciabile nella realtà, o, meglio, nell’interstizio dove si colloca lo scarto tra la realtà come è e come dovrebbe essere. Religiosa è la viva dualità che la datità, insufficiente, produce, quando comincia a stridere con un panorama alleggerito dal fardello dalla gabbia d’acciaio weberiana della secolarizzazione, giacché quest’ultima, lungi dal dispiegare orizzonti di liberazione, riproduce, con esito paradossale, ancora una volta nel pensiero dell’Occidente, il vincolo del limite, della finitezza, invece che quello della liberazione dal male. Non che male e bene fossero categorie onto-metafisico-ideali di agevole applicabilità al contesto da cold war del secondo dopoguerra (e a maggior ragione difficilmente potrebbero esserlo oggi), ma sono pur sempre un regolo con il quale misurare noi stessi e mediante cui puntare a un percorso di apertura convinta verso gli altri.
Risulta dunque evidente quanto impervia sia la riflessione che voglia cimentarsi con l’atteggiamento profetico propugnato da Capitini senza lasciarsi fuorviare dalla sua mistica del linguaggio, tendendo viceversa a connotare sia storicamente che teoreticamente la sua teleologia profetica con gli aspetti più propriamente politici disseminati nella sterminata produzione. Con l’accortezza di mettere preventivamente in rilievo quanto il tenore discorsivo e spesso finanche apodittico dei suoi scritti vada collocato all’interno della curvatura pedagogica che, meglio di qualunque altra, consente di aderire allo spirito dell’autore, cogliendone di conseguenza, come rimarcato da Caterina Foppa Pedretti, il tratto di “profetismo profano”, senza confonderlo con quello di “profetismo religioso” classicamente inteso[4].
“Profetismo profano” vuol dire, come invero anche in quello dalla cifra religiosa, abbandonare forme di rapporto con il presente e il futuro vicine alla magia, e cessare così di essere voce oracolare che proclama una verità a chi ne chieda consiglio. Il profetismo profano, pur rimanendo nel solco della peculiarità capitiniana intravista da Norberto Bobbio in un celebre scritto dedicato all’opera dell’amico, ossia “nell’unione, meglio nella fusione, di religione e politica”[5], ha il suo significato più profondo e intenso nell’ancorare il pensiero alla situazione storica, concreta, presente, al fine di trasformare le proposte elaborate, previo studio di fattibilità, in prassi educativa e sociale. Tale profetismo proietta nell’oggi pensato domani il radicale dissenso verso l’architettura socio-economico-religiosa che sorregge sia le istituzioni che le agenzie di distorcente socializzazione di massa (più che per un difetto congenito, per la promiscuità con le logiche degeneri del potere ridotto a fine), come la Chiesa, i partiti, i sindacati. È il presupposto di uno sguardo che scorge innanzitutto ostacoli, che mette in luce limiti, non per bloccarsi al loro cospetto, bensì con l’intento di valicarli, di ipotizzare un liberalsocialismo in cui il sol dell’avvenire non sia offuscato da alcun meccanicismo, ma profili un orizzonte escatologico in cui l’apertura al ‘tu-tutti’, ossia all’‘altro-altri’ (senza escludere alcuno) diventi presupposto di produzione costante di valore.
È del tutto evidente quanto la battaglia ingaggiata contro l’asfissia sociale, contro la pigrizia che trattiene nelle proprie maglie i soggetti, impedendo loro di diventare pienamente cittadini autonomi, benché condotta con un registro, persino lessicale, depurato dal diffuso fraintendimento della lezione del realismo machiavellico, risenta di un’impostazione di fondo in cui l’idealità politica si lascia veicolare dalla pedagogia.
Se infatti, come accennato, per Capitini l’uomo è la possibilità reale di ciò che non è ancora avvenuto, ma può ugualmente, anzi deve inevitabilmente accadere, al pari di quanto sostenuto da Ernst Bloch[6], è d’altronde inevitabile che il profeta, in veste di sacerdote di un’utopia differita, rivoluzionaria ma pragmaticamente in grado di misurare la propria capacità di penetrazione nella società – giacché rifugge metodi violenti – sia conscio di quanto le possibilità di inveramento del proprio messaggio siano affidate in dote ai fanciulli, esseri umani ancora pienamente da forgiare, portatori di una purezza e di una gioia che nell’adulto non è del tutto evaporata, ma bisogna rintracciare con maggiore fatica e con un investimento emotivo e di tempo superiore. Il fanciullo, come essere già ‘capace d’agire’ ma non per questo da etichettare come ‘piccolo uomo’, e ancora in grado di suscitare stupore e meraviglia rimandando, con la memoria o con l’immaginazione, all’atto della propria nascita – che in Capitini è il “primo evento per cui la compresenza si mette in rapporto con un singolo essere”[7] – è il figlio della festa, è annuncio della realtà liberata perché soggettività meglio in grado di cambiare verso alla storia, favorendo l’incontro tra la realtà limitata di ieri e quella liberata che da oggi si traguarda verso domani. Il bambino è il prisma attraverso cui l’insoddisfazione, il dolore, il portato drammatico dell’esistenza non ancora liberata vengono filtrati per riconoscere “una sostanza nuova, non appartenente alla stessa sfera cui appartiene l’adulto, ma che attinge già alla realtà liberata”[8].
Al discorso pedagogico è consustanziale l’interrogativo sull’accettabilità della realtà. E la risposta non può che essere negativa. L’utopia capitiniana, allora, benché rifugga la letteralità del termine (non-luogo, posto che non c’è), non ne riduce e distorce il senso profondo nell’aderenza ipotizzata, auspicata al progetto di rinnovamento della società, ma veleggia sulle limpide acque del coraggio di anticipazione e di prefigurazione, portando con sé con un carico di intransigenza etica e di estraneità rispetto alla tirannide e a modelli totalitari dietro i quali risuona forte anche l’eco dell’esperienza di carcerazione vissuta in prima persona sotto il regime fascista.
In quest’ottica, all’educatore/profeta è richiesto di debellare la barbarie molecolarmente rinvenibile nella società insegnando all’allievo, bambino o adulto che sia, a smascherare i meccanismi di oppressione, le opache strategie dei sistemi di potere, onde spiegare che la liberazione si misura anche, se non soprattutto, attraverso il grado di inclusione e di coinvolgimento dei più deboli e/o dei differenti[9].
La capacità del maestro-profeta di scorgere ci riporta alla metafora più usata da Capitini per descriverlo: un soggetto aperto che viene dal passato con una sofferta esperienza, con la consapevolezza dolorosa del proprio limite e della realtà a cui appartiene. L’evidente richiamo biografico, sposandosi con la declinazione tragica, infarcita di rimandi prettamente classici, della transeunte vicenda terrena, rende la figura educativa per eccellenza, il Maestro, un profeta di qualcosa che verrà, e che, titanicamente, tocca anche a lui determinare, persino remando controcorrente nel mare magnum della storia. Nel profeta, allora, che sembra designare tanto un ruolo quanto uno status sociale, si coagula l’essenza dell’educatore e ad egli vengono conferiti significati affatto particolari.
Il profeta è inquieto, incapace di accettare il presente e di farsi addomesticare da esso. La sua ribellione, proprio perché amplificata dalla tormentata vicenda personale, ha in sé un surplus di pathos, che può rinvenirsi nel glossario che lentamente forgia dal nulla, spesso ritornando all’etimologia dei vocaboli, più frequentemente squarciando il velo che distorce il corretto intendimento di parole che nel tempo sono state oggetto di una dolosa manomissione.
Distinguendosi dal chiaroveggente così come dall’utopista, che spinge la sua immaginazione fino a una visione irrealizzabile, “il profeta è il persuaso che vive la dualità, operando un taglio, e questo taglio, questa ferita lo abita profondamente, senza possibilità di sanarsi, senza speranza di sollievo. Può soltanto lasciarla aperta, anzi farne un varco. Quella cesura, quella scissione dolorosa è la coscienza della divisione tra la realtà limitata, che ferisce con i suoi limiti, e un futuro appena visibile, ma di cui il profeta ha certezza e che addita”[10].
Il profeta, che parla a favore di (pro) qualcuno, verso qualcuno, sforzandosi di comunicare con qualcuno, scrive Aldo Capitini, non è “il moralista legislatore che indica le leggi e le sanzioni”[11] ma è annunciatore di festosa liberazione per tutti sollecitando tutti alla responsabilità[12].
Il suo singolare destino è essere portatore di una novità che risulta ‘sgradevole’ e spaventa i contemporanei, e per questo paga lo scotto di essere in anticipo sui tempi, di essere non di rado vox clamantis in deserto, con una condizione di estrema solitudine: prima irriso, poi perseguitato e solo alla fine ascoltato e rispettato[13] (ma non da tutti, perché non mancheranno coloro che lo accuseranno di essere un ‘falso profeta’).
In Capitini il profeta perde i connotati squisitamente religiosi che avevano quasi del tutto monopolizzato il significato del termine nei secoli, e diventa ben chiaro quanto la sua presenza e continua interazione nella comunità, fondandosi sull’annuncio di una verità che si pone in aperta polemica con la realtà circostante, e quindi sviluppando una serie di dualismi tra presente e futuro, realtà immediata e realtà autentica, immanenza e trascendenza[14], possa finire per equivalere a insubordinazione alle autorità costituite e quindi pretesto per essere destinato, nella meno cruenta delle ipotesi, al limitare degli organismi sociali. In regimi che, almeno di facciata, si proclamano democratici, l’esito non sarà la condanna a morte, tanto più con le crudeltà riservate ai profeti religiosi, da Amos, a Baruch a Geremia, secondo la sintetica e vivace ricostruzione delle rispettive sorti fattane da Voltaire, perché, come nell’illuminista francese, prevale, su ogni considerazione inerente alla propria sorte terrena, la convinzione che l’intelligenza messa in campo dal profeta sia “lo sforzo dello spirito umano” e che non necessiti pertanto di ulteriori specificazioni[15].
Al profeta dunque, a differenza dell’insegnante, a cui è assimilabile per tanti aspetti, spetta un passo ulteriore. Mentre a quest’ultimo, se incapace di ripensare il rapporto educativo facendo leva sui margini di libertà riservatigli dalla Costituzione o da Carte dei diritti varie, e cercando anche di andare oltre (tanto più che nell’immediato secondo dopoguerra erano ancora vive declinazioni autoritarie della riforma gentiliana), spetta il compito di comunicare il sapere raggiunto, persino senza problematizzarlo benché invitando ad ampliarlo, in certo senso scindendo se stesso dai compiti istituzionali affidatigli, viceversa il profeta è atteso dalla sottoposizione a un vero e proprio cammino iniziatico.
Si prenda, seguendo l’esempio di cui Capitini fa fugace menzione, il libro di Geremia. All’interno della vasta sezione oracolare, quando il lamento del profeta sulla sorte del regno di Giuda si fa più straziante, il suo dolore “senza fine”, la sua piaga “incurabile” (Ger 15, 18), il Signore Dio prospetta una soluzione a patto che egli diventi capace di “distinguere ciò che è prezioso / da ciò che è vile” (Ger 15, 19). Allora la ‘geremiade’ potrà cessare e il sacerdote diventare la bocca di JHWH[16]. Al profeta è richiesto, prima di poter portare un annuncio che non sia del mondo, ma dell’assolutezza, un’opera interiore, tutt’altro che indolore e semplice, di purificazione[17].
Certo Capitini, che imputa pure alle soluzioni educative progressiste delle propria epoca, centrate sull’urgenza di colmare il dislivello, l’asimmetria tra docente e discente, un dogmatismo inaccettabile, non risulta del tutto immune a identico unilateralismo. Non solamente sotto il profilo metodologico, ma perché si rinviene talvolta nelle sue pagine una commistione di idealismo e spiritualismo che appare claudicante dinanzi alla tentazione del Lógos divino di autoproclamarsi Nomos sia della Terra che del Cielo. Il Verbo, allora, diventa nella complessa architettura del suo pensiero un veicolo di valori talmente alti e puri da aggirare qualsivoglia riflessione comune nella sfera pubblica. O, meglio, l’ipotesi di un processo di emancipazione (non circoscritto ai diritti) che sbocchi verso soluzioni differenti da quelle auspicate. Il punto è che l’educazione attraverso un atto ‘religioso’ consta, secondo lui, di una tensione alla liberazione che più efficacemente di ogni altra impostazione può scardinare l’istituzione educativa come apparato ideologico di Stato, teso a irrigidire il sapere e a bloccare l’ascensore sociale[18].
Il suo vuole essere, in modo enciclopedico, un umanesimo che riprende dalla filosofia della prassi marxiana alcuni spunti, per andare oltre lo storicismo idealistico, mentendo fisso l’obiettivo di un superamento, in chiave prettamente culturale, attraverso il tramestio della coscienza – che non significa astratto esercizio intellettualistico, refrattario a dare gambe all’azione –, delle forme istituzionali che hanno ingessato il cristianesimo da un lato e il comunismo dall’altro, ossia la Chiesa cattolica e il regime sovietico[19].
Il liberalsocialismo profetico
Il liberalsocialismo, che fonde i due termini originari in un unico sostantivo, come accade con nonviolenza, è anch’esso declinato profeticamente. Se il compito del profeta è di favorire l’apertura della società con la propria parola, rivolgendosi a tutti, senza riproporre la stolida separazione tra masse ed élites, diventano d’un tratto quasi ovvie le note ritrosie del Capitini, come quella di aderire al Partito d’Azione durante la Resistenza, seguendo la confluenza votata dai suoi compagni di viaggio, proprio per il tratto fortemente intellettualistico del partito, staccato dalle moltitudini lavoratrici. D’altro canto, l’incapacità di mediazione del profeta, che porta con sé una parola talmente dirompente da non poter essere accomodata, è la medesima che muove l’impegno politico del Nostro, che ripetutamente interverrà in merito alla caratteristiche del liberalsocialismo, per evitargli la sbrigativa etichettatura di ‘terza via’, intendendo al contrario specificare che esso non andasse considerato “una specie di mezzadria tra liberalismo e socialismo, e una soluzione da moderati quasi l’uno temperasse l’altro, ma come l’uno stimolasse l’altro, poiché se il liberalismo non poteva nel suo sviluppo non suscitare il socialismo per una maggiore libertà concreta, contro il capitalismo (che toglie mezzi di sviluppo e quindi libertà), d’altra parte il socialismo, assimilato per l’ordinamento economico da un liberalismo non più liberista, risorgeva là entro sul piano etico-religioso”[20].
Ancora una volta emerge limpidamente che soltanto l’aggiunta religiosa alla morale e alla socialità siano da Capitini intese come elementi dotati di una cromatura unica, in grado di dissolvere per sempre l’antropologia fascista, accelerandone il superamento, non garantito automaticamente dal passaggio alla forma repubblicana di Stato.
Il suo profetismo della praxis, teso all’avvento del post-umanesimo, imperniato sulla figura del profeta come centro individuale in grado di calamitare tutte le risorse della società per dare vita a un cerchio universale, spirituale ma anche politico (e non a caso ricorre più volte il sostantivo ‘cosmopolitismo’, preferito a ‘internazionalismo’, tipico della tradizione semantica e dottrinale social-comunista), sembra dunque caratterizzarsi come un ‘teismo razionale’ di tipo kantiano. Anzi, seguendo la definizione data da sé medesimo, ‘kantiano-leopardiano’, volendo con ciò mettere in risalto del poeta recanatese l’attenzione esistenzialista, e del filosofo tedesco la coscienza della finitezza della morale[21], che nella seconda formulazione dell’imperativo categorico raggiunge il climax[22].
Tra suggestioni kantiane e anticipazioni della ‘società aperta’ poi rintracciabili nell’opera popperiana (salvaguardando le differenze), l’idea stessa del liberalsocialismo in Capitini, così come in Guido Calogero, può essere definita come una metafora di ricerca, sempre aperta a nuovi approfondimenti analitici e alle incursioni di una historia magistra rerum. Certo, rispetto all’orientamento giuridico del liberalsocialismo calogeriano, quello di Captini si connota, come del resto evdiente per quanto già scritto, come un esperimento social-religioso, più attento alla centralità dell’individuo e refrattario a prospettive imperniate su forme di statalismo più o meno diffuse e pervasive. Esso, insomma, proprio per tutelare la libertà profetica del messaggio e del suo latore, viene definito da Capitini un atteggiamento dell’animo[23].
Il circuito del Reale
L’incessante impegno socio-politico-pedagogico di Capitini, individuando in estrema ipotesi una chance di redenzione universale e senza distinzioni nel messaggio evangelico più chiaramente che in ogni altro sforzo del pensiero umano, sembra per alcuni versi attraversata dal medesimo tormento che accompagnò lungamente la vita di Emmanuel Mounier.
Se forse nel filosofo il tenore della riflessione è più sistematico e più chiaramente indirizzato verso una società personalista e comunitaria, che accolga i valori cristiani considerati ancora capaci di dare una risposta ai problemi dell’uomo e alla sua aspirazione alla verità, nondimeno anche il francese è conscio delle difficoltà che si frappongono alla traducibilità politico-amministrativa di questa tensione rivoluzionaria. A differenza di Capitini, però, tale consapevolezza lo conduce a privilegiare un meglio collaudato piano dell’azione “profetica”, della “testimonianza”, ossia l’affidamento cieco della speranza di una società che recepisca i valori di cui il cristianesimo è portatore ai tempi lunghi della storia[24].
Non che Mounier rifiuti la politica: ma il suo atteggiamento evidenzia un disincanto maggiore. Il pensiero di cui si fa alfiere oscilla, come è stato più volte evidenziato dagli studiosi, tra un polo “politico” e uno “profetico”. Stare nella politica, ma senza essere dei “politici”, posto il disgusto verso la forma degenerata e corrotta della politique politicienne praticata dai partiti.
Entrambi sembrano accomunati dall’insofferenza verso i risicati margini d’azione concessi in un mondo bipolare, e cercano di passare per la strettoia di un’alternativa variamente bianca o rossa rispetto alle opzioni a cui i rispettivi quadri politici nazionali erano stati incasellati dagli assetti geopolitici e militari di Yalta. Ma, al di là di tale aspetto, che pure non può archiviarsi con malcelato fastidio, l’enfasi sulla “persona” li colloca pienamente nel discorso della Modernità, da cui tentano talvolta di smarcarsi entrambi, con le rispettive peculiarità, ricercando l’elemento di cucitura possibile tra un esito apparentemente rivoluzionario perché di tenore prudentemente riformistico e le premesse religiose, conferendo a queste ultime un valore culturale che rimandi al rapporto tra uomo e sacro rinvenibile a tutte le latitudini e in tutte le epoche.
Torniamo, per esempio, a Capitini. Senza dubbio nella sua sterminata produzione saggistica e divulgativa il dialogo con la realtà è serrato e, in ciò anti-idealisticamente, vi è refrattarietà verso l’universale, così come verso la formulazione di verità assiomatiche. Sul limitare di tale approdo, però, Capitini si blocca, non senza riconoscere all’illuminismo, al liberalismo, al socialismo il merito di aver contribuito a sconfiggere, ancorché non del tutto, gli elementi dogmatici, autoritari, istituzionali, mitologici della religione. Di quella stessa religione sulla cui manifestazione ‘tradizionalista’ sarà ripetutamente in conflitto con il Vaticano, ma dalla quale comunque attinge linfa per il proprio pensiero. Se ciò rientra ovviamente nella più ampia libertà di cui ciascuno di noi dispone, il nodo problematico può individuarsi nell’approssimazione della collocazione della vicenda storica del processo di individualizzazione. Che essa risponda o meno all’auspicio evangelico appare di trascurabile rilievo. Quel che occorre sottolineare è che l’immagine dell’individuo come essere interamente libero e indipendente, personalità conchiusa interamente fondata su se stessa e separata da tutti gli altri uomini, e quanto di conseguenza ciò abbia influito sull’interdipendenza e la formazione e il mantenimento di legami sociali, è senza dubbio una peculiarità strutturale di alcune, numericamente molto limitate, civiltà del pianeta, ma che ha scavato parecchio nel profondo del processo di ‘civilizzazione’ (depurando il termine da qualunque connotato valutativo), spianando la strada alla differenziazione e, appunto, individualizzazione dei gruppi umani[25].
La ricostruzione di Norbert Elias, nella quale il sociale soccombe a beneficio dell’individuo, se può senza dubbio essere tacciata di latente manicheismo, è però inattaccabile sotto un aspetto specifico. Nei secoli passati, con movimento che non si è interrotto anche dopo l’apertura del nuovo millennio, la trasformazione del senso e della forma dello stare insieme non è stata superficiale, assumendo, verrebbe quasi da affermare, i connotati di una radicale mutazione antropologica. La fondazione dell’individuo, allora, pur mantenendo, in tutta evidenza, un connotato naturale, im-mediato, nelle sue modalità contemporanee acquista pienamente senso soltanto a patto di riconoscere quanto la coniugazione attuale di ‘individuo’, centro pulsionale complesso, frastagliato, che tende a, e pretende una, regolazione nient’affatto spontanea, si inserisca in una portentosa corrente storica e di pensiero alla quale non basta opporre, salvo produrre effetti inintenzionali, l’esigenza di scrostare il vocabolario religioso. Né basta, d’altro canto, tracciare una genealogia filosofica da respingere al mittente, che inglobi, in modo spesso indifferenziato, Cartesio e Hegel (tanto per citare alcuni obiettivi privilegiati della polemica capitiniana).
La differenziazione delle funzioni sociali, sempre più spinta e prodromica a quel che sarebbe nei giorni nostri diventato il tirannico dominio delle “tecnocrazie”, necessita di ben altra attenzione. Richiede un’opzione di cambiamento radicale non solamente sul versante pedagogico e culturale, ma anche su quello economico. Ossia laddove frequentemente Capitini si arresta. Eppure, la traccia della Modernità era chiara: costringere l’individuo, secondo dispositivi sempre più spersonalizzati, a dipendere dal comandamento della concorrenza, trasformandolo in consumatore che intreccia la propria sorte con quella altrui in funzione strumentale, utilitaristica. “In queste condizioni, discernere nel singolo quanto ha da imputarsi all’istinto e alla forza della natura e quanto invece è riconoscibile come determinazione sociale è un affare puramente retorico: il soggetto è sottoposto al giogo di una doppia ingiunzione, naturale e sociale, i cui piani si confondono e al quale in ogni caso non gli è dato di sottrarsi”[26]. O, meglio, in nome dell’autonomia dell’individuo (ma potremmo qui scrivere anche della persona), gli è consentito, poiché la sorte del genere umano non è eterodiretta. In fondo, l’individuo empirico, che guarda alla società come al luogo della sua realizzazione, è il soggetto di una consapevolezza che presuppone – ma poi viene anche circolarmente implementata da queste – autonomia, indipendenza e libertà, la triade valoriale che ne regge le sorti. A costui, come anticipato, è consentito fuoriuscire dal circuito in cui è stato coinvolto, ma soltanto in misura limitata. Dietro la subordinazione del soggetto all’entità indivisibile (secondo quanto suggerisce l’etimologia del sostantivo, in-dividuum) come creazione sociale, infatti, c’è la morsa che l’economia, soprattutto nella sua variante capitalistica, impone congiuntamente alla tecnica, in una con-fusione che certamente, come in tutte le creazioni umane, conoscerà un epilogo, ma per accelerare il quale non possono ignorarsi o trascurarsi la genesi né, tanto meno, i meccanismi di operatività.
Mauro Magatti, sulla scia di Hirschman, ha messo in rilievo le dinamiche dell’alleanza tra democrazia (imperfetta, fondata su meccanismi rappresentativi labili e spersonalizzanti, lontana dall’omnicrazia di Capitini), economia di mercato e tecnica, più che per una ricognizione astratta, al fine di evidenziare in quale grado la reciproca contaminazione abbia inciso sulla liberazione di tanta parte del pianeta da inveterati vincoli materiali e oppressioni autoritarie. Stimolante diventa dunque cercare di indagare i motivi per i quali tale liberazione non sia completa né sotto il profilo geografico né sia arrivata a un punto di ulteriore maturazione laddove iniziata, in maniera da dispiegare la modernità come intreccio non coattivo di libertà e verità[27].
Non si tratta di recuperare d’incanto le premesse dell’olismo perduto, ma di confrontarsi, in particolare con la Tecnica, sfuggita di mano all’uomo, o portandola nichilisticamente a un grado di compimento tale da assistere al suo discioglimento – con l’avvertenza di ricordare che il nichilismo della tecnica è infinitamente più radicale del nichilismo filosofico[28] –, oppure cercando di recuperare spazi di azione al pathos rispetto al dominio del lógos, contrastando:
1) le posizioni proceduraliste che hanno depauperato la razionalità a punto di appoggio per costruire assetti provvisori e poco impegnativi dal punto di vista dei riferimenti. Insomma l’istituzionalizzazione della politica e delle riflessioni che ne avevano sorretto la diffusione di massa;
2) lo strisciante, ma progressivo, restringimento dell’orizzonte spazio-temporale dentro cui la vita viene pensata, non per vagheggiare una trascendenza trascendente di stampo medioevale, bensì per lanciare la sfida di una mondanizzazione trascendente, non in reazione ossessiva alle ‘derive’ del relativismo, ma nella consapevolezza che la saldatura tecno-nichilista all’interno dell’impianto capitalistico possiede una venefica suadenza, in grado di incidere sulla costruzione di immaginari sempre diversificati, la cui caratteristica ricorrente è l’abuso del pathos in funzione di un suo svuotamento di senso, di una sua costrizione entro il paradosso di una immanenza immanente[29].
In un Reale nel quale l’esperienza estetico-sensoriale è diventata dominante, bloccare in maniera non episodica i cortocircuiti che il capitalismo tecno-nichilista provoca a ciclo continuo richiede senza dubbio una rivoluzione lessicale. Ma questa, per essere minimamente performante (e quindi giungere alla pacificazione rispetto all’ossessione ipermoderna della prestazione) non può che prendere le mosse da un’attenta analisi delle fondamenta da ricostruire su altre premesse, nonché prevedere una fuoriuscita graduale dalla morsa del capitalismo che non rigetti a priori la sfida del cimentarsi sia con la demolizione della simbolica del capitalismo tecno-nichilista, sia con l’edificazione di un immaginario alternativo. In mancanza di questo, anche il più nobile sforzo coronato da successo si esporrà, inevitabilmente, a un processo di liberazione che, nel confermare e persino estendere il potere di ognuno di determinare i propri scopi, rischia di lasciare l’individuo senza scelta, prigioniero dell’incapacità/impossibilità di cimentarsi serenamente con le possibilità di cui dispone. Queste, infatti, oltre a discendere da valutazioni morali in piccola parte anche pre-politiche e pre-sociali, sono comunque soggette (lo sono sempre state) al divenire tecnico. E, se ci è consentita una chiosa di tipo prescrittivo, devono cimentarsi con la difficoltà di fuoriuscire dal gorgo della Tecnica fagocitante, del destino di annichilimento che già Heidegger aveva previsto osservando la traiettoria della parabola apertasi con il Rinascimento.
Tra profeti e missionari
Se la parola è l’estrinsecazione fonica del linguaggio, diventa di capitale importanza capire quale orizzonte esso delinei, tanto più in riferimento all’azione, alla luce della scissione tra pensare e agire, tra mente e corpo, che ha attraversato seminando discordia larga parte del pensiero occidentale, frantumando l’invece originaria e imprescindibile relazione con il mondo.
Innumerevoli sono gli aspetti degni di rilievo. In queste pagine ne richiameremo solamente alcuni.
1) Il primo, che può collegarsi al ruolo del poeta come artista, come creatore che capovolge l’esperienza nel senso che la trasposizione immaginativa non tende innanzitutto a una trasformazione utile nel mondo esterno, ma a una modificazione della propria condizione soggettiva (Kant)[30].
2) Nella storia, il linguaggio è stato anche coniugato come un sostituto dell’azione. Si pensi a Sigmund Freud: il linguaggio diventa una bussola delle pulsioni, e la psicoanalisi si trasforma in cura laddove l’agire (agieren) sia paradossalmente sintomatico di un’incapacità a simbolizzare[31].
Il linguaggio è istituzione di un ordine interiore, di un mondo interiore che cresce costruito dall’acquisizione progressiva del mondo esterno mediata appunto dal linguaggio.
3) Peculiare è la posizione di Dewey (autore con cui Capitini intesse un corpo a corpo costante), che, pur smarcandosi in parte dalla tradizione tardo-romantica che aveva condotto Nietzsche ad anticipare certi approdi vitalistici scrivendo che “vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”[32], con il filosofo concorda, ancorché muovendo da una posizione differente, che a promuovere il passaggio dalla percezione all’immaginazione, e da questa al linguaggio e al pensiero, sia quella procedura tecnica che consiste nel denominare panoramicamente la situazione attraverso simboli che prescindono dalla materialità dei contenuti concreti. La conoscenza acquista così, secondo Dewey, un carattere pragmatico, mentre la coscienza ne mantiene uno episodico. Per lui le funzioni superiori sono semplici modalità di fluidificazione di azioni che richiedono che venga riformulata la situazione per superare gli ostacoli che ne hanno arrestato il decorso. A ostacolo superato, le procedure di pensiero che ne hanno consentito il superamento si traducono in abitudini che si attivano indipendentemente dalla coscienza.
Dewey è in merito di disarmante chiarezza: “senza dubbio è un gran mistero perché debba esistere qualcosa come la coscienza. Ma se essa esiste, non c’è nessun mistero nel fatto che essa sia connessa con ciò con cui è connessa”[33]. In questo modo, come rimarcato da Galimberti, egli supera “l’unilateralità del razionalismo che trascura il riferimento al mondo delle cose implicito in ogni pensiero e in ogni conoscenza, nonché l’unilateralità dell’empirismo che, nel ribadire la dipendenza del pensiero dai fatti, trascura quella capacità di rapportarsi a se stesso che è la prima condizione del pensiero (ma anche del linguaggio, dell’immaginazione, della percezione)”[34].
Come risarcire la contrapposizione tra psiche e corpo che, ha ricordato Giovanni Reale, anche nel linguaggio metaforico pre-sofistico non era affatto rintracciabile, come i poemi omerici si incaricano di dimostrare, presentando un eroe che agisce sotto la spinta di pulsioni e voci, che lo costringono all’azione, senza che possa minimamente immaginare una possibilità di scelta per esprimere una propria autonoma volontà[35]?
Socrate, come narra Platone nell’Apologia dedicata al Maestro, sente il dovere di risvegliare i propri concittadini come ‘ordine divino’: di fronte a una morte che viene proprio dal sonno dell’ignoranza, emerge la grandiosità della sfida dell’essere umano che si pone di fronte al mondo come soggetto. La vicenda umana assume la dimensione di una tragedia in cui l’individuo è scisso tra l’angoscia della morte, del nulla e dell’effetto distruttivo del tempo da una parte, e la volontà di ‘abitare’ il proprio tempo dall’altra. Da un lato, insomma, lo sguardo che trascende le cose; di converso, il corpo destinato a perire.
La situazione diventa patologica oggi, in un’epoca in cui, nel tentativo di risarcire la scissione più volte richiamata, il corpo viene eretto a tempio del narcisismo fine a se stesso, come estremo rifugio dall’angoscia di confrontarsi, mortali, con il ‘tempo de-temporalizzato’ analizzato da Ubaldo Fadini. In questa dimensione senza coordinate spazio-temporali, il futuro viene spogliato del proprio ruolo di piano dell’agire. Alla sua quasi consustanziale precarietà e incertezza si sostituisce, mortifera, non la numinosità del mito, bensì la scomparsa, che rende labili al punto da dissolvere i nessi tra azioni ed effetti, con l’esito ovvio di una caduta-perdita del senso di responsabilità. Tutte le articolazioni del nostro modello sociale manifestano, anche attraverso la sclerotizzazione dei linguaggi, un’inclinazione cronofaga, “vale a dire una disposizione assai importante a mobilitare le energie sociali non tanto per meglio assumere il tempo e lo spazio come componenti essenziali dell’agire, quanto per annullarle”[36].
Il dissenso più radicale, dunque, diventa oggi quello che cerca nell’inutilità, nello smarcamento dalla retorica del discorso pubblico per come ormai corrotto dal principio di utilità, un orizzonte di senso transeunte, che non dimentichi quanto l’interrogazione umana sia radicata nell’abisso dell’insensatezza e quanto la creazione di significati che ci fanno amare la vita non possa ricondursi a presunti specialismi di impianto matematico.
Rompere le rappresentazioni linguistiche oggi egemoni equivale a costruire un ponte dialogico tra il cerchio altrimenti atrofizzato del linguaggio e la vita biologica, la formazione originaria delle sensazioni. Significa riattivare un circuito critico al cospetto della sottile violenza esercitata dalle forme di massificazione contemporanee, come quelle scaraventate nel vissuto quotidiano dalle tecniche di comunicazione, dal ricorso spasmodico al neuromarketing. Significa revocare in dubbio il nomos basileus che governa le civiltà tecnicizzate, dove i mezzi determinano i fini, non tanto perché i fini scelti a livello politico (per esempio) non possano realizzarsi senza la disponibilità dei mezzi, ma perché le possibilità tecniche esigono l’impiego, e l’impiego di queste possibilità sono i fini imposti dalle legge delle cose[37]. Del resto, conoscere il mondo è il prerequisito per volerlo cambiare, per essere mossi da una tensione etica particolarmente forte a rivoluzionarne gli aspetti di ingiustizia che scuotono la coscienza.
Quella profetica è la sfida consistente nel rifiutarsi di dispensare verità note e ormai trite, “ovvie” perché già portate in superficie e lì lasciate a “fluttuare”. Né importa se tali verità – o sedicenti tali – siano classificate come rivoluzionarie o dissenzienti, religiose o atee, perché, proprio in quanto pienamente disvelate e ormai depotenziate dal nucleo di cambiamento innescabile attraverso di esse, non corrispondono a quel “qualcosa di occulto” che il sacerdote della parola (che può essere il poeta, il politico, il legislatore ecc.) è chiamato a svelare. Sono, viceversa, nascoste dietro un muro che hanno contribuito a erigere e che spetta a questi soggetti. Gli araldi dell’ovvio non sono mai i creatori della parola, coloro che la rielaborano affinché non affoghi nel letteralismo.
Il profeta – lo abbiamo visto con Capitini – è inquieto, non riesce ad accettare il presente, e lo vive nella coscienza di una realtà limitata, che ferisce con i suoi limiti, e che egli addita nella speranza di riuscire, con la parola, a congiungere il passato e il presente-futuro[38].
Più complesso il discorso sulla missionarietà, necessario anche per sgombrare il campo da fraintendimenti esiziali, non soltanto alla luce della torsione semantica che secoli di pratica in tal senso hanno imposto alla valenza del termine.
La missione porta con sé, inevitabilmente, per mantenere aperto il senso del proprio dispiegarsi, una velleità di conversione, di persuasione, di convincimento altrui[39]. È violenta nella misura in cui il missionario tragga la propria autorità non tanto, come il profeta, dalla forza dirompente del ribaltamento assiologico, della tensione etica che scompagina il piano valoriale degli ascoltatori, ma dalla fedeltà a (fede in) una Verità trascendente, da cui non potersi discostare. Si tratta di un punto messo in luce ripetutamente nel corso dei secoli, e che, tra gli altri, trova nella Leggenda del Santo Inquisitore incardinata da Dostoevskij nel suo I fratelli Karamazov, uno dei momenti di più alto lirismo e di più raffinata e struggente analisi.
Si tratta, per di più, di una Verità che acuisce il conflitto tra la dimensione terrena e quella celeste, confondendo il piano del peccato con quello dell’effettivo bisogno delle sterminate masse di indigenti che popolano il pianeta[40]. Il Grande Inquisitore, allora, un vecchio novantenne che compare all’improvviso nella trama del romanzo, ordina di mettere in carcere Gesù, il profeta atteso, spesso scambiato dal popolo per un novello Elia, rimproverandogli di aver consegnato la fede a un atto di libertà, proponendo cioè agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze[41]. La missionarietà, per l’Inquisitore, è necessaria perché supplisce alla costitutiva debolezza antropologica dell’essere umano, sostituendo all’incertezza, all’angoscia e allo smarrimento il miracolo, il mistero e l’autorità.
Laddove, quindi, il profeta annuncia un messaggio di liberazione, il missionario si ritaglia un ruolo magistrocentrico, non dissimulando la propria critica verso l’aristocratismo etico di Cristo e guardando agli uomini, devoti in pectore alla causa del Verbo, con atteggiamento ipocritamente e scostantemente paternalistico, derubricando il ‘necessario’ magistero della Chiesa a corrispettivo dell’insuperabile fanciullezza degli uomini, all’impossibilità di diventare pienamente liberi e autonomi.
Il missionario, a differenza del profeta, è chiamato a portare in giro per il mondo non la propria voce, ma a farsi megafono di un potere, quello della Chiesa (di qualunque Chiesa sia, al di là dell’intento polemico del narratore russo), che germoglia nella fenditura, spesso abissalmente vertiginosa, tra la predicazione di Cristo (o di qualsiasi altro messia) e la realtà concreta, imperfetta, degli uomini.
In questo senso la sfida del profeta, che pre-annuncia, anticipa, ammonisce finanche (senza essere un indovino!), ma non si appoggia a una struttura di esercizio del potere è, all’opposto di quella del missionario, terribilmente globale e ancor più ardua. La profezia, ha rimarcato Mario Tronti, è pensiero forte, che oggi grida in un tempo muto. Non è utopia, perché l’utopia è una profezia debole, legata al pragmatismo, mentre la profezia è legata al realismo, è produzione di futuro. Tanto l’utopia è rassicurante, quanto la profezia perturbante[42].
Laddove il missionario deve cercare di conoscere, sondare, adattare la propria verità ai confini entro cui opera, per fare delle proprie parole (o delle proprie azioni) testo in un contesto adeguato (anche qualora ricorra alla violenza bruta), e rimane pertanto portatore di un messaggio universale che sopravvive esclusivamente nella misura in cui assorba usi e costumi della terra su cui vuole innestarsi, il profeta, rinunciando a una sua idea normativa dell’uomo (che sia o meno frutto dell’adattamento di cui abbiamo detto), è voce di un messaggio malleabile, di cui può perdere la paternità, che stimola un desiderio di trascendenza terrena nel quale ogni abuso di potere si dissolve a favore di un’orizzontalità che abbatte le gerarchie, le burocrazie clericali[43].
Il profeta, abbiamo scritto citando Capitini, non è un moralista legislatore che indica le leggi e le sanzioni, ma annunciatore di festosa liberazione per tutti sollecitando tutti alla responsabilità[44].
Egli non predica la redenzione come percorso di salvezza a tappe forzate: indica una direzione, ma non ha da soddisfare rigidi (sia pure spesso sottaciuti) compiti di proselitismo[45].
Non è un eletto, ma è l’‘io’ che ciascuno può essere, relazionandosi all’esistenza con passione e quindi con autenticità. Non ha vincoli e può pertanto disvelare l’inappagamento dell’anima mostrando quanto sia roboante ma vacua l’idea di un’armonia, di un’unità della realtà. Indubbiamente le diseguaglianze, la conflittualità a bassa intensità non incrociano mai una riflessione approfonditamente economico-sociale, tanto meno poggiante su premesse materialistiche ‘ortodosse’. Rispetto all’indagine anche semplicemente di tenore positivistico, Capitini, in tutta evidenza, predilige una peculiare commistione di idealismo e kantismo che doni spessore alla sua diffidenza verso ciò che appare pacifico, intervenendo programmaticamente per sottolineare il grande rischio di falsificabilità di ciò che riteniamo essere inconfutabilmente reale, a cui aggiungere una pigrizia interpretativa, che, in nome della stabilità, dell’identità, chiude i sistemi interpretativi e li lascia così soggetti a una lenta avaria.
Capitini delinea, pur se con la frammentarietà tipica del proprio pensiero multidimensionale, un manifesto d’opera politica sempre in fieri che necessita di essere letto in simbiosi con lo sforzo di giungere a un’epistemologia pedagogica che da un lato non si accontenti soltanto di vedere chiaramente i fatti (se e quando possibile), e dall’altro cerchi, attraverso l’azione, di battere sentieri di comprensione del reale che conducano all’immaginazione del possibile, alla sua invenzione.
L’alta febbre dell’agire che lo pervade non è quella dell’uomo rinascimentale, dell’homo faber, né, tanto meno, quella dell’homo emptor su cui si regge il regno trionfante dell’individualismo radicale, del cosmopolitismo utilitarista, dei diritti senza doveri, ma piuttosto quella dell’homo civicus descritto da Franco Cassano, ossia della società civile in quanto si associa, rifuggendo l’individualismo, e si occupa della cosa pubblica[46] con un travolgimento d’amore mediante cui, parafrasando il Vangelo, fa nuove tutte le cose e tutti gli uomini.
L’agape poetico
Se l’essere umano è incline a una dimensione spirituale che probabilmente lo differenzia dal resto del creato, il rischio di un approccio, anche erotico, all’alterità risiede nella definizione pregiudiziale, senza vincoli contrattualistici, di valori ben delineati, rinunciando, cioè, come nel più feroce dei paradossi, alla definizione degli stessi attraverso pratiche relazionali.
L’orizzonte può anche rimanere, come evidente risulta nell’opera di Capitini, escatologico, ma il facitore del lógos (ossia della parola ma anche del discorso pubblico) non può limitarsi a definire aprioristicamente il contenuto affettivo e/o cognitivo e/o morale dei valori. Se si bloccasse a questo stadio dell’elaborazione, rimarrebbe schiavo di pre-giudizi spesso escludenti, privi pertanto di ogni salutare tensione socio-pedagogico-politica. Il suo sforzo, viceversa, deve consistere nell’intervenire sul vasto campo della cultura complessiva della società, al fine di garantire un crescente grado di adesione ai valori veicolati dall’utilizzo nonviolento del linguaggio.
Nela prospettiva capitiniana ciò è possibile attraverso l’apertura al “tu”, che, sottintendendo il “tutti” (e non il Tutto hegeliano), appare di per se stessa idonea a marcare percorsi inclusivi, di compresenza (corale) nella produzione del valore, che nel perugino, con inguaribile ottimismo, è inscindibilmente legato al “bene”[47].
Da questa prospettiva, è evidente in Capitini il legato evangelico, laddove la philia lascia il posto all’agape. Il mandatum novum degli Evangeli rovescia la posizione del philos classico, ben riassunta da Aristotele. Non basta il disinteresse, la gratuità, l’affermazione della supremazia del dare sul ricevere ecc. Con la philia i distinti non si toccano, rimangono tali. Solamente con l’agape gli assolutamente distinti vengono uniti. “La sua dinamica si svolge in una direzione opposta a quella della philia classica. Ed è un amore tanto folle da patire in sé, nel suo com-patire, le stesse sofferenze che affliggono l’amato”[48].
È in questa nuova coniugazione di amore, che coglie e definisce numerosi aspetti empatici, che si rende possibile la tramutazione, ossia quel radicale e strutturale cambiamento della realtà umana e naturale che finisce per assumere contorni rivoluzionari, dando gambe alla compresenza, al rovesciamento della realtà per come la si vede comunemente, che va oltre il dissenso individuale, concluso nell’io fenomenico che resta al di qua della prospettiva di liberazione.
Se la riflessione anche di stampo accademico deve mirare piuttosto che a illuminare in merito ad alcune certezze, a seminare fertili dubbi, la figura del poeta è senza dubbio centrale e ha la formidabile occasione di ritagliarsi nuovamente uno spazio educativo rilevante.
In questo senso, stimolante può risultare ripartire dalle riflessioni sulla poesia che Iosif Aleksandrovič Brodskij elaborò in occasione dell’inaugurazione dei una edizione del salone del Libro a Torino: “la poesia […] essendo la forma suprema di espressione umana, non è soltanto il mezzo più conciso e più denso per trasmettere l’esperienza umana: essa offre anche i canoni più alti per qualsiasi operazione linguistica-specialmente per quelle che si compiono sulla carta. Quanto più leggiamo poesia, tanto meno siamo disposti a tollerare ogni tipo di verbosità, nei discorsi politici o in quelli filosofici, nella storia, negli studi sociali o nella narrativa. In prosa lo stile deve sempre fare i conti con la precisione, la rapidità e la laconica intensità del linguaggio poetico. La poesia, figlia dell’epitaffio e dell’epigramma, concepita, si direbbe, per arrivare subito al cuore di ogni possibile argomento, è per la prosa una grande scuola di disciplina. La poesia insegna alla prosa non solo il valore di ogni singola parola, ma anche la mercuriale velocità degli schemi mentali della specie umana: le suggerisce alternative per la composizione lineare, la stimola ad omettere l’ovvio, le insegna l’insistenza sul particolare e la tecnica dell’anticlimax. Soprattutto, poi, la poesia sveglia e alimenta nella prosa quella sete di metafisica che distingue un’opera d’arte dalla letteratura corrente”[49].
Come ha suggerito Silvia Pavan, tra i più attenti interpreti del poeta russo, l’obiettivo principale di Brodskij è “ristabilire la centralità dei diritti dell’uomo, diritti che esistono in natura prima e oltre che nella legislazione. Essi attribuiscono alla letteratura un ruolo fondamentale nell’educare in modo permanente l’individuo al rispetto di se stesso e degli altri”[50]. Non manca, a dirla tutta, una semplificazione giusnaturalistica abbastanza frequente in chi elabori pensieri fortemente incisi dal canone etico e non è, tra l’altro, affatto rigettato il rischio di cadere in un apparente anti-prometeismo.
Se è vero che la letteratura, come ritiene Brodskij, ha avuto inizio con la poesia, ciò che lui definisce il “canto di un nomade” è riposto nella voce del poeta, il nomade per eccellenza che, grazie alla poesia, al linguaggio di cui è strumento, diventa ‘pastore’ dell’uomo attraverso il tempo, qualora l’uomo non riuscisse più a scorgere il sentiero indicato dall’ombra di Dio. La differenza fondamentale tra l’essere umano e il poeta-educatore sta nel fatto che, sebbene siano entrambi nomadi mentalmente, il secondo è in grado di celebrare il proprio nomadismo e, in questo modo, di trasmetterne il significato profondo all’uomo-nomade rattrappito nella sua nudità e smarrito al cospetto della sacralità di quel che non riesce a cogliere. Cardinale è il ruolo rivestito dal linguaggio, ove si annida la capacità del poeta di cantare la propria situazione di metafisicamente esiliato e nomade. La salvezza viene pertanto dalla Bellezza di Dio, raffigurata oracolarmente dal linguaggio (dalla Parola) nella poesia. Attraverso le parole del poeta, l’uomo nomade ritrova quello splendore scorto solo parzialmente nella storia e si incammina sul sentiero (la retta via), certo di aver scelto la giusta direzione.
Leggendo poesia, ammirando la Bellezza – che può derivargli solamente da una parola liberata da conformismi e torsioni narcotizzanti – l’uomo non soltanto viene a contatto con i versi del poeta, ma ancor più si mette in rapporto con una Parola più alta, e, attraverso il linguaggio, con il Tempo, con Dio, perché, come spiega Brodskij, “in senso ideale […] poesia è linguaggio che nega la propria massa e le leggi di gravità; è tensione del linguaggio, ascesa – o deviazione – verso quel momento iniziale, quel principio in cui il Verbo era. In ogni caso, è movimento del linguaggio per accedere a regioni pre-(sopra) “genere”, cioè alle sfere da cui è scaturito. Le forme apparentemente più artificiali di organizzazione del linguaggio poetico […] in realtà non sono niente di più che un’elaborazione naturale, reiterativa, minuziosa, dell’eco che seguì il Verbo originale”[51].
Al di là delle evidenti suggestioni dostoevskijane, il richiamo al Premio Nobel russo e a questa audace sintesi dei punti del suo labirintico pensiero maggiormente aderenti alle tesi che intendiamo sostenere, si spiega in vista dello sforzo di designare la poesia non quale un pre-linguaggio, dai tratti primitivi, ma, al contrario, come più volte rimarcato finora, quale forma artistica in grado di veicolare la tonalità cromatica del piacere, e pertanto educativa perché in grado di rompere le convenzioni, di rimettere in moto il piacere di una ricerca non fine a se stessa.
Lascia interdetti il motivo per cui il termine “scienza” adempia oggi a uno spettro di compiti disposto su 360 gradi, mentre quello “poesia” sia talvolta fatto coincidere con un atteggiamento rudimentale. Non si tratta soltanto di rigettare una qualche definizione di scienza e perciò di rifugiarsi per esclusione in una soluzione che attribuisca alla poesia determinate capacità. È proprio l’aspetto positivo racchiuso nel termine che invita a una riflessione più penetrante.
La non di rado denunciata difficoltà di definire la pedagogia come disciplina pienamente autonoma, traghettandola lontano dall’infausta riduzione ad ancilla philosophiæ, deve spingere, tra le altre urgenze, a riflettere sulla poesia come universo di significati per vedere se in esso sia possibile rintracciare indicazioni utili per la pedagogia.
Potremmo ipotizzare che il termine poesia serva per indicare una produzione umana intuitiva, e come tale capace di raggiungere globalmente una rappresentazione mai espressa, nuova, illuminante. Ma bisogna evidenziare quanto periglioso sia proseguire lungo tale rotta, perché si userebbero probabilmente dei sinonimi, senza progredire nell’approfondimento teoretico, senza poi tenere conto dell’evidente rischio di banalizzare il poetico.
Il discorso può sembrare più semplice quando si parla di educazione, cioè di rapporto tra educatore ed educando, sulla base del nome proprio: il rapporto stesso è fondato su una comunicazione primariamente analogica, e perciò riluce evidente la connotazione poetica del momento relazionale. Quando l’osservatore si trova dinnanzi all’evento educativo, persino trascendendo il contesto in cui esso si situa, e cerca di elaborarlo come nome comune, allora sembra che subentri una teoreticità sistematizzante e perciò razionale (sia filosofica che scientifica). Questa certamente diventa necessaria: è ora importante chiedersi se sia anche sufficiente. La razionalità della pedagogia è “dettata dall’amore”, è compresa in un gesto d’amore aperto al “tu-tutti”, come sostenuto da Capitini? Ed è dunque una razionalità che si smarca dall’asfissia illuministica, della sua deificazione?[52]
Da quest’ottica, per una teorizzazione moderna la risposta dovrebbe sembrare non solo ovvia, ma perfino reattiva nei confronti di una provocazione. Invece è proprio quanto si vuol qui affermare: pedagogia e politica, che costituirono il terreno eletto della riflessione di Capitini, sono comprensibili, nella loro struttura epistemica e nelle proposte operative, come intuizioni poetiche che si esprimono razionalmente, in continuità con la tradizione di pensiero che ha focalizzato la propria attenzione sulla mente, ma anche nella corporeità sottesa all’apertura amorosa. Si pensi per un istante alla pedagogia (posto che fare politica significa studiare come si educa e studiare come si educa è fare politica). Essa non può defilarsi rispetto all’eredità della contraddizione che la poesia incardina in sé. Senza contraddizione-conflitto non c’è vita (quella reale, fatta di pulsioni, desideri, sentimenti radicali). Sotto tale profilo, sarebbe un marchiano errore trascurare il fatto che le civiltà mediterranee, e anche larga parte della tradizione greca, abbiano fondato la propria identità culturale sull’ambivalenza, sulla scissione tra io e mondo non valutata come elemento negativo ma bensì come opportunità. Questa oscillazione tra essere e nulla, tra luce e tenebre, è la coalescenza che impedisce di fissare un “prima” e un “dopo” della fisicità, della corporeità e della terribile coscienza di sé, di Eros e Thanatos[53].
Già l’assunzione della catena logica, di ogni catena logica, si fonda su assunti non dimostrabili, in quanto fondati sull’opinione, sulla libertà, e sulla responsabilità dello studioso. Ma ciò che conta è il vedere senza ostilità questa definizione: ritenere la pedagogia una poesia non esclude ma completa il discorso circa la sua razionalità, consentendo, anzi, di seguire un tracciato di riflessione che si affranchi da una declinazione della razionalità tutta fondata sui determinismi innescati dalla tecnica e proteso, al contrario, a recuperare, secondo quanto caldeggiato da Serge Latouche, la Phrónesis, ossia il ragionevole, che secondo l’economista francese aveva proceduto fianco a fianco del lógos epistemonikòs fino al XVI secolo, quando le strade dei due figli di Minerva, la dea greco-latina della ragione, si erano biforcate[54].
La tirannia dello spirito di geometria svaluta l’intelligenza della poesia e di tutto quanto da essa sia ispirato e a essa si ispiri. Allora, superare l’etnocentrismo del “razionale”, che si estrinseca pienamente nella pervasività dell’economicismo, implica, per fare un esempio, che se per una classe di eventi educativi viene proposta una sequenza di operazioni che, oltre la difendibilità della ragione contenga anche la forza di un’intuizione, sarebbe ferale che non venisse accettata.
Quando Dewey propone l’esperienza all’interno della democrazia come teoria educativa non intavola un discorso anche poetico? E il medesimo approdo non appare quello di Capitini quando prefigura una pedagogia come “sapere di tutti” e quindi presupposto indispensabile per il lirismo accomodato sulle note dell’omnicrazia? Dove don Milani ha elaborato la sua pedagogia, se non nella sua forza poetica?
Si può obiettare che tutti questi autori non sempre si siano espressi attraverso la formalizzazione di percorsi psicologici, sociologici, pedagogici e quindi politici perfettamente compiuti. Si può obiettare, in aggiunta, e l’obiezione potrebbe a tutta prima sembrare sufficiente, che il linguaggio della pedagogia (in questo molto più che quello della politica) difetti di compiutezza e autonomia.
Ma chi è stato vero pedagogista, cioè ha letto e interpretato eventi educativi, prima s’è preoccupato dell’interpretazione, e poi (forse) della tecnicizzazione del linguaggio. Chi ha vissuto la fatica di formalizzare il discorso della pedagogia ha dovuto scegliere tra due ipotesi: o fare della formalizzazione (e questa non è pedagogia ma studio “sulla” pedagogia, impiegando la logica), oppure finire nelle braccia protese di altre discipline, che s’illudevano di offrire soluzioni semplicemente perché giunte a uno stadio più avanzato della costruzione di un lessico settoriale specifico.
Ora, a prescindere da considerazioni ulteriori, la suggestione poetica opera tra l’incudine di una pedagogia che ricorre in via esclusiva a un discorso numerico e il martello di una pedagogia il cui discorso sia anche analogico. Anche se si deve sostenere che quello analogico si diparte da un’attenta regolamentazione numerica, benché non riesca a esaurirsi in essa. E non serve fondarsi sull’accettazione che la persona umana non sia descrivibile soltanto in termini numerici (scientifici) ma occorrano anche letture analogiche (poetiche): il problema non riguarda tanto le persone quanto il rapporto che tra di esse si istituisce a livello educativo.
La pedagogia come poesia vuol indicare che bisogna “creare” una linguistica adeguata che rappresenti pensieri adeguati per una realtà educativa dinamica.
In fondo, se l’aspirazione di ogni comparto disciplinare consiste nel giungere a una fondazione rigorosa del proprio sapere, per liberarlo dall’alea dell’opinione, il fine ultimo dell’educazione assomiglia quant’altro aspetto mai alla poesia, che di relazione d’ascolto e di confronto con l’Altro si nutre, pena il suo deperimento a vacua tentazione narcisistica.
La parola è dunque la premessa dell’azione politica, il suo indispensabile complemento.
In fondo, anche l’azione profetica, proprio per la sua capacità di scrutare l’orizzonte per scorgervi l’infinito, è sovente stata adoperata al fine di costituire uno statuto del Politico autonomo da quello della amministrazione, affinché quest’ultima non lo fagocitasse. Anche in una prospettiva nonviolenta, come quella che coraggiosamente Capitini cercò di praticare durante la propria vita, una base di conflitto è imprescindibile per consentire a tutti, e in particolare a coloro non oggetto sin dalle prime fasi della propria esistenza di un’educazione di stampo nuovo, di aspirare a un afflato di libertà non apparente. Lo specialismo spinto, al contrario, invece di mantenere aperto il rapporto agonico, di contraddizione che corre tra politica e profezia, lo ha occluso, perché nella fondazione di un potere di stampo tecnocratico, sempre più appannaggio di ristrette élites, priva l’uomo della possibilità di rimanere aperto alla imprevedibilità della novitas, che costituisce l’essenza della profezia.
Conclusioni
Il problema centrale che in qualche misura ci siamo posti è se la profezia, in veste di testimonianza, esista e come venga reinterpretata da Capitini.
Prima di concludere però, crediamo possa essere stimolante, nel lasciare aperta la porta della riflessione, richiamare la posizione elaborata negli ultimi anni da Massimo Recalcati. Il noto psicanalista ha scritto che “non esistono testimoni di professione come non esiste una pedagogia della testimonianza. La testimonianza può essere riconosciuta solo in una ricostruzione retroattiva. Se la testimonianza deve essere emancipata da ogni ideale di esemplarità, deve anche essere liberata da ogni forma di programmazione. Essa vive nel tempo della pura contingenza. Non risponde a un piano, non si può assicurare, non dipende da una tecnica. La forza della testimonianza è nel suo accadere là dove non l’avresti mai aspettata. Non è un’intenzione, ma un evento che possiamo ricostruire davvero solo retroattivamente”[55]. Perché Recalcati rubrica la testimonianza, che invece è centrale in un discorso anche solo dal punto di vista lessicale sedotto dal sacro, come qualcosa di dato solo nella contingenza? Perché interpreta la domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non come domanda di potere e disciplina, ma alla stregua di una richiesta di testimonianza, posto che “sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni”[56].
Come portare nella società la Legge di una parola non banalizzata, posto che la vita inizia quando incominciamo a parlare? Ma, soprattutto, come portare la Legge della parola senza cedere alla nostalgia falsamente rassicurante delle utopie totalitarie del Novecento, edificate sul rigetto della Legge della parola, e fondate invece sulla follia lucreziana del “tutti vogliono tutto”[57]? L’urgenza principale risiede nello smarcarsi dalla menzogna della nozione di libertà per come oggi declinata, che ha ridotto l’uomo a una pura spinta a godere, configurando un nuovo disagio della Civiltà. L’inferno ipermoderno consiste nella riduzione della libertà al puro arbitrio del capriccio ed ecco perché, in questo riprendendo gli spunti capitiniani in tema, collocare il dissenso all’interno della società senza avere il coraggio di portarlo fuori di essa significa adeguarsi alla prospettiva di un cambiamento entro gli steccati di un agire sotto occhiuta tutela anche se patinato dalle illusioni della sua illimitatezza, rinunciando a immaginare, a sognare l’oltre. Non basta pensare al dissenso smussandone gli spigoli a tavolino. Accontentarsi di una via d’uscita di stampo prettamente concettuale, tra l’altro, vuol dire esporsi indistintamente sia all’apatia come farmaco per la sedazione di ogni ansia, che, simmetricamente, alla lotta armata. Non basta, annota Gabriella Falcicchio approfondendo questo plesso concettuale in Capitini, “provare disappunto verso la realtà, entrare in conflitto con essa e fermarsi lì; non basta una nonviolenza dei metodi, senza una persuasione che coinvolga l’intero essere della persona e le fondamenta del suo mondo”[58].
Ma questo è stato Capitini. Pensare profeticamente non il possibile, il già dato, ma l’ad-veniente, cercando di forzarne i ritmi del compimento, ancorché nella lucida consapevolezza che i cambiamenti necessitano di tempo e che il profeta debba pertanto essere consapevole che la limitata durata della propria vita potrebbe non salutare il verificarsi del suo annuncio.
Anche per tale serena accettazione della violenza e inesorabilità di alcune leggi di natura, egli può ben essere inserito tra quei pensatori ‘inattuali’ che meritano sempre nuove letture, come Machiavelli, Bruno, Vico, Leopardi, Gramsci, Pasolini, Michelstaedter, tutti accomunati nello sforzo di far saltare i codici del linguaggio ingessato della propria epoca, con lo scopo dichiarato di restituire, non solo a se stessi, la costitutiva relazione tra vita e pensiero, politica e storia.
Bibliografia
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[1] Una breve ricostruzione dei percorsi di fuoriuscita dallo iato tra corpo e linguaggio per come delineata nel corso dei secoli è offerta da Umberto Galimberti in Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 227-239 nonché, più estesamente e con ripetuti richiami, in tutto il libro.
[2] Che egli, dopo aver letto e tradotto Gandhi, si risolve a scrivere senza trattino divisorio, più che con la pretesa di coniare un neologismo, con la speranza di indicare una prospettiva non solamente di rifiuto verso qualcosa, ma in grado di comprendere nel proprio abbraccio di unità-amore la costruzione dal basso di un patto umano, fatto di ascolto e proposta, critica e progettuale, per liberare la società dalle scorie della violenza che nei suoi gangli si annidano. Cfr. le pagine antologiche dedicata a Capitini sulla rivista Azione nonviolenta, No. 606, 2014, pp. 4-7.
[3] In questo senso cfr. G. Falcicchio, I figli della festa. Educazione e liberazione in Aldo Capitini, Levante, Bari, 2009, p. 20.
[4] C. Foppa Pedretti, Spirito profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 116.
[5] N. Bobbio, Introduzione, in A. Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 16.
[6] Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 1994.
[7] A. Capitini, Educazione aperta, Volume I, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 82. Ricordiamo che la compresenza, a poche righe di distanza dalla citazione riportata, viene definita come quel che accomuna, avvicina “tutti gli esseri che sono nati, i viventi e i morti”.
[8] G. Falcicchio, I figli della festa, cit., p. 66.
[9] S. Salmeri, Lezioni di pace. Ripensare la criticità dialogica attraverso il contributo pedagogico di Aldo Capitini, Kore University Press, Leonforte (En), 2011, p. 25.
[10] G. Falcicchio, I figli della festa, cit., p. 67.
[11] A. Capitini, L’educazione è aperta. Antologia degli scritti pedagogici, a cura di G. Falcicchio, Levante, Bari, 2008, p. 84.
[12] Con consonanza lessicale evidente con il principio etico che Hans Jonas riprenderà a fine anni Settanta. Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1993.
[13] Si veda R. Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 1998, p. 119.
[14] A. Capitini, L’atto di educare, La Nuova Italia, Firenze, 1951, pp. 7-8.
[15] Voltaire, Dizionario filosofico, Newton, Roma, 1991, pp. 251-252.
[16] Le citazioni letterali, differiscono leggermente da quelle di Capitini, perché tratte dalla nuova versione delle Scritture. Cfr. AA. VV., La sacra Bibbia, CEI-UELCI, s.c., 2008, p. 1283.
[17] A. Capitini, L’atto di educare, cit., p. 7.
[18] In questo vi è una piena sintonia, benché partendo da premesse analitiche differenti, con Louis Althusser, del quale resta celebre “Ideologia e apparti ideologici di Stato”, Critica marxista, No. 5, 1970, pp. 23-65.
[19] A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Célèbes, Trapani, 1966, p. 85. Degno di menzione il giudizio in merito di Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Prefazione di Alex Zanotelli, Armando, Roma, 2013, p. 37.
[20] A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino, 1950, p. 107
[21] Che in Kant, nonostante in non sempre lineare utilizzo nel corso del tempo, appare riferibile al singolo, a differenza dell’etica, che abbraccia l’umanità.
[22] “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo”. Ricordiamo brevemente che per Immanuel Kant i princìpi pratici che regolano la nostra condotta vengono distinti in massime e imperativi. Le prime sono prescrizione di valore soggettivo, valide cioè per l’individuo che le adotta, mentre i secondi hanno valore oggettivo e universale, in quanto si pongono nei termini di un comando valido per chiunque. Gli imperativi, a loro volta, si scindono in ipotetici e in categorici. Questi ultimi assumo la forma del ‘devi’ puro e semplice, di legge etica. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Paravia, Torino, 1954, p. 70.
Sul punto si veda anche la tesi di M. Catarci, Il pensiero disarmato, cit., pp. 44-45, che di Capitini richiama questo aspetto autodefinitorio, connettendolo intimamente con la quasi inevitabilità dello sbocco anti-istituzionale quando si prendano le messo dalla teoria della compresenza.
[23] Se ne legga la lucida ricostruzione offerta da P. Polito, L’eresia di Aldo Capitini, prefazione di Norberto Bobbio, Stylos, Aosta, 2001.
[24] Su quest’aspetto del pensiero di Mounier, cfr. G. Maccaroni, Emmanuel Mounier e Simone Weil. Testimoni del XX secolo, Aracne, Roma, 2010, p. 9.
[25] Cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna, 1969, pp. 74-75.
[26] O. Romano, La comunione reversiva. Una teoria del valore sociale per l’al di là del moderno, Carocci, Roma, 2008, p. 18.
[27] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 15 e 29.
[28] U. Galimberti, Psiche e techne, cit., pp. 703-705.
[29] M. Magatti, Libertà immaginaria, cit., pp. 41-42.
[30] Cfr., per esempio, I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari, 1960, Parte I, Sezione I, Libro I, parag.2, p. 44.
[31] Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 225.
[32] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano, 1968, p. 34.
[33] J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze, 1958, p. 69.
[34] U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 237.
[35] Cfr. G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Raffaello Cortina, Milano, 1999.
[36] U. Fadini, La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete, Dedalo, Bari, 2009, p. 145.
[37] Cfr. U. Galimberti, L’inganno. La competenza tecnica e politica, in AA.VV., Prometeo e la democrazia, AlboVersorio, Milano, 2009, p. 64.
[38] Cfr. G. Falcicchio, I figli della festa, cit., pp. 67-68.
[39] Basti pensare a quanto scritto nel Vangelo di Luca, rivolto a una comunità cristiana non palestinese, nel quale, quasi a chiusura del testo, l’invito che il Risorto rivolge ai propri discepoli nei pressi di Emmaus, è chiaro e inequivoco e, sebbene apparentemente inserito nel solco della tradizione delle Scritture, radicalmente innovativo: “Nel suo nome [di Cristo] saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (Luca 24, 47). La citazione letterale è tratta da AA. VV., La sacra Bibbia, cit., p. 1693.
[40] F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Volume I, Garzanti, Milano, 1993, p. 351.
[41] Cfr. sul punto l’analisi condotta da F. Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 9 (Cassano fa tuttavia riferimento a un’edizione del romanzo diversa da quella che abbiamo innanzi citato).
[42] M. Tronti, senza titolo, in AA. VV., Politica e Profezia, cit., pp. 25 e 29.
[43] Tale è anche il profeta carismatico proprio soprattutto della cultura ebraica, la cui predicazione è non soltanto rivolta contro il potere costituito, ma veicola sempre un messaggio costruito su valori ritenuti universali e perciò in grado di oltrepassare le barriere della Babele linguistica.
[44] Con consonanza lessicale evidente con il principio etico che Hans Jonas riprenderà a fine anni Settanta. Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1993.
[45] Jacques Derrida si è però chiesto se la spirale della violenza possa avere mai fine. Al francese, infatti, sembra che arrestare la violenza significhi, realisticamente, soltanto arrestare quella nuova e ‘naturalizzare’ quella vecchia; dal momento che anche noi, la nostra lingua, le nostre sacertà sono un risultato di passate violenze, la violenza diventa una conseguenza inevitabile. E la prima forma di violenza giace nella predicazione. Un essere senza violenza sarebbe un essere che si produrrebbe fuori dall’essente: nulla, non-storia, non-produzione, non-fenomenicità. “Una parola che si producesse senza la minima violenza non de-terminerebbe nulla, non direbbe nulla, non offrirebbe nulla all’altro; non sarebbe storia e non mostrerebbe nulla”. J. Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1982, p. 189. La prima riduzione possibile della violenza, allora, come rilevato da Franco Cassano sulla scia del filosofo d’oltralpe, passa attraverso la sospensione della sacertà, riducendo il carattere naturale della nostra designazione delle cose, il peso della nostra cosmologia, controllando il nostro “etnocentrismo”, ricordandoci che, quando prendiamo la parola, sono anche le parole che prendono noi e che l’intersezione di eventi e significati nella quale siamo nati non è stata scelta da noi ma ci si è imposta come ovvia (quando tale, come accennato, non è), con la stessa naturalità della nostra struttura fisio-psichica. Cfr. F. Cassano, Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, il Mulino, Bologna, 1989, p. 93.
[46] F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari, 2004, pp. 19 e 27.
[47] Cfr. G Falcicchio, I figli della festa, cit., pp. 42-43.
[48] M. Cacciari, Drammatica della prossimità, in E. Bianchi – M. Cacciari, Ama il prossimo tuo, il Mulino, Bologna, 2011, p. 98.
[49] I. A. Brodskij, Discorso all’inaugurazione del salone del Libro di Torino, 18 maggio 1988.
[50] S. Pavan, Lezioni di poesia: Iosif Brodskij e la cultura classica: il mito, la letteratura, la filosofia, Firenze University Press, Firenze 2006, p. 22.
[51] I. A. Brodskij, Un poeta e la prosa, in Id., Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987, p. 187.
[52] A voler tacere, d’altronde, della famosa critica mossa ai Lumi da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, atterriti dinanzi alla barbarie devastatrice della libertà derivante dal rovesciamento degli ideali dell’Illuminismo (di un certo Illuminismo, dovremmo però correggere). Celeberrimo l’incipit della loro Dialettica: “L’Illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”. M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, p. 11.
[53] Cfr. P. Barcellona, Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Dedalo, Bari, 2010, p. 115.
[54] Cfr. S. Latouche, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 10.
[55] M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del Padre, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 146-147.
[56] Ibidem, p. 13.
[57] Ibidem, p. 44.
[58] G. Falcicchio, I figli della festa, cit., p. 220.
Alessandro LATTARULO
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