Coordonat de Angelo CHIELLI & Ioana Cristea DRĂGULIN
Volum IV, Nr. 2(12), Serie nouă, Martie – Mai 2016
Stato e società civile in Gramsci
(State and Civil Society in Gramsci)
Guido LIGUORI
Abstract. Gramsci is not, as at times has been said, the “theoretician of civil society”. Central to his reflections in the Prison Notebooks is instead the concept of the “integral State” or “extended State”, the dialectical union of State and civil society which allowed him to interpret the new social and political situation typical of much of the twentieth century. This new situation is characterized, on the one hand, by a new relationship between the economy and politics and, on the other, by the growing importance of the “apparatuses of consent” flanking the State’s traditional repressive apparatuses. For Gramsci the apparatuses of consent are sometimes public and sometimes apparently private but, in any case, their function is the same, namely to reinforce the hegemony of the dominant class, and to propagate a traditional common sense, thereby making it difficult to challenge the given set-ups of power. Since there has been a change in the State – the terrain of the struggle for power – the concept of revolution must also change: this is no longer an isolated insurrectionary event, as it was in the nineteenth century, but a long struggle for the conquest of “trenches and emplacements”, in other words the conquest of the centres that produce and extend consent.
Keywords: Gramsci Antonio, Marxism, Italian Communism, Egemony, Theory of State, Civil Society.
Stato « integrale» o «allargato»
«Stato» e «società civile» sono categorie che nei Quaderni del carcere di Gramsci hanno certamente una presenza e un significato anche presi in sé. È tuttavia mia convinzione che l’unico modo per coglierne bene il senso è considerarli in modo dialetticamente connesso, come un tutt’uno articolato, ma unitario. È ciò che Gramsci fa con la categoria fondamentale di «Stato integrale». Si è parlato a tal proposito di un «allargamento del concetto di Stato»[1] presente nei Quaderni, per indicare da un lato il nesso dialettico (di unità-distinzione) di Stato e società civile. Con tale concetto di «Stato integrale» Gramsci non vuole far altro che cogliere nella realtà del Novecento su cui riflette il protagonismo dello Stato, che ormai – mentre egli scrive, a inizio anni Trenta – è palese in molte realtà “avanzate” dell’«Occidente» capitalistico, a partire dalla nascita della società di massa a fine Ottocento, attraverso le grandi novità economiche e civili indotte dalla Prima guerra mondiale, per giungere ai nuovi “regimi” nati dagli anni Venti, o poco prima: dal bolscevismo ai fascismi italiano e tedesco, dalle socialdemocrazie del Nord Europa al keynesismo e al new deal. Il vecchio Stato liberale ottocentesco, mero strumento repressivo di una classe o poco più, su cui soprattutto aveva riflettuto Marx e che ancora aveva avuto di fronte Lenin, non esistevano più, nei paesi maggiormente sviluppati. Gramsci coglie questa novità e su si essa riflette, sempre restando marxista, ma in modo creativo.
L’«allargamento» del concetto di Stato, come riflesso dell’«allargamento» del ruolo e dell’intervento dello Stato nella realtà novecentesca, avviene nei Quaderni in due direzioni:
- a) la comprensione del nuovo rapporto tra politica ed economia, che Gramsci individua come uno dei tratti peculiari del Novecento, riflettendo sul «corporativismo» fascista, sulle esperienze dell’Unione Sovietica, sulla situazione che ha fatto seguito al «crollo di Wall Street». Da notare che queste tematiche erano presenti nei dibattiti teorici della Terza Internazionale come dell’austromarxismo già dall’inizio degli anni venti, quando Gramsci ebbe a soggiornare prima a Mosca e poi a Vienna. Rapporto nuovo politica-economia, si è detto, ma non tale – per Gramsci, come vedremo – da inficiare la tesi marx-engelsiana e marxista della determinazione «in ultima istanza» dell’economico;
- b) la comprensione del nuovo rapporto tra «società politica» e «società civile» (in senso propriamente gramsciano, intendendo cioè la società civile non come luogo dell’economico ma come «luogo del consenso»), cui Gramsci perviene mettendo a punto la sua teoria dell’egemonia.
Primo «allargamento»: politica ed economia
Iniziamo dal primo versante, relativo al rapporto Stato-economia. Gramsci non sostituisce l’economia con la politica, ma afferma il nesso dialettico e di azione reciproca tra i due livelli della realtà, indagando il livello «sovrastrutturale» a partire dalla fondamentale lezione di Marx. Se qualche ambiguità aveva avuto negli scritti giovanili, quando aveva subito la influenza di Gentile, nei Quaderni Gramsci polemizza duramente con il filosofo neoidealista e con la sua scuola, rifiutando di fare dello Stato stesso il soggetto della storia. Trattando nel Quaderno 10 di David Ricardo e della teoria dello Stato come «elemento che assicura la proprietà, cioè il monopolio dei mezzi di produzione» (Q 7, 42, 890), Gramsci scrive:
„È certo che lo Stato ut sic non produce la situazione economica ma è l’espressione della situazione economica, tuttavia si può parlare dello Stato come agente economico in quanto appunto lo Stato è sinonimo di tale situazione”. [2]
Lo Stato, dunque, è «espressione della situazione economica». Aveva già scritto Gramsci nel primo Quaderno:
„ Per le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non è concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione. Conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili”.[3]
Riprendendo questa nota nel Quaderno 10, Gramsci torna sulla «concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi sociali», sottolineando come «il rapporto di mezzo e fine» (tra politica ed economia) non è detto che sia «facilmente determinabile e assuma l’aspetto di uno schema semplice e ovvio a prima evidenza» (Q 10 II, 61, 1359-60). Tra «mondo economico» e sua espressione statuale può esistere un rapporto meno immediato, ad esempio in presenza di una situazione storica non favorevole..
La peculiarità dialettica dell’impostazione gramsciana è evidente nelle note in cui l’autore parla dell’«economismo», nella sua duplice versione, borghese (liberoscambismo, cioè liberismo) e proletaria (sindacalismo teorico, Sorel). Gramsci scrive che nel caso dei liberisti
„… si specula inconsciamente […] sulla distinzione tra società politica e società civile e si afferma che l’attività economica è propria della società civile e la società politica non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita storica società politica e società civile sono una stessa cosa. D’altronde anche il liberismo deve essere introdotto per legge, per intervento cioè del potere politico.”[4]
Questo passo è importante per l’affermazione secondo la quale la «distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita storica società politica e società civile sono una stessa cosa». Qui società civile sembra da intendere nel senso liberista di società economica. Ma le molte note gramsciane su direzione e dominio, forza e consenso, ecc., fanno comprendere che anche il rapporto fra società politica e società civile è dialettico, di unità-distinzione. Questo significa che la distinzione non è organica. La teoria gramsciana dell’egemonia, voglio dire, non significa che essa riguardi solo il consenso, gli «apparati egemonici». La complessità ermeneutica della categoria di Stato «integrale» sta nel fatto di tenere insieme forza e consenso in un nesso dialettico, dove in genere in «Occidente» è l’elemento del consenso a essere prevalente, senza ovviamente che la «forza» venga meno. Come dimostrano persino i casi estremi del fascismo e del nazismo.
Un problema analogo nasce dall’espressione di Gramsci secondo cui società civile e società politica sono «una stessa cosa». Nel testo C (Q 13, 18, 1590) l’espressione è sostituita con una ancora più forte: «si identificano». In Q 26, 6, 2302, Gramsci, parlando dello «Stato carabiniere», cioè dello «Stato minimo» liberista, scriverà anche che «la società civile […] è anch’essa “Stato”, anzi è lo Stato stesso». Come va letta questa sovrapposizione di Stato e società civile, comunque intesa? Ritengo che non sarebbe corretto far derivare da questo o da altri passi una totale identità – nel pensiero gramsciano – tra società economica e società politica, come tra società civile e società politica: il linguaggio gramsciano ha qui ceduto a una forzatura polemica che però, se presa alla lettera, è incompatibile col «ritmo del pensiero» dell’autore. Il rapporto resta dialettico, di unità-distinzione.
È a partire dalla consapevolezza della non separazione «ontologica» di Stato e società civile e di politica ed economia che Gramsci può cogliere il nuovo ruolo che il politico ha acquisito nel Novecento sia in relazione alla produzione economica, sia – conseguentemente – in rapporto alla composizione di classe della società. Gramsci si interessa al fenomeno, allora nuovo, delle obbligazioni statali, che fanno dello Stato un potente polmone finanziario al servizio del capitale. Siamo negli anni immediatamente seguenti al grande «crollo di Wall Street». La fiducia nel sistema capitalistico è profondamente scossa, ma il pubblico «non rifiuta la fiducia allo Stato; vuole partecipare all’attività economica, ma attraverso lo Stato» (Q 9, 8, 1100-1). E se lo Stato raccoglie il risparmio – sono le conclusioni lungimiranti del ragionamento gramsciano – non potrà prima o poi fare a meno di entrare direttamente nell’«organizzazione produttiva» (Q 9, 8, 1101). Lo Stato, dice Gramsci, «deve intervenire» se vuole evitare una nuova depressione. Egli, cioè, coglie con lucidità il passaggio dell’economia capitalistica verso la sua fase «keynesiana» degli anni Trenta, affermando nella stessa pagina:
„Non si tratta infatti di conservare l’apparato produttivo così come è in un momento dato. Bisogna svilupparlo parallelamente all’aumento della popolazione e dei bisogni collettivi. In questi sviluppi necessari è il pericolo maggiore dell’iniziativa privata e qui sarà maggiore l’intervento statale”.
Nel corrispondente testo di seconda stesura (Q 22, 14, 2176), Gramsci precisa che lo Stato è spinto a intervenire per «i salvataggi delle grandi imprese in via di fallimento o pericolanti; cioè, come è stato detto, la “nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali”». Gramsci non solo è critico nei confronti della versione fascista del nuovo rapporto tra politica ed economia che si realizza a fronte della «grande crisi» mondiale iniziata nel ‘29 – infatti, dello Stato fascista egli non esita a cogliere la «struttura plutocratica» e i «legami col capitale finanziario» (Q 9, 8, 1101). Gramsci critica anche il «capitalismo di Stato» tout court, lo considera «un modo per un savio sfruttamento capitalistico nelle nuove condizioni che rendono impossibile […] la politica economica liberale» (Q 7, 91, 920). Non muta il segno di classe, il fine ultimo (lo sfruttamento capitalistico). E dunque i Quaderni non incoraggiano, in questa serie di note, le politiche di new deal, che solo in seguito – lungo il Novecento – si caricheranno anche di significati progressivi, o almeno «di compromesso», in seguito alle lotte dei lavoratori e come risposta a queste lotte e ai bisogni delle classi subalterne, sia pure in un quadro non rivoluzionario e dunque, per alcuni versi, di «rivoluzione passiva».
Bisogna sottolineare come per Gramsci lo Stato incida profondamente nella composizione di classe della società, ad esempio facendo diminuire o meno il peso dei ceti parassitari con la sua politica finanziaria (Q 1, 135, 125). Ma gli esempi potrebbero ovviamente moltiplicarsi, nel momento in cui lo Stato entra direttamente nella «organizzazione produttiva». Qui vi è quella produzione della società da parte dello Stato (elargitore di reddito, direttamente e indirettamente, per quote crescenti di popolazione, non necessariamente parassitarie, come invece a Gramsci sembrava, all’altezza dell’Italia fascista degli anni trenta) che rappresenta la maggiore novità del rapporto Stato-società nel Novecento, sia pure sempre all’interno di un rapporto dialettico, di unità-distinzione, tra Stato e società civile (in tutti i sensi, economico e no), come Gramsci ci insegna pur sempre a partire da Marx.
Dunque, resta fermo per Gramsci che il modo di produzione capitalistico ha nell’economia il suo «motore primo». Resta fermo anche che per un marxista dialettico la distinzione tra struttura e sovrastruttura (e tra Stato e società civile) è solo metodica, non organica: in una parola, è dialettica. Resta anche vero, per Gramsci, che nel Novecento lo Stato, il politico, ridefinisce i propri rapporti con l’economico in seguito alla necessità del capitale di superare la propria crisi. L’intervento statale nel risparmio e nella produzione, introdotti nella società socialista come alternativa al mercato, vengono ora (all’epoca di Gramsci) introdotti, sia pure con finalità opposte, anche nelle società capitalistiche.
Va detto che Gramsci usa anche, più raramente, uno schema triadico, composto da economia – società civile – Stato. Si prenda ad esempio il § 49 del Quaderno 4, dove leggiamo che
„…il rapporto tra gli intellettuali e la produzione […] è mediato da due tipi di organizzazione sociale: a) dalla società civile, cioè dall’insieme di organizzazioni private della società, b) dallo Stato…”[5]
Qui «la produzione» viene nettamente distinta sia dalla società civile (in senso «gramsciano»), sia dallo Stato, termine usato in questo caso «in senso stretto», cioè tradizionale, cioè non «allargato», non comprendente quegli organismi che altrove (Q 12, 1, 1518) Gramsci definisce come «volgarmente detti “privati”». Dove il «volgarmente» e le virgolette tra cui pone l’aggettivo «privati» rendono esplicita la sua posizione, che riafferma il carattere solo apparentemente «privato», e «separato», della società civile. Ancora nel Quaderno 10 Gramsci torna a esprimere lo stesso schema triadico:
„ Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile […] lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica”.[6]
Qui sembra che Gramsci si riferisca, col termine «società civile», a un «mondo economico» che tracima rispetto alla «struttura economica» vera e propria. Nella stessa nota, del resto, egli distingue tra «struttura economica» e «operare economico», o anche tra «struttura economica» e «attività economica». In ogni caso, il ruolo che Gramsci assegna allo Stato appare rilevantissimo: adeguare la società civile alla struttura economica.
Torniamo ora allo schema che abbiamo visto espresso nella nota 49 del Quaderno 4. Vi è la «struttura», mentre società civile e Stato fanno parte della «sovrastruttura»; come dice Gramsci nel corrispondente di seconda stesura, vi sono
„ … due grandi «piani» superstrutturali, quello che si può chiamare della società civile, cioè dell’insieme di organismi volgarmente detti «privati» e quello della «società politica o Stato»”.[7]
Gramsci – possiamo dire – è il più grande studioso marxista delle sovrastrutture, di cui indaga importanza, complessità, articolazioni interne. Non per questo perde di vista il ruolo determinante della struttura, sia pure all’interno di una concezione dialettica del loro rapporto.
Secondo «allargamento»: società politica e società civile
Veniamo alla seconda direzione in cui si realizza l’«allargamento del concetto di Stato» proposto da Gramsci. Nella lettera a Tania del 7 settembre 1931 abbiamo una fotografia di rara efficacia di questa scoperta teorica gramsciana:
„ Lo studio che ho fatto sugli intellettuali è molto vasto […] Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come Società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intiera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali.”[8]
Studiando storia e ruolo degli intellettuali, ed enucleando così la propria teoria dell’egemonia, Gramsci è giunto a un nuovo concetto di Stato. L’attenzione di Gramsci si appunta soprattutto, in questo ambito, sugli «apparati egemonici» (termine che però nei Quaderni non compare, almeno al plurale), apparati che si aggiungono agli «apparati coercitivi», tipici dello Stato strictu sensu, dello Stato ottocentesco, su cui si era appuntata l’attenzione di Marx. Di qui discende l’importanza decisiva che Gramsci assegna agli intellettuali, con un nesso intellettuali-Stato che vive anche di suggestioni hegeliane. La «Società civile» è intesa come insieme di «organizzazioni così dette private». Torna qui una espressione simile a quella di Q 12, 1, 1518 («organismi volgarmente detti “privati”») e che è possibile trovare in vari luoghi dei Quaderni. L’uso delle virgolette (ad esempio in Q 6, 137, 801) o dell’avverbio «volgarmente» (ad esempio in Q 8, 130, 1020), come dell’espressione «così dette» che precede «private», sono segnali e indicatori della massima importanza: essi ci dicono che per Gramsci tali apparati egemonici, apparentemente «privati», fanno in realtà parte a pieno titolo dello Stato e dunque ci consentono di parlare di «Stato allargato». Questa espressione non si trova in Gramsci, che parla più volte di «Stato integrale», ma che usa l’espressione «Stato in senso organico e più largo» (Q 6, 87, 763, corsivo mio).
Preme sottolineare anche un altro aspetto: se gli organismi della società civile gramscianamente intesa fossero «privati» tout court, si aprirebbe la strada a una lettura «culturalista», «idealista», «liberale» di Gramsci, tendente a enfatizzare l’importanza del «dialogo» o dell’habermassiano «agire comunicativo», visti come slegati dai rapporti di forza: una visione ingenua della democrazia e dell’egemonia. Il fatto invece che tali organismi preposti alla formazione del consenso siano incardinati dialetticamente nello Stato permette di dire senza ambiguità che Gramsci sta proponendo una lettura forte della morfologia del potere nella società contemporanea. Un potere egemonico, in cui – ancora una volta, dialetticamente – nessuno dei due aspetti (forza e consenso, direzione e dominio) può essere ignorato. Un potere egemonico il cui soggetto è la classe, ma una classe che – per essere davvero egemone – non può che «farsi Stato».
Stato e coscienza di classe
La nota 47 del Quaderno 1, intitolata Hegel e l’associazionismo, pare essere il primo luogo dei Quaderni in cui fa capolino una concezione dello Stato comprendente anche gli «organismi» della società civile:
„ La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. […] Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente.”[9]
Per Gramsci «società civile» non è né la «struttura» marxianamente intesa, né l’hegeliano «sistema dei bisogni», quanto piuttosto l’insieme delle associazioni sindacali, politiche, culturali, generalmente dette «private» per contraddistinguerle dalla sfera «pubblica» dello Stato. Il marxismo dialettico di Gramsci, lo abbiamo già visto, impedisce però tale distinzione netta, «organica». Egli – a partire da una lettura di Hegel che non pare esente da forzature – sostiene fin dal Quaderno 1 che partiti e associazioni costituiscono i momenti tramite i quali si costruisce il consenso. Lo Stato è il soggetto di tale iniziativa pur agendo per mezzo sia di canali esplicitamente pubblici, sia di canali apparentemente privati. La capacità euristica di questo schema interpretativo appare tanto più evidente oggi, quando lo sviluppo dei mass media e la loro incidenza appare così largamente riconosciuta: ai vecchi «apparati egemonici» come la scuola o la stampa si sono infatti aggiunte – fondamentali nella creazione del senso comune – le televisioni, terreno sul quale spesso le connotazioni di «pubblico» o «privato», di «politico» o di «economico», incontra molte difficoltà.
Il termine «società civile» non compare in Q 1, 47, 56, ma il concetto è presente, come si evince anche leggendo Q 6, 24, 703:
„ … società civile come è intesa dallo Hegel e nel senso in cui è spesso adoperata in queste note…” (cioè nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato).
Si può aggiungere che Hegel è anche ripetutamente richiamato nei Quaderni come teorico dello «Stato etico» contrapposto allo Stato «guardiano notturno», cioè allo Stato minimo humboldtiano. Il concetto di «“Stato etico” – dice Gramsci – è di origine filosofica (Hegel) e si riferisce […] all’attività educativa e morale dello Stato» (Q 5, 69, 603-604).
È però nel Quaderno 3 che Gramsci sottolinea ripetutamente il ruolo e la funzione dello Stato. Vi troviamo un rapido schizzo di storia dello Stato: non solo la distinzione tra quello antico-medievale e quello moderno («Lo Stato moderno abolisce molte autonomie delle classi subalterne […] ma certe forme di vita interna delle classi subalterne rinascono come partito, sindacato, associazione di cultura»: Q 3, 18, 303), ma anche una importante notazione sulla «dittatura moderna», che «abolisce anche queste forme di autonomia di classe e si sforza di incorporarle nell’attività statale: cioè l’accentramento di tutta la vita nazionale nelle mani della classe dominante diventa frenetico e assorbente» (ibid.).
Gli altri cenni allo Stato che troviamo in questo Quaderno 3 concorrono a enfatizzare l’importanza del concetto: «dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce [concretamente] il problema di una nuova civiltà» (Q 3, 31, 309); «scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe» (Q 3, 46, 326); «La unificazione storica delle classi dirigenti è nello Stato e la loro storia è essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati» (Q 3, 90, 372). La «classe», per l’esattezza, sembra a Gramsci matura per porre se stessa come classe egemone solo quando: 1) ha un partito autonomo, che afferma la propria «autonomia integrale» dalle classi dominanti (Q 3, 90, 373); e 2) sa «unificarsi nello Stato» (ibid.).
Sia il § 18, sia questo § 90 hanno lo stesso titolo: Storia delle classi subalterne. Gramsci sta appunto cercando di capire perché una classe è subalterna e come fa a divenire dirigente. Su questa via riformula il concetto di egemonia – già presente in nuce nelle discussioni della Terza Internazionale di inizio anni venti – e introduce il termine di «società civile», ancora non pienamente sviluppato come concetto «gramsciano». Così infatti prosegue il § 90:
„ Questa unità deve essere concreta, quindi il risultato dei rapporti tra Stato e «società civile». Per le classi subalterne l’unificazione non avviene: la loro storia è intrecciata a quella della «società civile», è una frazione disgregata di essa” (ibid.).
Il testo di seconda stesura è ancora più esplicito:
Le classi subalterne, per definizione, non sono unificate e non possono unificarsi finché non possono diventare «Stato»: la loro storia, pertanto, è intrecciata a quella della società civile, è una funzione «disgregata» e discontinua della storia della società civile e, per questo tramite, della storia degli Stati o gruppi di Stati (Q 25, 5, 2288).
È chiaro che Gramsci descrive qui il cammino dell’egemonia, e vede una classe come matura per porre la propria sfida egemonica solo in quanto giunge a esprimere ed esprimersi in un partito e a «diventare» Stato.
Concludo le notazioni sul Quaderno 3 richiamando l’attenzione su Q 3, 61, 340, che sia pure con qualche ambiguità mi sembra inizi ad «allargare» il concetto di Stato:
„ … ogni elemento sociale omogeneo è «Stato», rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale. Ogni cittadino è «funzionario» se è attivo nella vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato-governo, ed è tanto più «funzionario» quanto più aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente”.
Gramsci mette in guardia (un po’ sibillinamente) da «forme statolatriche». Si è ancora di fronte a una riflessione sulle esperienze «totalitarie» a lui contemporanee. Egli sta parlando in particolare del regime sovietico, come appare chiaro se si legge la nota 69 del Quaderno 9, dove – ribattendo alle critiche elitiste alla democrazia e ai suoi contenuti «numerici» – giunge a parlare del «sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico e non foggiato secondo i canoni della democrazia astratta»: intende la democrazia soviettista, affermando:
„ In questi altri regimi – continua Gramsci – il consenso […] è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come «funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo.”[10]
Il Quaderno 6: definizioni
Ritorniamo ai Quaderni per seguire lo svolgersi della riflessione di Gramsci su Stato e società civile. Dopo il Quaderno 3, è il Quaderno 6 quello in cui si trovano alcune delle definizioni di «Stato allargato» più pregnanti. Il Quaderno 6 – ricordiamo – è datato 1930-1932, è un quaderno miscellaneo, composto quasi completamente da testi B. Vediamo alcuni brani su Stato e società civile.
Q 6, 87, 762-3:
„ … l’iniziativa giacobina dell’istituzione del culto dell’«Ente supremo», che appare pertanto come un tentativo di creare identità tra Stato e società civile, di unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi dello Stato in senso organico e più largo” (Stato propriamente detto e società civile).
Q 6, 88, 763-4:
„ … nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile” (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione).
Q 6, 136, 800: organizzazioni e partiti «in senso largo e non formale» costituiscono
„ … l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo”.
Q 6, 137, 801:
„ Concetto di Stato […] per Stato deve intendersi oltre all’apparato governativo anche l’apparato «privato» di egemonia o società civile”.
Q 6, 155, 810-1:
„ Nella politica l’errore avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia)”.
A questo punto dei Quaderni, dunque, Gramsci è pervenuto al concetto di «Stato integrale» o «allargato» che descrive nella lettera a Tania del settembre 1931: società politica + società civile, apparati governativo-coercitivi + apparati egemonici. Vorrei qui richiamare l’attenzione sul termine «apparato egemonico», che compare in Q 6, 136, 800, espressione che mi sembra di fondamentale importanza perché rimanda alla materialità dei processi egemonici: non si tratta solo di «battaglia delle idee», ma di veri e propri apparati preposti alla creazione del consenso. Tuttavia lo «Stato integrale» di Gramsci è attraversato dalla lotta di classe, i processi non sono mai univoci, esso costituisce anche il terreno dello scontro di classe. «C’è lotta tra due egemonie, sempre», scrive Gramsci (Q 8, 227, 1084). Siamo distanti, dunque, da una teoria struttural-funzionalista: sia lo Stato che la società civile sono attraversati dalla lotta di classe, la dialettica è reale, aperta, l’esito non predeterminato. Lo Stato è insieme strumento (di una classe), ma anche luogo (di lotta per l’egemonia) e processo (di unificazione delle classi dirigenti). È possibile per Gramsci creare momenti di «contro-egemonia», è possibile per una classe «già prima di andare al potere essere “dirigente” (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche “dirigente”» (Q 1, 44, 41). La funzione di direzione inizia prima, ma il dispiegamento pieno della funzione egemonica si ha poi solo nel «farsi Stato» della classe che giunge al potere: lo Stato serve al suo essere «dirigente» non meno che al suo essere «dominante».
Stato etico
Prosegue la ricognizione gramsciana sullo Stato-egemonia e sulla crisi dell’egemonia borghese che ha condotto al fascismo, ma anche alla rottura dell’Ottobre. Il punto di partenza è la celebre distinzione Oriente-Occidente che troviamo in Q 7, 6, 866:
„ In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte”.
Da una parte «si tratta dunque di studiare, con profondità, quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione» (Q 7, 10, 860). Dall’altra, la crisi di egemonia è definita come
„ … distacco della società civile da quella politica: si è posto un nuovo problema di egemonia, cioè la base storica dello Stato si è spostata. Si ha una forma estrema di società politica: o per lottare contro il nuovo e conservare il traballante rinsaldandolo coercitivamente, o come espressione del nuovo per spezzare le resistenze che incontra nello svilupparsi ecc.” [11]
Rivoluzione e reazione sembrano affidare allo Stato stricto sensu la propria sorte. Ma il ricorso alla dittatura – variabile che Gramsci non può non avere drammaticamente presente – non esaurisce la gamma delle possibilità. Il tema della creazione di una «opinione pubblica», ad esempio, se non è estraneo ai «totalitarismi», investe anche pienamente gli Stati liberaldemocratici. Scrive Gramsci:
„Ciò che si chiama «opinione pubblica» è strettamente connesso con l’egemonia politica, è cioè il punto di contatto tra la «società civile» e la «società politica», tra il consenso e la forza. Lo Stato quando vuole iniziare un’azione poco popolare crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata, cioè organizza e centralizza certi elementi della società civile”.[12]
Anche qui vorrei rimarcare la distanza di Gramsci da certe concezioni oggi così diffuse che dipingono la società civile come una libera arena in cui gli attori, dialogando, creano il tessuto connettivo della convivenza democratica. Avverte Gramsci:
„ …esiste la lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento, in modo che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discordi in un pulviscolo individuale e disorganico”.[13]
E questo perché
„ … le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di irradiazione e di diffusione”.[14]
Dietro ogni «dialogo» e ogni «agire comunicativo» vi è sempre, dunque, una lotta per l’egemonia. In questo senso lo Stato è «educatore» (Q 8, 2, 937 e Q 8, 62, 978), in questo senso è «etico»:
„ … ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni più importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti”.[15]
Lo Stato che agisce per creare «conformismo» non lascia alla società civile spontaneità alcuna:
„ In realtà lo Stato deve essere concepito come «educatore», in quanto appunto tende a creare un nuovo tipo o livello di civiltà; come ciò avviene? Per il fatto che si opera essenzialmente sulle forze economiche […] non deve trarsi la conseguenza che i fatti di soprastruttura siano abbandonati a se stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germinazione casuale e sporadica. Lo Stato è una «razionalizzazione» anche in questo campo, è uno strumento di accelerazione e taylorizzazione, opera secondo un piano, preme, incita, sollecita ecc”.[16]
Statolatria
Nel Quaderno 8 (1931-’32: una delle fasi più acute di dissenso di Gramsci rispetto alla politica dell’Urss) alcune note sembrano riferirsi, in modo più o meno velato, alla Repubblica dei Soviet. Mi limito a un paio di testi. Il principale è Q 8, 130, intitolato Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. Statolatria. Dopo alcune annotazioni su società civile e società politica, Gramsci scrive:
„ Per alcuni gruppi sociali, che prima della ascesa alla vita statale autonoma non hanno avuto un lungo periodo di sviluppo culturale e morale proprio e indipendente […], un periodo di statolatria è necessario e anzi opportuno: questa «statolatria» non è altro che la forma normale di «vita statale», di iniziazione, almeno, alla vita statale autonoma e alla creazione di una «società civile» che non fu possibile storicamente creare prima dell’ascesa alla vita statale indipendente.”[17]
Il paradosso della Rivoluzione è dunque di aver vinto in «Oriente», dove la «società civile» non solo è «primordiale e gelatinosa», ma dove – dice qui Gramsci – sembra addirittura mancare del tutto. Da qui la «statolatria», un atteggiamento fideistico, di identificazione con lo Stato, leva per colmare il ritardo dovuto al fatto che la rivoluzione non è stato preceduto da alcun «illuminismo», da alcuna azione di costruzione egemonica. Ma se Gramsci comprende l’origine della «statolatria», e vede bene – in un’altra nota dello stesso Quaderno 8 – come «gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi» in una fase di «primitivismo economico-corporativa», dove gli elementi culturali saranno soprattutto «di critica del passato» (Q 8, 185, 1053), non per questo chiude gli occhi sui pericoli di una situazione siffatta e sollecita una consapevole azione in controtendenza:
„ Tuttavia – prosegue in Q 8, 130, 1020 – questa tale «statolatria» non deve essere abbandonata a sé, non deve, specialmente, diventare fanatismo teorico, ed essere concepita come «perpetua»: deve essere criticata, appunto perché si sviluppi, e produca nuove forme di vita statale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia «statale» anche se non dovuta al «governo dei funzionari».”
Gramsci avverte tutto il pericolo di degenerazione della situazione in cui il regime sovietico si trova. Siamo all’inizio di quello che in seguito sarà chiamato «stalinismo», dove la «statolatria» non solo non sarà combattuta, ma verrà innalzata a sistema. La «statolatria», comprensibile dal punto di vista storico, cioè delle condizioni in cui la rivoluzione russa ha avuto luogo, non va né teorizzata né accettata senza mettere in moto controspinte che portino presto a poterne fare a meno. Un programma che, come è noto, non fu seguito in Unione Sovietica.
Gramsci nella sua cella di Turi ha soprattutto di fronte due Stati, due tipi di Stato: lo Stato fascista che lo tiene prigioniero, lo Stato sovietico nella cui causa egli si riconosce. La sua riflessione è certo intessuta di continui riferimenti all’esperienza storica di entrambi, così come egli riesce a comprenderla. D’altra parte, Gramsci è tra i primi a cogliere come anche negli Stati liberaldemocratici vi siano nuovi e importanti fenomeni di «organizzazione delle masse», di regolamentazione anche coatta delle loro modalità di vita, di ricerca di un nuovo e forte «conformismo» necessario per lo sviluppo della nuova produzione fordista.
Pur dunque con dei limiti, dovuti allo stesso tempo storico in cui egli vive e riflette, Gramsci è anche estremamente attento a precisare la deriva totalitaria dello Stato del Novecento e i pericoli insiti su questo fronte in primo luogo per il movimento comunista.
La questione della statolatria a livello teorico rimanda al passaggio cui si è già fatto riferimento: il pericolo di totalitarismo non nasce dalla «identificazione» di società politica e società civile? Se – come si è visto – esse sono «una stessa cosa» (Q 4, 38, 460), se «nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano» (Q 13, 18, 1590), se la società civile «è anch’essa Stato, anzi è lo Stato stesso» (Q 26, 6, 2302), come si può respingere la «statolatria»? Si tratta, è vero, di espressioni molto forti. Sbagliate, se prese alla lettera, come si è già detto. Sappiamo che Gramsci scrive i Quaderni come appunti, che mette più volte in guardia il lettore (futuro e presunto) sulla necessità che essi hanno di essere rivisti, vagliati, forse corretti, sul fatto che bisogna sforzarsi di cogliere più il «ritmo del pensiero» che «le singole citazioni staccate» (Q 4, 1, 419). Questo sembrerebbe appunto uno dei casi. In realtà, per Gramsci il rapporto è dialettico, di richiamo e influenza reciproca. Come è dimostrato anche da tutte le citazioni riportate precedentemente, Stato «propriamente detto» e «società civile» sono due momenti distinti, non si identificano, sono in relazione dialettica e insieme costituiscono lo «Stato allargato».
Alla semplificazione Gramsci è portato probabilmente anche dall’influenza di alcune tematiche gentiliane, di Gentile e della sua scuola. In diversi passaggi il giudizio di Gramsci su Gentile è molto critico, come lo è sui suoi seguaci (Ugo Spirito e altri) che cercano sulla scorta della filosofia di Gentile di dare corpo a una ipotesi «corporativa» nell’ambito del fascismo e in polemica con i liberali. Benché Gramsci irrida al loro verbalismo e alla loro incompetenza economica, egli riconosce che la concezione dello Stato di Gentile (notte in cui tutte le vacche sono nere, poiché per Gentile «tutto è Stato») apre la strada almeno a superare alcune unilateralità di Croce, da cui pure Gramsci è ispirato:
„ Per il Gentile – egli scrive – la storia è tutta storia dello Stato; per il Croce è invece “etico-politica”, cioè il Croce vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica. [Per Gentile,] egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz’altro: non si può distinguere la società politica dalla società civile: esiste solo lo Stato”.[18]
Come si vede bene, entrambe le posizioni sono diverse da quella di Gramsci. Si è visto ripetutamente come in Gramsci vi siano sia forza che consenso, non reductio ad unum; d’altra parte non vi è in lui neanche quella «distinzione» adialettica che c’è nella «dialettica dei distinti» di Croce. Fra Croce e Gentile Gramsci è, potremmo dire, per una «terza via»: valorizza il momento etico-politico di Croce (l’egemonia), il momento della società civile, ma ne fa una parte dello Stato («allargato»). Unità e distinzione tra società politica e società civile, dunque.
In conclusione
Nel Q 13, 17, 1578 – datato 1932-1934 – Gramsci aveva scritto:
„… la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati”.
Ancora nel Quaderno 15 – siamo nel 1933 – una definizione complessa, dinamica, avvolgente, quanto mai aperta:
„ Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati”.[19]
Qui l’accento sembra battere più sui processi che sulle forme. Non è detto però che gli “apparati” di cui altrove si parla vengano meno. A mio avviso, soggetti, processi e forme hanno in Gramsci tutti il loro spazio, in un rimando continuo soggettivo-oggettivo che ne costituisce gran parte del fascino (e della difficoltà). Gramsci non rinnega, neanche indirettamente, le riflessioni e definizioni sullo Stato che abbiamo visto fin qui, che anzi vengono riproposte anche in molti degli ultimi quaderni, in seconda stesura. Ma prospetta un modello interpretativo dello Stato sempre più dinamico e processuale. Lo Stato è il terreno, il mezzo e il processo in cui questa lotta necessariamente si svolge, ma gli attori principali di tale lotta sono quelle che Gramsci chiama le «classi fondamentali». Per Gramsci il loro «farsi Stato» è un momento ineludibile nella lotta per l’egemonia (come lo è anche il disporre di un partito portatore di una precisa e alternativa «concezione del mondo»). Non c’è spazio – in Gramsci – per un «protagonismo degli intellettuali» o «della società civile», cioè per una loro considerazione sganciata da queste coordinate di fondo.
Bibliografia
GLUCKSMANN –Buci Christine , Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia [1975], Roma, Editori Riuniti, 1976.
GRAMSCI Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975.
Idem, Lettere dal carcere, (a cura di Antonio A. Santucci), Palermo, Sellerio, 1996.
[1] Christine Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia [1975], Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 65
[2] Indico in questo modo direttamente nel testo Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975. Il primo numero riguarda il quaderno, il secondo il paragrafo, il terzo la pagina o le pagine, Q 10 II, 41. VI, p. 1310.
[3] Ibidem, Q 1, pp. 150, 132.
[4] Ibidem, Q 4, pp. 38, 460.
[5] Ibidem, Q 4, 49, p. 476.
[6] Ibidem, Q 10 II, 15, pp. 1253-1254.
[7] Ibidem, Q 12, 1, p. 1518.
[8] Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Palermo, Sellerio, 1996, pp. 458-459.
[9] Ibidem, Q 1, pp. 47, 56.
[10] Ibidem, Q 9, pp. 69, 1141.
[11] Ibidem, Q 7, pp. 28, 876.
[12] Ibidem, Q 7, pp. 83, 914.
[13] Ibidem, Q 7, pp. 83, 915.
[14] Ibidem, Q 9, pp. 69, 1140.
[15] Ibidem, Q 8, pp. 179, 1049.
[16] Ibidem, Q 8, pp. 62, 978.
[17] Ibidem, Q 8, pp. 130, 1020.
[18] Ibidem, Q 6, pp. 10, 691.
[19] Ibidem, Q 15, pp. 10, 1765.
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