Coordonat de Laura MITAROTONDO & Teodora PRELIPCEAN
Volum V, Nr. 2 (16), Serie nouă, martie – mai 2017
Il Puer all’Inferno: Tommaso Fiore e le utopie del Socialismo
(The Puer in Hell: Tommaso Fiore and the utopias of Socialism)
Daniele Maria PEGORARI
Abstract: The notion of utopia accompanies the entire period of Tommaso Fiore’s reflection, starting from Masonic influences that induce him to take part in World War I, like the foundation of a “reign of utopia”, as he wrote in his trench notebooks. Disappointed, however, by the violence of reality, Fiore moves to socialistic-liberal positions that lead him again to reflect on the utopian matrices of European political thought, mostly in Thomas More and Erasmus of Rotterdam. The most mature point of this progressive realistic correction of the concept of utopia would be reached after World War II, as soon as Fiore would pay attention to Soviet Socialism structures, identifying them as the model of a viable social bliss, a “land of utopia” example that was realized and can be imitated.
Keywords: Utopia, War, Liberalsocialism, Communism.
Prima utopia: la guerra della nazione
Consolidato negli studi sulla cultura e sulla politica del Mezzogiorno d’Italia attraverso l’immagine di uomo pragmatico e d’azione, il pugliese Tommaso Fiore (Altamura 1884 – Bari 1973) andrebbe piuttosto ascritto alla genealogia dei teorici dell’“utopia reale”, posto che slancio utopico e amministrazione dell’esistente si congiungono perfettamente a metà strada lungo tutto il suo percorso di socialista liberale, e in ogni aspetto del suo protagonismo intellettuale: il côté dello studioso, quello del politico e quello dello scrittore. Nell’arco di quel mezzo secolo (dagli anni Dieci agli anni Sessanta del Novecento) in cui la normalizzazione della prassi statuale liberaldemocratica, da un lato, e la riprovazione nei confronti degli apparati “mitologici” di cui si alimentavano i totalitarismi euroasiatici, dall’altro, induceva a espungere dalla progettualità politica occidentale il paradigma dell’utopia, Fiore tendeva il suo ragionamento fra il polo dell’immaginazione di un ordine sociale giusto e quello della sua effettiva praticabilità. Con riguardo alla formazione del giovane Fiore, oserei dire che l’orizzonte utopico si dispiegava come riscatto e compensazione di un “eccesso di realtà”, quale può essere ravvisata nella sua originaria condizione di proletario (essendo figlio di un capomastro e di una filatrice), che negli studi classici vedeva l’opportunità di ribaltare un destino di dignitosa povertà che sembrava già scritto, attraverso la naturale introiezione dei modelli libertari del tempo: da un lato il carduccianesimo, coltivato negli anni seminariali, si poneva come antidoto contro gli eccessi conservatori del cattolicesimo, dall’altro l’incontro con Pascoli all’Università di Pisa lo introdusse a un socialismo utopistico che dovette risultare particolarmente fascinoso per il giovane che cercava un quadro unitario di interpretazione delle mute sofferenze bracciantili della Murgia e delle ben organizzate proteste operaie e anarchiche di Carrara e della Lunigiana.
Il “satanismo” letterario del professore di Bologna e il ripiegamento neobucolico di quello di Pisa (in cui, pure, l’ebbrezza coloniale de La grande proletaria si è mossa rinnovava le giovanili “tentazioni” politiche) sono i complementari ingredienti della formazione civile di Fiore, fra ideologia del progresso e richiamo della campagna, ma anche fra ribellismo istintivo e quieta dedizione agli studi, soprattutto latini e rinascimentali. In altri termini, il vincolo di utopia e realismo comporta la convivenza in Fiore degli archetipi, descritti da Hillman, del puer (che orienta l’anelito all’eroismo di tutta un’indomita generazione postrisorgimentale) e del senex (che suggerisce, invece, pacatezza, moderazione, buon senso, pratica del compromesso come conseguimento del massimo risultato possibile);[1] il che equivale alla duplicità fra il destino del “cafone” (che condivide con i miseri della sua terra la laboriosità manuale) e quella del “professore” (che si trova a suo agio fra le carte e nelle aule liceali e universitarie). Non dovrà, dunque, apparire strano se riconosceremo la stessa natura ancipite nello slancio partecipativo di Fiore alla prima guerra mondiale, allorché intorno al concetto di utopia (che si affaccia per la prima volta nel secondo dei suoi opuscoli militari, Eroe svegliato asceta perfetto) riescono a legarsi in originale connubio l’interventismo appreso da Gaetano Salvemini e l’ascetismo filosofico-religioso, nel quale, con bizzarro sincretismo, potevano trovarsi accostati accenti francescani, buddisti e massonici.
Come avveniva per gli scrittori vicini alla rivista «la Voce», anche per Fiore la decisione di arruolarsi era un misto di avventurismo giovanile, risposta a un’educazione di stampo ottocentesco e risorgimentale e, soprattutto, adesione a un processo di nation building: la partecipazione a un evento così macroscopicamente corale non solo veniva avvertita come il compimento dell’unificazione nazionale – anche al di là dell’esito della questione di Trento e Trieste, sulla cui conquista si era eretto il mito della “quarta guerra di indipendenza” –, ma, proprio per la parificazione dell’individuo con la massa dei combattenti e per l’annullamento dell’identità personale in quella idealistica e patriottica, essa appariva la risposta più adeguata al difetto di volontà e concretezza che sembrava segnare i ruoli intellettuali in quegli anni, e che già avevano generato una ricca letteratura sull’inettitudine, da Svevo a Gozzano, da Kafka a Musil. Con forza, già nel primo taccuino di guerra, Uccidi, scritto durante l’addestramento a Potenza prima di raggiungere il Carso, Fiore aveva manifestato disprezzo per coloro che si erano sottratti all’arruolamento con qualche pretesto, contrapponendo all’ignavia di costoro il rifiuto di ogni agevolazione, foss’anche quella di essere inquadrato immediatamente come ufficiale, avendo preferito affrettare l’arruolamento come semplice fante, pur essendo laureato e già insegnante di Lettere. Nel corpo lacerato della nazione, invece, lo scrittore trovava l’occasione per liberare l’intellettuale dalla “sindrome di Don Chisciotte”, per così dire, cioè dall’incapacità di leggere la storia e di prendere posizione nel fuoco degli eventi.
Nel secondo dei quaderni, Eroe svegliato asceta perfetto, scritto al fronte durante le pause del combattimento, la prima ripetuta occorrenza del termine «Utopia» appare congiunta all’obiettivo di un «regno» o di una «regione»,[2] la cui conquista sarebbe stata il vero fine della guerra, evidenziando così il diretto rapporto fra gli scopi immediati del conflitto e l’anelito alla costruzione di un diverso ordine di giustizia mondana, fondato sull’equa distribuzione delle ricchezze e sul riconoscimento nell’intellettuale di una funzione profetica e pedagogica. Per il primo aspetto, si pensi al sogno dell’avvento di un Cristo reincarnato che sarebbe stato accolto come «Cesare», «padrone di tutto il mondo», «signore di tutto senza contrasto», al quale sarebbe stata concessa «la ricchezza e la potenza», affinché con santità e rettitudine la distribuisse «un po’ a tutti, ad ognuno secondo bisogno, sicché nessuno manchi di nulla» e tutti accettino quietamente la condizione di «schiavi».[3] I toni francamente ingenui di queste pagine sono però parzialmente riscattabili, quando si pensi ai sostrati culturali di questa immagine, che chiamano in causa, a un tempo, l’irenica organizzazione della comunità protocristiana, come Fiore poteva leggerla negli Atti degli apostoli,[4] l’irrisolta profezia del Veltro del primo canto dell’Inferno di Dante (una figura politico-religiosa nella quale non pochi esegeti hanno intravisto una seconda discesa terrena del figlio di Dio),[5] le tesi marxiane contenute nella Critica al programma di Gotha[6] (consonanze del tutto fortuite, che però spiegano la futura disponibilità di Fiore verso il social-comunismo), nonché accenti prossimi all’evangelismo e al populismo di Tolstoj, ben conosciuto dallo studioso pugliese, che gli aveva dedicato uno dei suoi primi articoli. L’annullamento dell’identità individuale in quella collettiva è il tema ossessivamente ribadito nel volumetto, sin dalle prime pagine, allorché non solo si disprezza la conservazione della propria vita («E peggior disgrazia è se io nulla nulla mi adoperi a vivere […]. Debbo morire ora; voglio morire, è bene che io muoia»),[7] ma pure si declina la partecipazione bellica come denudamento dell’ipocrita affermazione dell’io e come eroismo conseguito in forza di un’ascesi che trasforma il «diverso» in «identico», cioè in parte della comunità nazionale.
Così scrive, in un passaggio di tesa contrazione semantica: «sono uno identico uno del paese uno selce opaca radicata nel suolo del paese, uno che accuratamente nasconde sé sotto vesti. Potessi esser sempre e del tutto nudo!».[8] La soggettività è qui vista come prigione dell’essere, gabbia che inibisce l’esplicazione delle ragioni e della forza, con accenti a cui non sarà estranea un certa influenza esoterica e alchemica, celata nel riferimento all’opacità della pietra come stadio iniziale della materia vile, nigredo ancora indisposta a raggiungere l’albedo. Nella trincea si combatte, certo, una guerra di liberazione, ma dai ceppi del conformismo e della grettezza, nonché della miseria dei popoli, molto più che dagli austriaci, sicché l’eroe-asceta è «non già soldato dell’Intesa […], ma dell’Utopia addirittura» (come scrive l’autore nella Nota apposta al momento di licenziare il taccuino per la stampa).[9]
Seconda parte di un trittico di opuscoli a cui Fiore consegna il suo itinerario di catabasi nell’inferno della Storia, dopo il diario dell’arruolamento e prima degli accenti di pentimento contenuti nel quaderno della prigionia successiva alla disfatta di Caporetto (Alla giornata), Eroe svegliato asceta perfetto è l’esame di coscienza, il monologo interiore di un fante che trascrive i suoi sommovimenti con incostanza e compiaciute movenze decadenti, come nelle pagine in cui appaiono ambigue figure di commilitoni, di mercanti, di giovani donne e bambine, difficilmente decifrabili, se non come memorie familiari o ipostasi letterarie. Lo stile è quello del frammentismo vociano e dell’espressionismo europeo, che cercavano una strada autonoma rispetto tanto alla lirica quanto al romanzo, e vano sarebbe cercare di leggere queste pagine in chiave realistica: il dialogo fra più personaggi, proprio intorno al fine supremo della conquista del «regno dell’Utopia», nella parte culminante del libello, può anche essere la trasposizione letteraria di un momento di riposo dei soldati lontano dal fronte, ma la narrazione rimane sospesa nello spazio del sogno, sicché anche la definizione dell’utopia sfugge costantemente al rigore del ragionamento. Pare, anzi, che l’autore preferisca quale tocco umoristico, come quando alle enunciazioni astratte dell’io narrante e del compagno indicato come «filosofo», rispondono con sufficienza i mercanti che si trovano in loro compagnia e che dubitano dell’esistenza di una regione chiamata Utopia, a meno che non si tratti di quella «terra» di cui avevano favoleggiato «molti antichi» e che poi i popoli «avevano volta a volta posseduta»; in ogni caso, conclude con tono liquidatorio uno di loro, «la vita» e «gli affari» commerciali avevano accresciuto in lui la dimestichezza con la sfera della realtà, lasciandolo immune alle «utopie di sorta». E quando si sente rimproverare l’assenza di “positività” (da intendere come permanenza nello spazio della certezza scientifica e del buon senso), Fiore non può che tagliar corto e riconoscere con sottile arguzia che quella terra di cui avevano discorso esiste solo per i «matti» e «nessun uomo savio, laureato o no, vi ha mai messo piede. Abbiamo fatto anzi una legge apposta per tenervi lontani».[10]
Ma la partecipazione alla disfatta di Caporetto e la lunga prigionia nel campo di Schwarmstädt mutano l’atteggiamento del professore pugliese nei confronti della guerra, dissipando le pulsioni spiritualistiche e massoniche (pericolosamente convergenti col bellicismo futurista) e lasciando emergere la compassione per le stragi sugli opposti fronti e, ancor più, per le vittime civili che direttamente o indirettamente erano riconducibili alla violenza della guerra. Il terzo di questi taccuini, Alla giornata, che lumeggia l’angoscia del prigioniero strappato alla condivisione degli eventi collettivi, svela il processo per il quale il combattente si è reso conto di quanto fosse falsificante attribuire alla guerra il potere di dar corpo a un’identità nazionale e a una compiuta socialità, e introduce perciò alla svolta che attende Fiore al rientro a casa, con la decisione di impegnarsi nella vita istituzionale e di investire la nozione di utopia nella fondazione di un nuovo partito.
Seconda utopia: la religione della libertà
Il cambio di passo è risoluto sin dal rientro ad Altamura nel 1919, allorché Fiore vede in Gaetano Salvemini il maestro di un socialismo autonomo dalle posizioni classiste (ed è soltanto un passaggio prima dell’allineamento al pensiero di Carlo Rosselli), corroborato dalla dura esperienza di guerra che in tutta Italia sta ingrossando le fila dell’Associazione Nazionale Combattenti: il ’19 è l’anno delle elezioni amministrative, nelle quali il movimento combattentistico presenta proprie liste, peraltro generalmente poco fortunate, ma non ad Altamura, dove essa, sotto la leadership di Fiore, conquista la maggioranza e il professore diviene sindaco e consigliere provinciale. L’esperienza sarà breve (dal 1920 al 1922), ma costituirà l’apprendistato della politica come ricerca delle soluzioni e prassi delle alleanze, affiancata da un’attività pubblicistica nella quale si scopre il carattere precipuo del pensiero di Fiore, che sarà poi filtrato, attraverso il figlio Vittore, alle generazioni meridionaliste del secondo dopoguerra: mi riferisco alla scarsa disponibilità verso le teorizzazioni generali (forse anche per evitare le astrazioni in cui si era arrischiato in gioventù) e alla predilezione per la riflessione sui casi concreti. Lo slancio utopico sembrerebbe accantonato, ma è solo messo alla prova della realtà e rimane l’obiettivo ultimativo che ispira il percorso quotidiano che, per quanto lento, non perde la propria direzione e non cessa di perseguire le istanze finali.
Proprio “dialogando” con Salvemini, che nel 1922 aveva pubblicato, in una collana diretta da Ugo Ojetti, Le più belle pagine di Carlo Cattaneo,[11] l’altamurano introduce nel suo progetto di “rinnovamento” (parola a cui si ispirava un’ipotesi di nuovo partito, presto abortita) il modello federalista, consegnato a un articolo dal titolo Ritorniamo a Cattaneo: è evidente che il fascino di questa lezione risorgimentale si spiega con i fermenti squadristici di quell’anno e con l’ascesa al potere del fascismo che si sarebbe immediatamente caratterizzato per la radicalizzazione del modello statuale centralistico che per Fiore non rappresenta solo un rischio per la qualità democratica del sistema, ma mette una pietra tombale sulle speranze di progresso economico e sociale del Mezzogiorno. Il centralismo, infatti, appare a Fiore un principio di organizzazione che, irrigidendo il rapporto fra classi dirigenti locali e governo nazionale, sclerotizza gli apparati e fissa i livelli di sviluppo allo stato attuale, senza consentire quegli investimenti e quell’innovazione che sarebbero necessari alla parte più arretrata del Paese e che potrebbero darsi solo con la responsabilizzazione diretta del ceto amministrativo.
L’incrudelirsi del regime, dopo il delitto Matteotti del giugno 1924, porta Fiore a praticare la via della più ampia collaborazione fra le forze antifasciste, immaginando che il socialismo e il liberalismo, come modelli, rispettivamente, di un’organizzazione egualitaria e giusta della società e di un’educazione spirituale ai valori del progresso e dell’armonia, possano finalmente saldarsi, costituendo i fondamenti di un “partito della nazione”. Questa è la ragione della lunga diffidenza nutrita per oltre un ventennio nei confronti del comunismo (tacciato di antiliberalismo), mentre gli interlocutori privilegiati divengono Benedetto Croce – il maestro ideale sin dagli anni giovanili, poi costantemente frequentato a casa Laterza a Bari – e Piero Gobetti, alla cui «Rivoluzione liberale», com’è noto, egli affidò nel 1925 le prime quattro Lettere pugliesi, cui seguirono le ultime due l’anno seguente sulle pagine protestanti di «Conscientia», dopo che il giovane liberale torinese era morto in seguito a un’aggressione fascista e la sua rivista era stata chiusa d’imperio. Quest’opera fonda il modello letterario più consono all’“utopista concreto”, quello del reportage, dell’analisi condotta attraverso l’osservazione empirica della realtà e, nello specifico, delle sovrastrutture organizzative e antropologiche e dei bisogni materiali: che si tratti di rivelare le condizioni di vita in Puglia, collocando la questione meridionale al centro del dibattito nazionale, o, più tardi, di prendere coscienza degli stili di vita e dei livelli di democrazia dei Paesi oltre cortina, l’inchiesta elaborata in forma odeporica sarà il genere prediletto dall’intellettuale murgiano.
Ma gli anni Trenta sono quelli in cui l’attività politica e quella giornalistica saranno interdette a Fiore, lasciandogli come soli spazi di esercizio intellettuale gli studi e l’insegnamento. Egli da diversi anni insegna lettere italiane, latine e greche nei licei di Bari e provincia, e non di rado veicola la sua critica politica attraverso gli studi latinistici, come nei sei contributi su Virgilio apparsi fra il 1928 e il 1939. Notevole è soprattutto, nella Commemorazione di Virgilio del 1930 per il bimillenario della nascita del poeta, la raffigurazione di Ottaviano Augusto come usurpatore delle prerogative repubblicane e fondatore di un regime personale spregiudicato: una lettura eterodossa rispetto a quella proposta da quasi tutti gli studiosi del tempo, che interpretano placidamente le pressioni celebrative e cortigiane che provengono dal Partito nazionale fascista, insinuando, dietro la filigrana del primo imperatore, l’allusione al destino “glorioso” del Duce[12]. Colpito più volte da provvedimenti vessatori di sospensione dall’insegnamento e infine arrestato, per il ruolo ricoperto nella fondazione del Partito d’azione, Fiore torna alle matrici del pensiero utopico durante il confino di Ventotene, Quadri e Orsogna del 1942 e la carcerazione a Bari del 1943, allorché si dedica alla traduzione e al commento prima dell’Utopia di Thomas More, poi dell’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam.
Vi è qualcosa di eroico in questa ostinata ricerca delle radici filosofiche, storiche e letterarie dell’azione politica, da cui evidentemente l’intellettuale pugliese spera di attingere sempre nuova linfa per le sue speranze di riscatto antifascista, in maniera analoga, ancorché per un periodo di tempo più limitato, a quanto si era indotto a fare Gramsci sin dai primi giorni della sua detenzione. Dall’umanista inglese Fiore ricava l’idea che nella «terra felice» di «Utopia si realizza pienamente l’ideale dell’uomo, la virtù, la vita dello spirito, la libertà, la cultura», concetti che anche nell’«umanesimo erasmiano» erano posti alla base della «felicità della vita»; e nelle medesime pagine introduttive alla traduzione è contenuto forse il primo cenno di indulgenza nei confronti della nozione di «comunismo» (sia pur nell’accezione utopica che era propria del trattato rinascimentale), il quale per Fiore, non può essere attenuato nell’ambito del discorso di More («come dentro una sala di nudi procaci») ed è anzi ritenuto l’aspetto centrale di quel modello di costituzione repubblicana, poiché «dove c’è la proprietà privata, dovunque si commisura una cosa col danaro, non è possibile che tutto si faccia con giustizia e tutto fiorisca, per lo Stato».[13] È ragionevole immaginare che questa rilettura “militante” dell’opera rinascimentale inglese fosse orientata dal rinnovato impegno del professore nella fondazione del Partito d’azione di cui stende nell’agosto del 1939 “I tredici punti di via Simeto” e nell’aprile del 1940 il “Decalogo liberalsocialista” che servono a Guido Calogero per redigere nel 1940 e nel 1941 rispettivamente il Primo e il Secondo manifesto del liberalsocialismo.[14]
Già in quegli appunti programmatici del ’39 e del ’40 si notano gli insopprimibili accenti socialisti con cui egli corregge la «religione della libertà» che aveva appreso da Croce[15] e che Fiore colloca come fine dell’insegnamento scolastico. La società immaginata dall’altamurano supera e si lascia alle spalle lo stato liberale, che limita la libertà entro i confini giuridici, mentre il nuovo ordine dovrà allargare questi ultimi fino a comprendere gli spazi dell’economia e della conoscenza. Ed è su questo fronte che si qualifica l’impostazione socialista del sogno di Fiore, giacché il nuovo Stato è immaginato come compenetrazione di libertà d’impresa e risparmio, di nazionalizzazione e redistribuzione delle proprietà improduttive e parassitarie, di smantellamento dei monopoli statali e di partecipazione dei lavoratori sia alla gestione sia agli utili delle imprese, fino a segnalare la necessità di una prevenzione degli infortuni operai, con diversi decenni di anticipo rispetto alle più moderne normative in materia di medicina del lavoro. Ugualmente innovativa in quegli appunti fioriani è l’affermazione della laicità dello Stato, non solo perché essa pone le basi della relativizzazione degli articoli portanti dei Patti Lateranensi (letti come istituto tipicamente fascista), ma anche perché per la prima volta compare l’equiparazione al cattolicesimo di tutte le altre confessioni religiose, attraverso la declinazione al plurale dell’antica formula liberale ottocentesca: «Libere Chiese nello stato secondo libertà».
Ancorché nel successivo Vademecum liberalsocialista del Partito d’azione, steso nell’aprile del 1942, si possa ipotizzare che l’uso dell’espressione «vecchio socialismo», in luogo di «comunismo», prepari la rilettura del marxismo in una prospettiva meno severa che in passato, va ricordato che all’altezza di quegli anni il giudizio nei confronti della «dittatura del proletariato» è ancora drastico, in ragione delle responsabilità che cadono su di essa, opposte e speculari ai limiti dello stato liberale: quanto questo si concentra solo sul piano dei diritti individuali, il comunismo concepirebbe giustizia e libertà sociali «sotto la specie di economia», trascurando la «vita morale», come se la piena realizzazione del popolo possa darsi attraverso «un rapporto meramente economico e quindi meccanico».[16] L’egualitarismo dovrebbe, dunque, trovare un contrappeso nel riconoscimento della persona e nella valorizzazione degli individui, uguali nelle «possibilità iniziali», ma liberi nell’affermazione del «proprio valore particolare».[17] Gli accenti di queste pagine devono intendersi nel quadro del rispetto dell’impianto liberale su cui il Partito d’azione ha stabilito di poggiarsi, quale livello più avanzato della mediazione fra le diverse anime che gli avevano dato vita.
Sono i medesimi accenti che si leggono nell’ampio discorso che il professore tenne in un’occasione specialissima e di grande rilievo storico: mi riferisco al Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale che si tenne al Teatro Piccinni di Bari il 28 e il 29 gennaio 1944, ai cui lavori Fiore prese parte nelle vesti ufficiali di delegato del Partito d’azione, leggendo il pomeriggio del primo giorno una relazione quasi interamente dedicata all’analisi e alla condanna delle responsabilità della corona sabauda nell’ascesa di Mussolini, nel silenzio sulle persecuzioni nei confronti degli oppositori e, infine, nell’irresponsabile consegna del governo, dopo il 25 luglio 1943, al generale Badoglio. Il tono di Fiore è furente, tanto che in più punti definisce il governo insediato a Brindisi «larve semoventi», «sciocchi prigionieri del fascismo», «vuote ombre» funzionali a «un dominio clerico militare, reazionario e conformista», «più detestabile del fascismo per la sua ipocrisia», mentre il re è definito «fascista» senz’altro;[18] commosso è, invece, il ricordo dei grandi martiri delle repressioni squadristiche e poliziesche (con Gramsci che viene ricordato accanto a don Minzoni, Amendola e Matteotti, quasi che il relatore voglia sottolineare che ogni tradizione politica abbia pagato al fascismo il proprio tributo di vite), ma per il nostro ragionamento risulta più interessante il finale che appare tutto intessuto di temi della tradizione utopica:
Le nostre concezioni politiche – scrive l’altamurano – sono quelle della tradizione italiana che nel Settecento si arricchì dell’ispirazione liberale inglese e nell’Ottocento di quella francese ed europea, in modo analogo a ciò che è avvenuto per la democrazia degli Stati Uniti. […] sarà spazzata via ogni bruttura dalle città, tolto dalla pratica lo spirito di minacce, in alto come in basso, ridotti i cittadini ad uomini civili, la vita pubblica a discussioni, a decisioni di esperte maggioranze, […] i generali a sottomissione al potere civile, il governo a rispetto della legge, gli uomini politici a senso di responsabilità, la scuola a palestre di libere intelligenze, i servizi pubblici al rispetto del pubblico.[19]
Ritroviamo in queste righe le aspirazioni palingenetiche che avevano nutrito i libelli fioriani della prima guerra mondiale, ora come allora sorrette dalla fiducia che la guerra (la prima nel suo stesso svolgersi, la seconda nel suo ripudio) rappresenti una cesura nella decadenza del tempo storico e il ripristino, se non proprio di un’età dell’innocenza (troppo disincantato doveva essere colui che aveva commentato la iv Egloga di Virgilio), almeno di un ordine giusto e armonico.
Terza utopia: il social-comunismo
Tuttavia il chiaro e inappellabile fallimento elettorale del Partito d’azione, verso il quale, già qualche giorno prima delle elezioni del 1946, Fiore aveva manifestato qualche perplessità a causa dell’emarginazione delle posizioni socialiste, a vantaggio di quelle più moderate e liberali, conduce il nostro autore a una svolta forse sofferta, ma sorprendente e non sufficientemente sottolineata nelle biografie e nella storiografia politica: preso atto che nella dialettica postfascista e repubblicana non ha più senso il progetto di un partito unitario delle forze democratiche e che i nuovi equilibri sarebbero scaturiti dal confronto fra le grandi formazioni di massa – le sole in grado di trasformarsi in tradizioni e di rappresentare gli interessi generali del Paese – Fiore non solo aderisce al Partito socialista italiano, ma sposa in pieno (e fino ai suoi ultimi giorni) la causa della convergenza con quel Partito comunista che fino a pochi mesi prima era apparso l’unico soggetto non assimilabile né al socialismo liberale degli anni Trenta, né tantomeno al successivo liberalsocialismo. Probabilmente la prova di responsabilità democratica che il partito di Togliatti aveva dato durante i lavori della Costituente ha il suo peso nello spostamento di Fiore su posizioni moderatamente marxiste, che sorprendentemente sovvertono l’ordine abituale di estremismo e moderatismo in ragione dell’età.
Se, infatti, nelle biografie di molti leader è dato cogliere una transizione dal ribellismo (tipico della costruzione della propria immagine come puer, promotore di un rinnovamento radicale) alla moderazione (connotata da quelle doti di persuasione, realismo e compromesso, che il senex offre come proprie credenziali), il Fiore degli anni Cinquanta-Sessanta ci appare come un utopista che ritrova un sogno a lungo represso entro le maglie del tatticismo e del prudente lavorio organizzativo, al fianco dei liberali e degli azionisti. Mi si potrebbe obiettare che anche la scelta del polo social-comunista si attagli al paradigma del senex, al realismo tattico del politico che scommette sulla più ampia alleanza possibile al fine di una futura vittoria elettorale, se non fosse che già le elezioni del 18 aprile 1948 non avevano affatto premiato il Fronte popolare e che l’alleanza fra i due partiti marxisti era tutt’altro che accompagnata da pronostici favorevoli: e infatti non si realizzò più e rimase un sogno di pochi. Credo piuttosto che il grande meridionalista, nella consueta oscillazione fra idealismo e pragmatismo, come negli anni Venti aveva verificato l’utilità del federalismo cattaneano attraverso i suoi viaggi pugliesi (che ora vedono una fortunata edizione in volume col titolo di Un popolo di formiche), così negli anni Cinquanta sente l’urgenza dell’emancipazione economica, sociale e culturale del Mezzogiorno che versa in condizioni di ritardo rispetto all’Europa industrializzata e che solo un possente investimento politico e un nuovo ordine valoriale a favore delle masse dei braccianti e dei sottoproletari urbani potrebbe risollevare.
La visione dolente, ma in fondo ancora “mitologicamente” positiva dei contadini pugliesi come laboriosi costruttori del proprio destino (come formiche, appunto), lascia il posto nel 1955 a quella del Cafone all’inferno, in cui le politiche di riforma agraria e le strategie di urbanizzazione vengono descritte come un fallimento e stigmatizzate secondo un’ottica di classe. Non più, infatti, l’ordinamento istituzionale, la forma del governo e della distribuzione dei poteri sono ritenuti responsabili della miseria e dell’inefficienza amministrativa del Sud, ma l’egoismo innato della classe borghese, nonché il paternalismo della gestione democristiana che non consente l’attivazione della coscienza di classe, con la conseguenza di strangolare il protagonismo delle masse proletarie, lasciate ai margini dei processi economici e politici. Addirittura il rapporto fra padronato agrario e masse bracciantili è definito «schiavitù senz’altro, sotto forme di sedicente libertà»,[20] in connessione genealogica diretta non solo con le strutture del latifondo otto-novecentesco (borbonico prima, fascista poi), ma persino con quelle delle signorie spagnole seicentesche.
È a partire da questo risentimento che deve spiegarsi il messaggio consegnato al libro più significativo dell’ultimo Fiore, Al paese di Utopia, diario del viaggio compiuto in Unione Sovietica nel luglio-agosto del 1957 (in occasione del VI Festival della Gioventù), pubblicato a Bari l’anno seguente. Lontanissimi i toni irrazionalistici, astratti e profetici di Eroe svegliato asceta perfetto, l’intellettuale altamurano torna a disegnare la sua utopia politica, ma lo fa questa volta in forza di un convincimento concreto: quello per cui la Russia comunista si propone, col nuovo corso post-staliniano, come la più avanzata realizzazione di un ordine socialmente, economicamente e giuridicamente giusto. Il nesso fra la riflessione meridionalistica e l’‘esplorazione’ dell’Est socialista (iniziata nel 1953 col viaggio in Polonia e chiusa nel 1960 con quello in Albania) viene chiarito nelle prime pagine del reportage, che paiono una prosecuzione diretta del Cafone all’inferno, poiché, a distanza di due anni, l’autore riporta le impressioni suscitate da una nuova visita nell’entroterra pugliese e lucano, in cui i sogni di riscatto sono vanificati soprattutto dalle relazioni illecite fra il potere politico e il padronato, che costringono le masse operaie allo sfruttamento e al silenzio. Il viaggio in Unione sovietica è presentato, dunque, come necessario per verificare la sostenibilità di un mondo diverso, come buona pratica della conoscenza empirica, a vegliare sulla quale Fiore chiama un giovane nume tutelare (forse il puer per eccellenza della letteratura civile del Novecento italiano), Pier Paolo Pasolini, del quale vengono riportati i primi cinque versi del Pianto della scavatrice: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più». Si tratta di una meravigliosa dichiarazione d’intenti che sancisce definitivamente che l’attendibilità del sogno politico si misura sul piano della realtà (come la trincea prima, l’amministrazione e l’insegnamento poi, e infine il viaggio gli hanno insegnato), al punto che Fiore può chiosare subito dopo con le proprie parole: «Oh conoscenza, fiore dell’anima! Oh amore vivificante di cose lontane! Per tornar alla mia terra faccio questo giro così lungo, proprio per questo».[21]
In queste righe le «cose lontane» sono l’espressione lirica e indefinita dell’utopia da inseguire, che si inaridirebbe se non fosse “vivificata” da quella pratica sublime dell’«amore» che è la «conoscenza». Questi presupposti gli suggeriscono un’esperienza gnoseologica di tipo “galileiano”, a partire dall’elaborazione di un’ipotesi («Scoprirò un mondo migliore, certo. […] Sarà una testimonianza, almeno obiettivamente veridica»), rispetto alla quale il viaggio si costituisce come un processo sperimentale condotto per «quadri», campionature degli aspetti fondamentali dell’organizzazione sociale, lavorativa e scolastica sovietiche, in cui forte rilievo simbolico ricopre la facoltà principe delle scienze “dure”: la vista,[22] intimamente legata alle nozioni di testimonianza e di narrazione; si rammenti, infatti, che le voci greche ístor (testimone) e istoricós (storico) condividono la radice id- del verbo “vedere”. Certo lo scrittore pugliese non si nasconde il limite principale del socialismo reale, ovvero l’assenza di libertà politica, di cui il centralismo dirigistico del Comitato Centrale del partito è il vertice piramidale da cui emanano tutte le sovrastrutture burocratiche del Paese.
Su questo Fiore si aspetta che il timido riformismo annunciato nel XX Congresso del Pcus del 24-25 febbraio 1956 non solo trovi corrispondenza nella realtà, ma si dispieghi in forme molto più ampie, avvicinandosi alla democrazia di tipo occidentale. Però apprezza il professore che non via sia più traccia (o così gli pare) del «caporalismo», vale a dire del controllo poliziesco dei comportamenti dei cittadini e degli stranieri, né le città appaiono militarizzate come riportavano i resoconti di viaggio di età staliniana.[23] Tutto pare ora ricreato per far sentire ognuno, anche gli ospiti italiani, a casa propria, se non addirittura in un luogo del mondo di gran lunga «migliore», come apparirebbe dall’analisi dei livelli di istruzione e di educazione di massa, a cui Fiore presta massima attenzione, anche in considerazione della sua precedente esperienza di Provveditore agli Studi per la provincia di Bari, dal 1944 al 1948; a colpirlo, ad esempio, è l’articolata presenza di biblioteche anche nei parchi, talvolta con sale specializzate per età, nonché il carattere monumentale degli edifici universitari che intendono enfatizzare il carattere centrale che la Russia socialista assegna alla formazione e alla ricerca nella costruzione di un nuovo orizzonte di vita associata.[24] Il credito concesso dal viaggiatore alla destalinizzazione avviata dal segretario Chruščëv lo porta a valutare con indulgenza e realismo – ma non con cecità – anche la spinosa recente questione dell’invasione di Budapest, non inibendolo nel porre in proposito ficcanti domande ai suoi interlocutori russi, ma anche trovandolo disposto a distinguere fra un’errata e antidemocratica prima spedizione (quella di ottobre che aveva provocato la caduta del presidente Nagy) e una seconda inevitabile e giustificata (quella di novembre diretta contro il pericolo di un colpo di stato fascista).[25]
Al termine della sua visita nel grande Paese orientale, Fiore non ha dubbi: quello che ha visitato è il «paese di Utopia», l’inveramento di quel «regno» che aveva sognato in gioventù, tale da meravigliare e persuadere addirittura «il 98%» dei componenti della delegazione, forse «soprattutto i cattolici», lasciando perplessi o risolutamente contrari i «soli liberali puri». «Qui nell’Urss – prosegue l’autore – si vive il senso di una liberazione dai nostri inutili pesi, pregiudizi, servitù, paure […]. L’uguaglianza della donna all’uomo e il lavoro per tutti han creato un nuovo tipo di donna, attivo, indipendente, moralmente elevato, han trasformato la famiglia».
La pace e la libertà – non più il «liberalismo», che gli appare confinato in «un passato ormai del tutto sparito» – sono gli approdi ineludibili del popolo russo, al termine di «un’opera così grandiosa»[26] in favore dell’internazionalismo e dell’educazione di massa. Sicché all’ipotesi formulata in partenza e alla verifica odeporica non può che seguire l’elaborazione assertiva di una tesi finale, dettata a due giovani giornalisti di un settimanale comunista italiano, dalla testata essa pure implicitamente utopica, «Nuova generazione»: «Abbiamo avuto la fortuna di osservare con i nostri occhi un mondo veramente migliore, quale appena potevamo intravedere dall’Italia. Adesso l’abbiamo visto in azione».[27]
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[1] J. Hillman, Saggi sul puer, Cortina, Milano, 1988. Fa un uso molto intelligente degli archetipi del puer e del senex per la decodificazione di alcune importanti costruzioni delle leadership, in Italia e in Europa fra Otto e Novecento, un recente libro di A. Volpi, Miti di leadership, Mimesis, Milano-Udine, 2016.
[2] I tre diari della Grande Guerra (Uccidi, Eroe svegliato asceta perfetto e Alla giornata) furono pubblicati in ordine inverso alla loro stesura; la prima edizione di Eroe svegliato asceta perfetto apparve da Gobetti, Torino, 1924; qui si cita dalla seconda edizione, a cura di E. Panareo, Capone, Lecce, 1976, pp. 33-35.
[3] Ibid., p. 29.
[4] Atti degli apostoli, 2, 44-45: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno».
[5] Inf. i, 101-108: «[…] infin che ’l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. / Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro. / Di quella umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute».
[6] K. Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 22: «solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni»!
[7] T. Fiore, Eroe svegliato asceta perfetto, cit., p. 4.
[8] Ibid., pp. 4-5.
[9] Ibid., pp. 41-43: 42.
[10] Ibid., pp. 34-35.
[11] C. Cattaneo, Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, a cura di G. Salvemini, Treves, Milano, 1922, 19292; poi Garzanti, Milano, 1947; infine Donzelli, Roma, 1993.
[12] Un esempio contrario di interpretazione virgiliana moderatamente proclive alla retorica di regime, per rimanere in ambito pugliese, è il saggio di N. Zingarelli, Mamma Eneide, in Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, vol. LXIV, fasc. 1-5, Hoepli, Milano, 1931; poi in Id., Scritti di varia letteratura. Raccolti a cura degli amici in occasione del suo commiato dalla scuola, Hoepli, Milano, 1935, pp. 233-44.
[13] T. Moro, L’Utopia o la miglior forma di repubblica, trad. e intr. di T. Fiore, Editori Laterza, Bari, 1942; si cita dall’edizione 19663, pp. 7-16: 11.
[14] G. Calogero, „Primo manifesto del liberalsocialismo e Secondo manifesto del liberalsocialismo”, in Id., Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, nuova ed. a cura di M. Schiavone e D. Cofrancesco, Marzorati, Milano, 1972.
[15] Il concetto, com’è noto, percorre trasversalmente il capolavoro storiografico di B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Editori Laterza, Bari, 1932 e successive edizioni.
[16] T. Fiore, Vademecum liberalsocialista del Partito d’Azione, De Robertis, Putignano, 1945, pp. 10-12. In premessa (pp. 3-4) Fiore racconta come il libello fosse nato dall’esigenza di sintetizzare il Secondo manifesto del liberalsocialismo di Calogero (apparso troppo «elaborato» e «di scarso uso pratico», dopo la revisione di Fabrizio Canfora e Michele Cifarelli), in «forma catechistica», espressione che deriva dall’andamento didascalico del discorso, scandito da quarantaquattro domande. Il documento era stato appena concluso la notte fra il 6 e il 7 aprile 1942, allorché Fiore fu arrestato, non prima di riuscire a consegnarlo alla custodia della moglie.
[17] Ibid., p. 22.
[18] La relazione del prof. Fiore, in V.A. Leuzzi (a cura di), Bari 28 e 29 gennaio 1944. Il Primo Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale, Edizioni dal Sud, Bari, 2014, pp. 45-57: p. 54.
[19] Ibid., p. 57.
[20] T. Fiore, Il cafone all’inferno, Einaudi, Torino, 1955, p. 30.
[21] Id., Al paese di Utopia, Leonardo da Vinci, Bari, 1958; si cita, qui e più avanti, dall’edizione a cura di M. Caratozzolo, Stilo, Bari, 2015, pp. 78-79. Fiore doveva essere stato folgorato dall’incipit de Il pianto della scavatrice, poema apparso per la prima volta ne Le ceneri di Gramsci, per Garzanti, nel giugno 1957, cioè solo un mese prima della partenza per la Russia; ora la raccolta è ricompresa in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, contributi di F. Bandini e N. Naldini, A. Mondadori, Milano, 2009, vol. 1, pp. 773-867: 833.
[22] T. Fiore, Al paese di Utopia, cit., p. 80: «se gli occhi mi servono».
[23] Cfr. ibid., p. 190.
[24] Cfr., in particolare, ibid., pp. 168-72.
[25] Si vedano i passaggi ibid., pp. 183-84, 193, 224-25.
[26] Ibid., pp. 275-76.
[27] Ibid., p. 281.