Coordinated by Federico SOLLAZZO
Volume IV, Issue 4 (14), New Series, September – November 2016
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Trasformazione della teoria critica e questioni politiche:
un confronto tra Jürgen Habermas e Jacques Derrida
(Transformation of critical theory and political questions:
a comparison between Jürgen Habermas and Jacques Derrida)
Francesco GIACOMANTONIO
Abstract: The evolution of Critical Theory in the thought of Jürgen Habermas has important consequences for political questions, influencing the actual intellectual debate. This paper examines the main works and studies of Habermas about the epistemology of social sciences, the critique of late capitalist society, the public sphere and democracy, and proposes a comparison with the positions of Jacques Derrida, to have a better comprehension of this evolution.
Keywords: Critical Theory, Politics, Democracy, Epistemology, Modernity.
- La teoria critica di Habermas
È noto e acquisito da tempo che nella tradizione classica della teoria critica dei grandi maestri Theodor Adorno, Max Horkheimer e Herbert Marcuse, l’opera del loro “erede” Jürgen Habermas abbia impresso una svolta cruciale da un ambito antropologico sostanziale ad uno formale con implicazioni politiche assai rimarchevoli legate all’idea di una sfera pubblica iper-razionale. Risulta non facile individuare con esattezza il carattere di questa svolta, che si può inquadrare come una sorta di trasformazione, definizione che tuttavia non è del tutto lineare e priva di potenziali questioni critiche. In questa sede, si intende riesaminare questa svolta e valutarla con più attenzione grazie al confronto che Jacques Derrida ha sviluppato con Habermas proprio in riferimento alle questioni politiche che caratterizzano la società globale.
Cerchiamo in primo luogo di delineare la tipologia della teoria critica di Habermas e quali siano state le sue applicazioni al discorso politico. Naturalmente, la trattazione che qui sviluppiamo è volta a sintetizzare temi e concetti piuttosto complessi che sono sempre suscettibili di approfondimenti e precisazioni.
Essendosi formato nel contesto della Scuola di Francoforte,1 Habermas muove da una prospettiva sociologica critica della società tardo capitalista, toccando questioni epistemologiche trattate tra gli anni Sessanta e Settanta: infatti, i francofortesi avevano concepito per le scienze sociali, in ultima analisi, il compito di liberare gli individui, di permettere lo sviluppo di una società in cui ciascun individuo è autonomo e consapevole, di svelare le forme di oppressione e di dominio e di correggere, ove siano presenti, queste distorsioni, comprendendone origini e motivazioni profonde; se, invece, la riflessione su quel che sia la società perde di vista la distinzione tra istituzione e vita e cerca, per esempio, di risolvere il sociale nel naturale, essa non conduce uno sforzo di liberazione dalle costrizioni delle istituzioni.2 Lo studioso tedesco, allora, approfondisce il tema del rapporto tra scienze naturali e scienze sociali, per sviluppare una teoria finalizzata alla comprensione dei fenomeni sociali che superi il riduttivismo di tipo positivistico. Nel celebre dibattito su queste problematiche, svoltosi negli anni Sessanta tra dialettici (Adorno e appunto Habermas, suo allievo) e neopositivisti (Popper e Albert), Habermas rifiutava3 il realismo ingenuo del primo positivismo e l’induttivismo della tradizione empirista. Lo studioso tedesco, infatti, sostiene4 che ogni discorso scientifico parte necessariamente da presupposti teorici che non riproducono fatti in sé, ma dipendono dall’organizzazione della nostra esperienza rispetto a quello che egli chiama agire strumentale, cioè un agire determinato da situazioni particolari e orientato verso fini individuali, considerato dal sociologo come meramente “tecnico” e “non sociale”. A questo “agire strumentale” Habermas verrà contrapponendo l’“agire comunicativo”. Questa interpretazione critica della società del tardo-capitalismo5 è alla base della necessità di una dimensione di “razionalità sostanziale” da contrapporre a una “razionalità strumentale” di tipo tecnologico. In tal senso, egli esplicitamente condivide la tesi fondamentale espressa da Marcuse per cui «scienza e tecnica assumono oggi anche la funzione di legittimazioni del dominio».6 Habermas vuole, quindi, mostrare che esistono limiti a questa riduzione dell’organizzazione della nostra esperienza in un problema strumentale e che, anzi, la stessa soluzione di problemi tecnici presuppone non solo lo sviluppo delle forze produttive, ma anche lo sviluppo della coscienza sociale dei soggetti, ossia il primato della politica. Questo spiega perché egli, in questo contesto, conferisca grande importanza al ruolo giocato dall’opinione pubblica.7 Per evitare che il sistema-scienza diventi ideologico rispetto alla società, ossia per superare la tecnocrazia, Habermas propone un rapporto tra politici ed esperti-scienziati, in cui al posto di una separazione tra le funzioni dell’esperto e del politico, vi sia reciproca comunicazione critica.
È a questo punto che matura la svolta che allontana Habermas dalla tradizione classica della teoria critica, portandolo a un impianto di riflessione più strettamente formale. Nella riflessione habermasiana il punto cruciale diventa, negli anni Ottanta, il concetto-programma di una comunicazione senza limiti e non autoritaria. Tale concetto è alla base di quella che si può forse considerare l’opera maggiore di Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, in cui si delinea una situazione linguistica ideale propria di un modello di società in cui il consenso è prodotto in modo argomentato, con la partecipazione di tutti, senza distorsioni o condizionamenti esterni.8 La comunicazione, dunque, nella prospettiva habermasiana, non è soltanto un processo di comprensione e intesa; tramite essa, si costituiscono anche appartenenze e identità.9 In quest’orizzonte, il tema della crisi dell’agire politico, che caratterizza spesso il dibattito sulle società complesse, può essere affrontata e superata solo fondando la politica su una democrazia deliberativa, al cui interno la dimensione etica e quella normativa restino centrali e si ribadisca il valore permanente della “modernità” e delle sue idee ispiratrici (come la razionalità, il progresso, ecc.)10.
Il modello deliberativo di democrazia, si fonda su una concezione deliberativa della politica, ossia su un procedimento che crea una connessione tra trattative, discorsi di autochiarimento e discorsi di giustizia. La politica deliberativa punta a un superiore livello di intersoggettività sia nella forma istituzionalizzata dei dibattimenti parlamentari, sia nella rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche.11 Si tratta qui di una idea di democrazia che si distingue da quella delle tradizioni sia liberali che repubblicane. Nel modello liberale, il processo democratico ha un ruolo di intermediazione tra il potere dello Stato e la regolazione del mercato; nel modello repubblicano, invece, la politica non ha solo questa funzione di intermediazione, ma diventa costitutiva dell’intero processo di socializzazione. Per il modello repubblicano si tratta di rivitalizzare la sfera pubblica politica contro il privatismo civico. Diversamente, nel modello liberale, l’obiettivo è la «normazione costituzionale»12 di una società mercantile. Habermas sviluppa un modello democratico che cerca di superare i limiti sia di quello liberale che di quello repubblicano.
L’interpretazione della politica in chiave deliberativa determina l’idea habermasiana per cui il rapporto tra nazione, Stato di diritto e democrazia, sia teorizzabile in una versione comunicativa e non nella versione etno-nazionalistica.13 Habermas, infatti, conferisce al diritto nella società della modernità un ruolo fondamentale, poiché il diritto costituisce un meccanismo insostituibile di regolazione e coordinamento delle azioni delle società moderne e differenziate.14 Habermas, di conseguenza, pensa che il concetto di Staatsvolk (popolo) non vada considerato come una fattualità prepolitica, ma come il prodotto del contratto sociale e propone una specifica interpretazione, in chiave cosmopolitica, del rapporto tra lo Stato nazione e i processi della globalizzazione.15 Egli quindi ritiene che solidarietà dei cittadini si può costituire attraverso un patriottismo costituzionale, che indirizzi la fedeltà e l’obbedienza dei cittadini verso la nazione, intesa come comunità che si autodetermina16 attraverso le leggi e lo Stato, creando una nuova e più astratta forma di integrazione sociale. Nel complesso, il diritto è considerato il solo mezzo per salvaguardare la solidarietà e sviluppare la giustizia, ossia, appunto, è il solo mezzo che determini una cittadinanza democratica pluralistica che includa l’altro senza assimilarlo.17 Ne deriva, in ultima analisi, una particolare applicazione della teoria critica habermasiana anche alla questione del multiculturalismo.18 Come è noto, il fulcro del dibattito contemporaneo sul multiculturalismo risiede nella distinzione tra liberal e comunitaristi.19 Secondo le posizioni assimilabili al pensiero liberal, la politica si deve fondare sull’universalismo delle norme giuridiche, a prescindere dalla diversità culturale. Per i comunitaristi, invece, la politica si fonda sulla differenza dei valori etici. Nel primo modello esistono soltanto diritti giuridici, nel secondo, invece, esistono anche diritti culturali collettivi da far valere in sede politica. Anche rispetto a questo dibattito, Habermas sembra cercare una mediazione formale, per cui l’integrazione socio-politica dell’insieme dei cittadini nelle società complesse non dipenda da un consenso sostanziale sui valori, ma soltanto da un consenso sulle procedure relative alla legittima produzione giuridica e al legittimo uso del potere.
- Epistemologia e politica in Derrida
Sulle posizioni politiche habermasiane espresse nei decenni più recenti, come già accennato, il dibattito è stato sempre molto ampio e articolato. Tra i tanti confronti critici che si sono sviluppati, molto indicativo è quello con il post-strutturalismo, in particolare nelle formulazioni di Derrida, che permette interessanti valutazioni sia epistemologiche, sul senso delle teoria critica in Habermas, sia teorico-politiche, legate alle conseguenze del formalismo habermasiano su dimensioni politiche contemporaneee attinenti alla sfera pubblica, alla democrazia, alla sovranità, al diritto e al multiculturalismo.
Habermas e Derrida avevano dibattuto già negli anni Ottanta su questioni epistemologiche. Habermas, infatti, riteneva che l’impostazione teorica decostruzionistica di Derrida comportasse, in ultima analisi, l’estendere la sovranità della retorica sul territorio del logico.20 Habermas era orientato a pensare che Derrida presupponesse già nell’argomento ciò che vorrebbe dimostrare, ossia che ogni convenzione, che consente la ripetizione di azioni esemplari, non abbia soltanto carattere simbolico, ma, fin dal principio, anche fittizio. Nel post-strutturalismo di Derrida, ci sarebbe, in definitiva, una sorta di estetizzazione universale, mediante la quale la verità stessa è infine ridotta a effetto stilistico dell’articolazione discorsiva.21 Tuttavia, questi assunti non sono stati accolti da Derrida, che ha, infatti, esplicitamente replicato22 che la decostruzione che egli ha praticato è sempre stata estranea al retoricismo (quest’ultimo considerato, dal filosofo francese, un’altra forma di logocentrismo). Egli rilancia e riversa l’accusa di irresponsabilità e oscurantismo: sono i filosofi e teorici della comunicazione, del dialogo, del consenso, dell’univocità o della trasparenza, a dispensarsi dalla volontà di ascoltare e comprendere l’altro, mentre la decostruzione è da lui intesa come una nuova forma di Illuminismo. In questa concezione, ogni comunicazione, anche la più banale e quotidiana, dissemina da sé un residuo ineliminabile che non è propriamente detto, ma che pure ne costituisce essenzialmente la possibilità e la fisionomia. In definitiva, la decostruzione «non è una teoria postmoderna»,23 e non è «contro il senso»,24 piuttosto essa apre il senso, dal momento che essa eccede i limiti dell’interpretazione e dell’ermeneutica filosofica in direzione di una pratica di scrittura che trasforma le cose a più livelli. In uno dei suoi primi e più noti testi, Derrida, assai emblematicamente, afferma: «Il senso deve attendere di essere detto o scritto per abitare se stesso e diventare quello che è differendo da sé: il senso».25
Su queste basi epistemologiche Derrida ha fornito, sostanzialmente a partire dagli anni Novanta, una analisi delle categorie filosofico-politiche26 che hanno maggiore rilevanza rispetto all’evoluzione della società tardo moderna. Il filosofo francese mette in discussione il rapporto tra Stato e politica e si sforza di ripensarlo, fornendo così un contraltare alla teoria habermasiana. Infatti, l’obiettivo della decostruzione è di smontare ogni tipo di discorso in quanto costruzione: ciò che è decostruito è la maniera in cui idee, credenze e valori sono sistemati all’interno di uno schema. Se, per Habermas, come in genere è per le scienze politiche contemporanee, la democrazia è considerata come un punto di approdo imprescindibile per una autentica società libera, per Derrida, quello della democrazia è un concetto meno lineare e più articolato di quanto si possa ritenere. Di fronte all’estensione, nella tarda modernità, del modello politico democratico, nella prospettiva del filosofo francese la radice della democrazia (intesa, va precisato con attenzione, come democrazia a venire27, non ancora realizzata) andrebbe individuata in «un’alterità senza differenza gerarchica»28, ossia richiederebbe una forma di uguaglianza che si sottrae allo schema tipico della società occidentale e della sua tradizione che si fonda sul razionalismo, sulla preminenza dell’elemento maschile, dell’autoctonia, della nascita e della nazione.
Il discorso derrideano, in ultima analisi, va al di là della tradizione segnico-simbolica e filosofico-politica dell’occidente, cui invece Habermas resta fedele. La democrazia appare come una forza che oscilla tra le dimensioni dell’uguaglianza e della libertà,29 poiché la democrazia non è né un regime, né una costituzione in senso stretto, come testimonia la pluralità di concretizzazioni in forme politiche differenti del concetto di democrazia: democrazia parlamentare, monarchica, popolare, diretta, indiretta, liberale, autoritaria, socialista, ecc. Pertanto, il concetto di democrazia, da una parte, si lega alla sovranità statale-nazionale, all’autoctonia, al diritto di cittadinanza per nascita. D’altra parte, si lega pure, e qui sta il suo rinvio, al cosmopolitismo e al suo al di là, all’avvenire del diritto internazionale e alla distinzione tra Stati legittimi e Stati “canaglia”.30
Questo concetto di “democrazia a venire” assume alcune implicazioni rilevanti in chiave giuridico-politica che pongono evidentemente in discussione la prospettiva di Habermas sul diritto. La giustizia, nell’analisi di Derrida,31 non ha una sede, non può essere circoscritta all’interno di una qualsiasi delimitazione spazio-temporale, tant’è che essa si realizza con l’atto finale, con il nome di chi emette la sentenza. La giustizia come diritto non è giustizia, le leggi non sono giuste in quanto leggi, non si obbedisce loro perché sono giuste ma perché hanno autorità e l’autorità delle leggi si fonda esclusivamente sul credito che si accorda loro. Il percorso di lettura derridiano, insomma, spingendosi fino al limite in cui la fondazione del giuridico-politico è sospesa sull’abisso dell’anomia, mette in luce l’essenziale decostruttibilità del diritto e di ogni assetto istituzionale. Ne risulta influenzato, quindi, il modo in cui valutare concetti come decisione, fondazione e limite della sovranità. La decisione giurisdizionale, infatti, appare al contempo normale e d’eccezione, perché se, da una parte, si ispira a una norma di riferimento, dall’altra, nel momento in cui pone in essere tale norma, la interpreta e la adatta al caso specifico. A sua volta, il momento della fondazione di uno Stato non può essere pensato come un’origine pura, poiché esso eccede la norma che lo fonda. Tutte queste ipotesi teoriche si richiamano evidentemente alla dottrina densa e controversa del filosofo del diritto Carl Schmitt, che aveva compreso lo sconvolgimento del campo storico, dello spazio politico, delle frontiere dei concetti e dei Paesi, dell’assiomatica del diritto europeo, dei legami tra tecnica e politica. In conseguenza di ciò, Derrida ritiene quindi che sia sempre più difficile continuare a pensare che la politica coincida con la dimensione dello Stato, che sia legata irrimediabilmente alla territorialità, a una comunità nazionale, poiché «è proprio questo che oggi viene a essere dislocato e che delocalizzato, in particolare in relazione alle trasformazioni tecnico-scientifiche e tecnico-economiche della scena mondiale».32
In tale ottica, valutando con attenzione, il pensiero di Derrida appare più illuminista di quanto una diffusa vulgata intellettuale, soprattutto negli anni Ottanta, sia portata a ritenere. Secondo Derrida, molti dei principi ai quali la filosofia occidentale ha attribuito validità universale, impongono in realtà una serie di valori che avvantaggiano alcuni e portano svantaggi ad altri, a seconda del contesto. Demarcare i confini storici di tali principi è la premessa necessaria e imprescindibile per poter perseguire l’ideale illuministico di giustizia e libertà per tutti. L’approccio derridiano alla politica, però, implica la messa in discussione del significato e della portata dei contenuti di questo ideale: per Derrida giustizia e libertà richiedono un senso di responsabilità incondizionata davanti all’altro e alla sua differenza.33 È nel momento in cui Derrida accentua la sua attenzione sul valore pratico e giuridico della filosofia che egli toglie il decostruzionismo alla sua aura poetizzante, mettendo in chiaro il ruolo delle istituzioni nella costruzione delle teorie.34
Il discorso di Derrida si può considerare una risposta alla domanda di senso, autonomia soggettiva e giustificazione morale che emerge con prepotenza dal pluralismo culturale delle società complesse, ossia, a questioni analoghe a quelle cui si rivolge Habermas, senza però l’impostazione normativa e formale del sociologo tedesco.
- Considerazioni finali
La teoria critica nella formulazione habermasiana, soprattutto rispetto alle implicazioni politiche che essa comporta, come si è visto, si costituisce su una speculazione non più nella stessa linea dei maestri Adorno e Horkheimer: Habermas porta la teoria critica ad avvicinarsi al mondo delle istituzioni politiche che, generalmente, nella prospettiva adorniana e horkheimeriana erano guardate con una certa diffidenza. È difatti indicativo che la sociologia di Habermas sia progressivamente scivolata in una filosofia politica (e una filosofia del diritto) sistematica, cosa che invece non sembra potersi riscontrare in Horkheimer, Adorno. Per quanto Habermas sia ritenuto il capofila della seconda generazione della Scuola di Francoforte, ovvero il prosecutore con altri mezzi dell’impresa scientifica della teoria critica,35 di fatto, il rapporto di Habermas con Horkheimer e Adorno (come quello con altri esponenti del pensiero politico, filosofico e sociologico occidentale), si caratterizza attraverso una complessa strategia di assimilazione critica, che porta Habermas a sempre a rielaborare le loro teorie; va peraltro segnalato che, in un certo senso, Horkheimer stesso squalificasse Habermas come proprio erede: scrivendo ad Adorno, esprimeva un giudizio fortemente critico36 su Habermas, tacciandolo di inattendibilità teoretica, di modalità dilettantesche e non di rado irresponsabili, nel trattare il materiale empirico e, in generale, di conservare un legame troppo stretto con l’opera del giovane Marx.
Le ermeneutiche di Derrida ci permettono di cogliere come il modo habermasiano di trattare pensiero critico, diritto, sovranità, Stato, democrazia, cultura politica e sfera pubblica sembri non tener conto di alcune aporie del mondo contemporaneo e della modernità stessa. È tuttavia interessante notare che sebbene le epistemologie di fondo di Habermas e Derrida abbiano una diversa impostazione, esse conservino un rapporto profondo con l’Illuminismo e forse è per questo che le finalità del loro pensiero politico sono risultate sorprendentemente convergenti su alcune questioni fondamentali della politica degli anni Duemila: l’idea di Europa, la visone cosmopolitica, l’apertura della sfera pubblica, sono tutti temi cruciali su cui i due grandi studiosi sono stati vicini.
Dunque, la prospettiva di Habermas, anche alla luce delle teorie di Derrida, si può considerare una trasformazione della teoria critica, che non può più essere quella di Adorno e Horkheimer e che in qualche modo cerca tuttavia di adattarsi a un mondo post-ideologico e globalizzato: in questo, forse, perde il mordente dei maestri perché scivola in una connotazione a volte troppo normativa. In tal senso, l’eredità della Scuola di Francoforte in Habermas resta qualcosa di problematico e per questo molti critici non riescono più a vedere in Habermas, dal punto di vista politico, una continuità con quel pensiero. In definitiva, è oggi difficile capire quale studioso possa raccogliere del tutto quella difficile eredità e, soprattutto, se la cultura politica contemporanea osi ancora pensare di inscriversi in quella eredità o, quantomeno, desideri ancora averci a che fare.
Note
1 Per un riferimento generale sulla Scuola di Francoforte, si rimanda al ricchissimo R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte. Storia, sviluppo storico, significato politico, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. Per un primo confronto tra Habermas e i classici della teoria critica, cfr. F. Giacomantonio, R. D’Alessandro, Nostalgie francofortesi, Mimesis, Milano, 2013.
2 Cfr. M. Horkheimer, T. W. Adorno (cura) Lezioni di sociologia, Einaudi,Torino, 1966, p. 36.
3 Cfr. T. W. Adorno, K. R Popper, R. Dahrendorf, J. Habermas, H. Albert, H. Pilot, Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino, 1972, p. 257.
4 Idem, Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari, 1990.
5 Idem, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari, 1978, e Id., La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari, 1975.
6 Idem, Tecnica e scienza come ideologia, in Id., Teoria e prassi nella società tecnologica, cit., p. 214.
7 Proprio all’opinione pubblica, non a caso, Habermas dedica i propri studi iniziali: cfr., tra i più noti, J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1977.
8 Idem, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., Il Mulino, Bologna, 1997. Si veda anche il più recente Id., La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma-Bari, 2007.
9 Ibidem, Teoria dell’agire comunicativo, cit., vol. II, p. 732.
10 Idem., Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 2003. Indicativi possono anche considerarsi: Id., Testi filosofici e contesti storici, Laterza, Roma-Bari, 1993 e Id., Profili politico filosofici, Guerini e Associati, Milano, 2000.
11 Cfr. A. Ferrara, Democrazia e giustizia nelle società complesse: per una lettura di Habermas, in “Filosofia e questioni pubbliche”, n. 1, 1996, pp. 67-117, in particolare pp. 99-112.
12 Ibidem, p. 352.
13 Cfr. in particolare J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998.
14 Cfr. S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari, 2000, specialmente p. 142.
15 Cfr. J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano, 1999.
16 Cfr. per approfondire criticamente il concetto: P. Markell, Making Affect Safe for Democracy? On “Costitutional Patriotism”, in “Political Theory”, vol. 28, n. 1, 2000, pp. 38-63.
17 Cfr. J. Habermas, Solidarietà fra estranei, Guerini e Associati, Milano, 1997.
18 Idem, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998.
19 Per una panoramica si veda A. Ferrara (cura), Comunitarismo e Liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 2000.
20 Cfr. J. Habermas, Il sopravanzamento della filosofia temporalizzata dell’originario: la critica di Derrida al fonocentrismo, in Id., Il discorso filosofico della modernità, cit.
21 Cfr. S. Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, Ponte alle Grazie, Milano, 2014, specialmente pp. 187-190. Žižek, riprendendo le critiche di Habermas a Derrida, afferma che la posizione da cui il decostruzionista assicura che non c’è alcun metalinguaggio, che nessun discorso può dire esattamente quello che intendeva dire, che il processo di enunciazione sovverte sempre il discorso, è la posizione del metalinguaggio nella sua forma più pura e radicale.
22 Cfr. J. Derrida, Verso un’etica della discussione, in Id., Limited Inc., Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 242, nota.
23 A. De Simone, “Oltre il possibile”. Hostis/Hospes: Jacques Derrida e la “democrazia a venire”, in Id., Dislocazioni del politico. Tra responsabilità e democrazia. Simmel, Weber, Habermas, Derrida, Morlacchi, Perugia, 2010, p. 157.
24 S. Regazzoni, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, Il Melangolo, Genova, 2006, p. 58.
25 J. Derrida, Forza e significazione, in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 2002, p. 14.
26 Ho cercato di approfondire questi aspetti in R. D’Alessandro, F. Giacomantonio, Post-strutturalismo e politica. Foucault, Deleuze, Derrida, Morlacchi, Perugia, 2015.
27 Questo concetto è rintracciabile anche in J. Derrida, Oggi l’Europa, Garzanti, Milano, 1991.
28 J. Derrida, «In lingua d’uomo, la fraternità», in Id., Politiche dell’amicizia , Cortina, Milano, 1995, p. 271.
29 Cfr. J. Derrida, Licenza e libertà: lo spregiudicato (rouè), in Id., Stati canaglia, Cortina, Milano, 2003.
30 Cfr. J. Derrida, Libertà, eguaglianza, fraternità, in Id., Stati canaglia, cit.
31 Cfr. J. Derrida, Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
32 Cfr. J. Derrida-E. Roudinesco, Lo spirito della rivoluzione, in Idd., Quale domani?, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 137.
33 Cfr. G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari, 2003, spec. p. 18.
34 Cfr. M. Ferraris, 1980- Oggetti sociali, in Id., Introduzione a Derrida, Laterza, Roma- Bari, 2003, spec. pp. 97-98.
35 Per un raffronto aggiornato tra la tradizione della teoria critica e il pensiero di Habermas, si rimanda a A. De Simone, Passaggio per Francoforte. Attraverso Habermas, Morlacchi, Perugia, 2011, pp. 147-160. Cfr. anche R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte, cit., 551-580.
36 Cfr. ancora A. De Simone, Passaggio per Francoforte, cit., p. 148, e R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte, cit., p. 568.
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