Coordonat de Laura MITAROTONDO & Teodora PRELIPCEAN
Volum V, Nr. 2 (16), Serie nouă, martie – mai 2017
Variazioni sull’utopia in Antonio Gramsci
(Variations on Antonio Gramsci’s utopia)
Silvio SUPPA
Abstract: This essay offers a plurality of views on utopia, contained in the works by Antonio Gramsci since his years in Turin until the Notebooks. Some variations of the term utopia are dealt with, in connection with the phases of our author’s intellectual biography as well as in the general framework of his theory’s critical form. Although lacking a permanent linear attention to the subject, Gramscian pages establish a sort of direct relationship utopia’s worth with the foundation of the aware and concrete will, indispensable to the political project of change. Even Machiavelli is comprised in a similar thread, represented as modern and definitive landing stage of political utopia.
Keywords: Abstraction, Change, Criticism, Conflict, Will.
Una breve premessa
Gli scritti di Antonio Gramsci coprono all’incirca poco più di più di un ventennio, dai primissimi interventi sicuramente suoi, del 1913, all’imminenza della Grande Guerra, per continuare poi fino quasi alla morte, sopraggiunta – com’è noto – nel 1937. Gli eventi che si susseguono in questo intenso arco di tempo, segnano profondamente la personalità del nostro autore, sia nel lavoro di direzione politica, sia nell’osservazione culturale e nell’attività editoriale e giornalistica. Più tardi, dopo l’arresto avvenuto nel 1926, nel pieno dei suoi più delicati ripensamenti politici, Gramsci comincia a dare forma a quel grande bagaglio ideale depositato nelle sue pagine carcerarie, divenuto alla fine del secondo conflitto mondiale un patrimonio di cultura sicuramente non ancora del tutto esplorato. Nella consistente mole delle note stese in reclusione, il concetto di utopia non occupa una posizione di prima evidenza, ma va ricostruito lungo percorsi da interrogare, al punto che difficilmente il Sardo può essere classificato come un vero e proprio autore dell’utopia. Ma questo tema nemmeno è riducibile, nei suoi scritti, a una ricorrenza spenta o secondaria; al contrario, l’argomento ritorna in una sua luce di pensiero, sia negli anni giovanili,
sia nei Quaderni. La parola “utopia” interviene, infatti, nelle scritture del dirigente socialista con accenti e valori diversi e con sfumature mai casuali, sempre ispirate a uno scrupoloso senso critico e a una tendenza alla polemica nello stile tipico di Gramsci, pungente – e talvolta irriverente – verso gli intellettuali che, a suo giudizio, sono finiti in uno spazio utopico, cioè separato dall’esperienza politica concreta e quindi astratto, lontano dalla storia reale del Paese e del mondo. Gramsci, insomma, non è autore che domandi al “non-luogo” la rappresentazione ideale di un sistema sociale equilibrato e “felice”, o ricco di vita armonica; né egli si rimette a quel genere di filosofia a metà fra speranza e illusione ingenua, necessariamente destinata a crollare di fronte alla durezza della società capitalistico-industriale moderna. Pur se, talvolta, negli interventi del nostro autore il richiamo dell’utopia può evocare una specie di “bisogno” di deontologia, o una sollecitazione di sapore etico, come se la spinta alla “società migliore” debba nascere nella solitudine della coscienza soggettiva prima ancora che nell’azione concreta, il modo in cui egli tocca una questione così delicata merita di essere considerato più da vicino. In un sistema concettuale dove l’iniziativa politica si compendi sempre con la cultura – come è nell’intero universo del Sardo – si può affermare che la ricerca dello Stato e della società ideali non trovi rilevante interesse; nell’orizzonte culturale di Gramsci, invece, non solo per la sua visione relativistica del progresso, ma anche per la costante distanza che egli mantiene da ogni idea di assoluto, il rapporto strettissimo fra storia e conflitti occupa una posizione centrale, assieme all’importanza della lotta di classe, nel modello teorico marxista che pone nei conflitti il fuoco inarrestabile della storia e della società. Tutto il pensiero del Sardo, senza che si possa parlare di lui come di un “filosofo”, non avrebbe alcun senso se rimanesse disgiunto dall’analisi degli urti intorno al potere e dall’utilizzo di un lessico da vera e propria “polemologia” politica, o scienza della contrapposizione. Sulla base di questi primi elementi, si può dire che Gramsci affidi al concetto di utopia una sorta di occasione di instancabile didattica civile, illuminata da una sensibilità filosofica che solo in parte rinvia alla letteratura italiana ed europea del Rinascimento maturo e della prima età barocca.[1] Nel nostro autore, peraltro, il tracciato dell’utopia convive con una robusta mentalità critica, attenta al rapporto fra lavoro e forme del potere, e alla rivalutazione della storia per domandare al passato la prima spiegazione del presente e del suo carico di contraddizioni sociali e culturali. L’esistenza di questa generale “domanda di conoscenza” accompagna l’incontro delle scritture gramsciane con l’utopia, con accezioni che possiamo precisare, e che dipendono sempre da una teoria dei conflitti.
Negli articoli giovanili di Gramsci, carichi di polemica contro la cultura borghese, l’utopia non è mai un argomento libresco, né tema per rinvii a pensatori antichi o di epoca successiva; una posizione di questo genere sarebbe poco probabile, se non impossibile, per un socialista profondamente attento alla città della fabbrica – Torino – e alla sua capacità di rappresentare la modernità concreta, priva di rapporti di armonia, specialmente se si pensa alla catastrofe degli inizi del XX secolo, fra morte della tradizione liberale e scontro militare nel mondo.
Fra “città futura” e utopia
Gli anni giovanili di Gramsci, che qui non verranno riesaminati in tutte le loro componenti di emozioni intellettuali e di suggestioni teoriche, danno vita a un affascinante caleidoscopio di immagini e di contenuti; ma accanto agli interventi giornalistici contro la guerra e contro le sue logiche di distruzione, emerge nel nostro autore un originale intreccio fra la prospettiva della “città futura” – conosciutissimo titolo del suo “numero unico” del 1917 – e l’utopia, termine espresso in modo inconfondibile, nella prosa di questo periodo fitto di giornalismo “socialista”. Città futura e utopia contribuiscono a disegnare un primo tracciato ideale, volto alla ricerca di un modello sociale alternativo, o alla trasformazione storica e alla critica della conoscenza ridotta a scientismo positivistico, chiave di ogni concezione passiva della politica e della stessa storia. In questo senso, la formula della città futura non è la prefigurazione di un luogo dotato di ordine “perfetto” – una specie di Repubblica platoniana da neofita. Al contrario, il ragionamento di Gramsci deriva dalla sua inquietudine, e offre sfumature concettuali differenti, oscillanti fra il desiderio astratto di un “mondo migliore” – ecco il fascino dell’utopia – e i reiterati appelli alla volontà concreta, risorsa soggettiva indispensabile per ogni impresa legata alla lotta politica e alla critica del potere costituito. Nel già richiamato La città futura, non viene offerto un modello alternativo di società, ma nasce quasi un gioco con le parole, che mette in campo due sfumature diverse dell’utopia. La prima si ispira a quel genere di azione politica, consapevole e impotente se non è sorretta dallo slancio volontaristico, che è un atto contemporaneamente utopistico e negatore dell’utopia. Perché questo tipo di contraddizione? Perché Gramsci punta a dotare le avanguardie – sociali e intellettuali – dei lavoratori, di una determinazione soggettiva, ma anche di una maggiore capacità di comprendere la qualità politica dei rapporti di produzione imposti dal sistema industriale avanzato. A tale altezza, se la volontà suscita immagini di utopia, la conoscenza razionalizza queste immagini e le sposta dal sogno all’azione e alla lotta consapevole. Scrive il Sardo, muovendo dalla critica della guerra, motivo comune a molti suoi interventi degli anni successivi al 1915: La guerra ha falciato i giovani, ha specialmente tolto alle loro fatiche, alle loro battaglie, ai loro sogni splendidi di utopia, che non era poi tale perché diventata stimolo di azione e di realizzazione, i giovani (sic).[2] Il valore di spinta appare il lato più dinamico dell’utopia, in un linguaggio coniato per suscitare e generalizzare il pensiero antagonistico e la lotta. Ma proprio in una trama di desiderio e di iniziativa, interviene la forza del “sogno”, comunque indispensabile per corroborare il desiderio di un nuovo inizio.
L’articolo immediatamente successivo, nel medesimo numero unico, quasi tiene a battesimo le capacità teoriche di un Gramsci ancora giovanissimo, e ci presenta un’affermazione molto più perentoria nel rigettare le costruzioni mentali troppo astratte e precostruite, e perciò non utili alla razionalità politica: Si voleva, con l’utopia, prospettare un assetto nel futuro che fosse ben coordinato, ben lisciato, e togliesse l’impressione del salto sul buio. Ma le costruzioni sociali utopistiche erano crollate tutte, perché essendo tutte così lisciate e assettatuzze, bastava dimostrarne infondato un particolare, per farle crollare nella loro totalità.[3] Lo schema respinto da Gramsci con il suo linguaggio spesso molto ironico, indica un certo tipo di pensiero liberal-borghese che punta a dimostrarsi fondato e oggettivo, tramite un impianto logico privo di effettivo fondamento, e mai messo a confronto con la storia reale. In tale atteggiamento mentale, il passaggio al socialismo diventa il “salto nel buio”, al quale la borghesia contrappone il valore della società già esistente, considerata come un sistema di ordine così completo e legittimo, da scongiurare l’opzione verso l’ “ignoto” e verso il cambiamento; il presente si fa “rifugio sociale”. Nell’analisi gramsciana della presunzione di stabilità del modello politico borghese, la vera utopia è, invece, spacciare il mondo attuale come il migliore possibile, e puntare alla conservazione inalterata degli equilibri di potere costituiti, negando persino l’ipotesi del cambiamento; qui la parola “utopia” esprime l’intenzione di stabilità “eterna”, esattamente il contrario, cioè, della tradizione letteraria e filosofica dell’utopismo. In un simile capovolgimento di senso, interviene il secondo significato che Gramsci attribuisce al termine oggetto delle sue pagine di giornale.
Negli anni in corso il nostro autore è profondamente impegnato nell’elaborazione di un sapere ideale specifico della classe operaia, pensato per dotare di qualità intellettuale il nuovo soggetto sociale, nello stesso tempo sollecitato a darsi una coscienza antagonistica e una volontà di azione organizzata, rivolta alla trasformazione dei rapporti politici dati. Nell’articolo Margini, sempre nel citato numero unico, si dispiega netto il collegamento fra crescita dello spirito alternativo e ipoteca sul futuro, affidata alla cultura innovativa di una classe inedita, nata con il capitalismo industriale e capace di misurarsi con la storia presente per condizionarne lo svolgimento: Accelerare l’avvenire. – scrive Gramsci – Questo è il bisogno più sentito nella massa socialista. Ma che cos’è l’avvenire? […] L’avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell’oggi come già avente modificato l’ambiente sociale. Pertanto accelerare l’avvenire significa due cose. Essere riusciti a far estendere questa volontà a un numero tale di uomini quanto si presume sia necessario per far diventare fruttuosa la volontà stessa. E questo sarebbe un progresso quantitativo. Oppure: essere riusciti a far diventare questa volontà talmente intensa nella minoranza attuale, che sia possibile l’equazione 1=1000000. E questo sarebbe un progresso qualitativo. Arroventare la propria anima e farne sprizzare miriadi di scintille. Ciò è necessario […].[4] L’immagine, non priva di dinamismo da giovane età, attribuisce alla volontà sfumature di sapore utopistico, per la forte incidenza di una sorta di attesa dell’obiettivo voluto, e anche per la formulazione di un punto di approdo finale, come una vittoria pensata senza scandire le fasi programmaticamente intermedie di qualsiasi progetto di trasformazione, secondo le regole di una razionale progettualità politica. In questa prospettiva, il ragionamento gramsciano, dettato dalla contrapposizione alla vergognosa guerra della borghesia liberale, fornisce più di un indizio per decifrare una certa variazione di accenti nel termine “utopia”, come effetto di differenti significati che via via si succedono. Ora, pertanto, si profila nelle pagine del Sardo un certo realismo critico, che nega al presente la qualità di mondo migliore, in contrasto con il pensiero borghese; altre volte, invece, prevale l’importanza della volontà arricchita dalla cultura, e proiettata sul nuovo soggetto sociale – la classe operaia – scaturito dalla crescita della fabbrica. Secondo Gramsci, la classe operaia è già inserita in un processo di crescita, ma non è ancora completamente consapevole della sua funzione di forza alternativa, intervenuta in un tornante difficile del Novecento. In uno scenario così movimentato, Gramsci non sembra rendersi conto del suo inclinare ora verso lo spazio della semplice speranza, sia pure idealmente “armata”, ora verso la visione di un futuro rivoluzionario; e qualche andamento ondeggiante resta visibile anche in altri brani interessanti. Se, infatti, si osserva un successivo articolo, intitolato proprio Utopia, [5] risalta evidente un punto di vista critico a tratti dotato di una vis polemica di tipo più pratico, da politica schierata. In questo articolo interviene Lenin nella veste di chi è accusato – dalla borghesia – di utopia, di chi è capo di un’esperienza impossibile, perché slegata dalla regola che vuole Le Costituzioni politiche […] necessariamente dipendenti dalla struttura economica, dalle forme di produzione e di scambio.[6] L’occasione è ottima perché il nostro autore respinga la concezione rigida, e quasi naturalistica, del rapporto fra struttura politico-costituzionale di un Paese, e sistemi economici di produzione. Si profila, qui, la questione del nesso fra politica e economia, impostata in termini semplici e tuttavia efficaci nel giovane Gramsci, pronto a rivendicare un’interpretazione non deterministica di questo nesso: Tra la premessa (struttura economica) – egli afferma – e la conseguenza (Costituzione politica) i rapporti sono tutt’altro che semplici e diretti: e la storia di un popolo non è documentata solo dai fatti economici. Lo snodarsi della causazione è complesso e imbrogliato, e a snodarlo non giova che lo studio approfondito e diffuso di tutte le attività spirituali e pratiche […].[7] Già in questi anni il vincolo semplice e automatico fra struttura e sovrastruttura è nettamente escluso da Gramsci, il quale, con una sorta di operazione culturale, riafferma l’autonomia delle forme costituzionali rispetto al modo di produzione, e conseguentemente ripristina la possibilità che Lenin, da un mondo di arretratezza e di miseria, possa derivare una pagina di avanzamento della storia, per la Russia e per il mondo. Il ragionamento serve a contestare l’accusa al capo della rivoluzione bolscevica, di essere un utopista, cioè un visionario o un semplice seguace di un indizio letterario; l’utopia, nell’articolo a essa intitolato, è esattamente ciò che non ha nessun luogo, e invece Lenin per il Sardo è nella storia e, al di là di ogni passione politica, ha cominciato a creare una nuova società e un nuovo Stato, cambiando radicalmente il passato di un popolo. Di fronte alla portata della rivoluzione in Russia, l’utopia attribuita ai bolscevichi – ridotti a inseguitori del nulla – nasce da un segno di sfiducia, se non da un insulto borghese, e comunque indica una negatività.[8] Il nostro autore precisa il suo punto di osservazione e riconduce dentro la nozione di utopia il significato della non esistenza, di ciò che non esiste; per la borghesia liberale è Lenin il campione di un atto utopico, di una “follia” non destinata a farsi realtà. Per Gramsci, invece, è la Russia costretta alla guerra la vera negatività, e la guerra in generale è una proposta senza valore, anzi è una proposta priva di ogni senso: La Russia in guerra era davvero il paese di utopia […] – egli scrive – La guerra era l’utopia, e la Russia czarista patriarcale si è sfasciata sotto l’altissima tensione dello sforzo impostosi e impostole dal nemico agguerrito.[9]Infine, per concludere l’argomento, almeno rispetto agli anni in corso, il nostro autore torna alla politica concreta e alla sua saldatura con la storia, per affermare che l’attribuzione della qualifica di utopista all’artefice della grande rivoluzione bolscevica è il risvolto di un genere diffuso di ignoranza oggettiva e di pessima coscienza, in quanto: L’utopia consiste infatti nel non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti.[10]
Non trascorrerà molto tempo, ed ecco nel maggio del 1919 un articolo di Gramsci redatto nel suo linguaggio polemico, racchiuso già nel titolo, molto essenziale, in contrasto con la parte migliore della cultura liberale italiana: Einaudi o dell’utopia liberale. L’esteso contenuto dell’articolo è un vero attacco a quel genere di materialismo praticato dalla borghesia liberale, quando alla vita degli individui essa sostituisce la priorità delle merci e degli scambi funzionali all’accumulazione. Lo scontro è legato alla posizione di Einaudi, fieramente in contrasto con il pensiero di Marx, ma argomentata prevalentemente sul piano di un’economia ristretta, senza neanche tentare una verifica della portata umanistica del pensiero del filosofo di Treviri. Alla fine, pur correndo il rischio di fornire del progetto socialista un profilo di pura utopia, ovvero di un modello di società futura, Gramsci conclude che, all’indomani della fine della guerra, l’ideale è il comunismo, instaurato attraverso lo Stato dei Consigli operai e contadini, che è l’umanesimo integrale, come lo concepì Carlo Marx, che trionfa di tutti gli schemi astratti e giacobini dell’utopia liberale.[11] E con una così netta rivendicazione di autonomia di giudizio e iniziativa politica, sostanzialmente si chiude un’intera fase dell’esperienza gramsciana, nella quale il nesso fra politica e cultura ha assicurato una vitalità inedita nel pensiero socialista italiano. Gli anni successivi saranno pregni di battaglia diretta fuori e dentro il partito, di contrapposizione al fascismo montante, e di sconfitta. A questo livello dello scontro, quando l’immediatezza della politica manovrata prevarrà su tutto, dobbiamo spostare la nostra attenzione all’utopia sulle pagine dei Quaderni.
L’utopia nei Quaderni del carcere. Alcune osservazioni
Pure nelle serrate pagine dei Quaderni, l’utopia si affaccia in un sistema di sfumature e di variazioni, anche troppo ricco di riferimenti culturali per essere compiutamente ripreso nei termini di un contributo sintetico. Tanta diversità di accenti, sul tema proposto, non dipende da incertezze o da forme di distrazione, elementi estranei alle scritture di Gramsci, ma è legata al carattere politico del pensiero del Sardo, attivo anche nella condizione del carcere e sempre attento alle differenze più sottili delle parole, o al loro impiego più corretto o semplicemente consuetudinario. Comunque, nelle note carcerarie esiste sempre un rapporto strettissimo fra trasformazione storica e definizione di nuovi equilibri politici, e un tale impianto – necessariamente molto dinamico – spesso provoca qualche scarto di significati o di termini lessicali.
Nei Quaderni, dunque, non mancano i riferimenti ai classici dell’utopia, a cominciare da Platone, considerato nella sua qualità specifica di “intellettuale”, nel senso autentico dell’Ateniese, di filosofo destinato a dirigere la Repubblica. Ma per Gramsci Platone, se è il primo autore della storia che pone il nesso stretto fra filosofia e politica, è anche un precorritore ideale del feudalesimo, ovvero, di un’esperienza di pensiero interna alla funzione di guida dei ministri della religione, e dunque analoga alla potenza ordinatrice della fede in generale: Si potrebbe perciò forse sostenere – leggiamo in un passo – che l’ ‘utopia’ di Platone precorre il feudalismo medioevale, con la funzione che in esso è propria della Chiesa e degli ecclesiastici, categoria intellettuale di quella fase dello sviluppo storico-sociale.[12]
L’universalismo affidato al compito di governo dei filosofi, passaggio centrale dell’opera più conosciuta del grande maestro dell’antica Atene, ora viene visto come il primo tentativo di costruzione di un sistema di princìpi destinati all’ordine civile, e poi ripreso dagli intellettuali medioevali, con la loro sintesi fra cultura religiosa e costruzione di un nuovo codice di regole – «educazione», scrive il Sardo – all’indomani della dissoluzione dell’impero romano. E in questa sovrapposizione dell’esercizio della filosofia alla funzione delle fede, tipica dell’età di mezzo, si concentra lo scorrimento nel tempo di un modello utopico, dotato di una capacità di «egemonia», dalla «polis» antica, fino all’equazione fra intelletto e governo. Più articolata è invece la ricorrenza del termine “utopia” – più di 50 volte – quando, dopo l’esempio del “divino” maestro greco, lascia spazio ad altri itinerari semantici.
Un nuovo significato corrisponde alla rappresentazione di falsi valori, o di mondi ideali inesistenti, o da riconsiderare integralmente; è il caso del rapporto fra necessità e libertà nella filosofia della prassi, impossibile fuori da una concezione materialistica della società e della storia. Scrive Gramsci, richiamandosi alla tradizione italiana del marxismo teorico: Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche […] significa che essa pure è legata alla ‘necessità’ e non alla ‘libertà’ che non esiste e non può ancora esistere storicamente. […] se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà […] anche la filosofia della prassi: nel regno della ‘libertà’ il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta. Attualmente il filosofo (della prassi) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare […] un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia.[13]
L’inattualità della libertà, e quindi la sua sostanziale estraneità alla filosofia della prassi, corrisponde all’impossibilità di un mondo senza conflitti, quello sì veramente “libero”. Tuttavia, anche uno schema utopistico rientra dentro una filosofia, e in questa veste continua a far parte degli strumenti sovrastrutturali, destinati a tentare un disegno di cultura egemonica. Si apre così un gioco mentale doppio, per il quale l’utopia corrisponde all’inesistenza o all’impossibilità; ma anche il mondo del cosiddetto “non essere” può svolgere un compito formativo, se espresso in formula filosofica, e la filosofia è sempre lo specchio di una politica. Rinasce dunque il ruolo positivo dell’utopia, anche fuori dalla mera deontologia, Ciò non significa – prosegue la pagina – che l’utopia non possa avere un valore filosofico, poiché essa ha un valore politico, e ogni politica implicitamente è una filosofia sia pure sconnessa e in abbozzo. In questo senso la religione è la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca ‘metafisica’, apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni.[14] Questa critica laica in realtà non colpisce la fede in quanto valore intimo, ma riguarda la religione, nel suo significato originario di legamento, atto a recuperare, nel principio di eguaglianza degli uomini di fronte al divino, la carica di ordinamento espressa da un’apparente astrazione, così metafisica nel suo impianto logico, da essere mero pensiero utopico, ma non per questo privo di effetti. Il rapporto fra utilità ordinamentale e astrazione fideistica restituisce senso all’utopia, e chiarisce meglio quel patrimonio medievale, prima richiamato, del sacro che regolamenta le relazioni mondane.
Più denso diviene il termine “utopia” – per menzionare solo alcuni passaggi più significativi – quando Gramsci respinge duramente l’immagine corrente e propagandistica dello Stato etico, non ricondotto a Hegel né esplicitamente ad altri, ma al paradigma quasi propagandistico di una qualità della vita societaria senza frizioni interne, e addirittura spontanea. Per il Sardo un simile schema non corrisponde a nessun modello storico reale, e soprattutto riposa su un impianto scientifico tanto utopico, quanto mistificatore delle lotte reali e del sistema di conflitti che accompagnano necessariamente il divenire e la natura vincolante della forma-Stato. La rivelazione dell’urto all’interno dei rapporti sociali, indipendentemente dal modo in cui esso si riveli nell’universo della politica, è frutto di impegno teorico, o di scienza, che però, può ricadere in una sfera utopica, se separata dalle lotte concrete della storia e dalle differenze sociali di classe. Qui l’utopia diventa la società senza comando e senza egemonie; scrive il nostro autore:
Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che quest’ ‘immagine’ di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). Occorre ricordare che l’espressione “guardiano notturno” per lo Stato liberale, è di Lassalle, cioè di uno statalista dommatico e non dialettico.[15]
Va notata la caratterizzazione della coercizione, cioè di una costruzione esterna alla coscienza, e quindi destinata a rivelarsi un’esperienza di forza pura e senza mediazioni, anche quando l’imposizione avviene con strumenti sovrastrutturali, e non di semplice dominio materiale. In questo senso, lo Stato etico basato su una definizione di provenienza scientifica (cosiddetta “scienza politica”) è pari all’utopia, è un immaginario intellettuale. Si rende più visibile, mano a mano che si entra nel cuore della riflessione gramsciana, una sorta di inclinazione negativa del significato di utopia, vicina più alla vanità di un’elaborazione senza fondamento, che a una tradizione di cultura dell’alternativa, espressa con il linguaggio della esemplificazione morale, o anche con quello della opzione deontologica.
Gramsci tuttavia, – e ora interviene un’altra accezione del nostro tema – conosce quella sorta di genere di scrittura, che egli stesso definisce, nel titolo di un suo paragrafo (Q., 6, 157, 811 e ss.) Romanzi filosofici, utopie, ecc. Egli, infatti, esibisce nel paragrafo appena citato un saggio di finezza e di attenzione intellettuale a campi difficili da distinguere, e ancora più ardui da ricondurre a un sapere di senso contemporaneo e attivo, sebbene carico di motivi del passato. Già l’endiadi «Controriforma e utopie: desiderio di ricostruire la civiltà europea secondo un piano razionale»,[16] appare a Gramsci una formula non soddisfacente, rispetto a quella, da lui decisamente preferita, di utopia, in quanto altra origine e forse la più frequente: modo di esporre un pensiero eterodosso, non conformista e ciò specialmente prima della Rivoluzione francese.[17]Precedentemente alla data storica in cui la possibilità di una rivoluzione di popolo si avverasse come atto politico, e non solo come intenzione, sembra che l’utopia abbia potuto occupare lo spazio della critica, e anzi della rottura di ogni confine dell’ortodossia e del conformismo. E qui la portata non semplicemente letteraria del termine su cui il Sardo si sofferma, si carica di una valenza oppositiva, di un profilo di rottura e di ragionamento culturalmente antagonistico. Non svanisce, tuttavia, l’equazione utopia/inesistenza, quando subito dopo egli torna su tendenze e atteggiamenti costruiti con i luoghi comuni, piuttosto che esibendo ragionamenti politici derivati da piena consapevolezza storica. Così, rientra nel campo dell’utopia – scrive ancora il nostro autore – «la moda di attribuire a popoli stranieri le istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese, o di far la critica delle supposte istituzioni di un popolo straniero per criticare quelle del proprio paese».[18] Vi è quasi un effetto ottico distorcente in questo uso della critica per metafora o per traslato, che alla fine crea un simulacro di cultura dell’alternativa, nello stile di quella inclinazione piccolo-borghese che esalta modelli istituzionali di altri Stati, o di altri universi politici, per denunciare un dissenso, un’insoddisfazione, e insomma un “sogno” utopico.
Un ulteriore aspetto dell’impossibile, si pone, ma a un livello decisamente più alto e più raffinato, nel richiamo alla filosofia del “buon selvaggio”, che con accenti diversi ritorna spesso anche nel Q. 22 di Americanismo e fordismo, dove il nostro autore afferma in varie modalità il senso del processo della modernità, affidato al sistema della fabbrica; rispetto alla progressiva modificazione sociale provocata dall’industrialismo, il ritorno alla natura è una delle varianti dell’utopia nella sua veste di impossibilità, o di semplice memoria culturale:
Così dalle utopie sarebbe nata – prosegue il paragrafo – anche la moda di esaltare i popoli primitivi, selvaggi (il buon selvaggio) presunti essere più vicini alla natura. (Ciò si ripeterebbe nell’esaltazione del ‘contadino’, idealizzato, da parte dei movimenti populisti). Tutta questa letteratura ha avuto non piccola importanza nella storia della diffusione delle opinioni politico-sociali fra determinate masse e quindi nella storia della cultura.[19]
Come si può facilmente osservare, in Gramsci non manca mai lo sfondo delle mutazioni culturali, inquadrate come anima essenziale delle trasformazioni nella storia, comunque riducibili al linguaggio ideale anche se istintivo e non meditato.
Machiavelli approdo e estinzione dell’utopia politica
I Quaderni propongono altri significati e altri aspetti del concetto di utopia, che meriterebbero attenzione, anche nella loro portata polemica verso le incoerenze culturali e politiche di alcuni intellettuali di formazione sia liberale, sia socialista. A riguardo il discorso diventerebbe assai esteso, finendo fuori dalle intenzioni e dai limiti materiali imposti al presente contributo. Più interessante, per concludere la rapida ricognizione sull’utopia in Gramsci, potrebbe essere l’osservazione delle celebri «noterelle» su Machiavelli, sezione di grande rilievo all’interno del multiforme materiale di studio trattenuto nelle carte del carcere. È un tema notoriamente approfondito dagli studi gramsciani, ripreso fin dai lontani anni ’50 del secolo scorso, quando vennero alla luce i volumi a cura di Felice Platone,[20] divisi secondo i temi fondamentali delle scritture negli anni di reclusione, e non secondo la successione reale di quelle pagine, che Gerratana curò circa venti anni più tardi. Qui la questione viene richiamata solo in ordine all’utopia, aspetto tutt’altro che secondario, a proposito del Fiorentino, assunto da Gramsci come un punto di arrivo fondamentale del tempo della politica e delle letterature sullo Stato. Innanzitutto colpisce, nel Q. 13, la curiosa definizione del Principe, l’opera sulla quale maggiormente si è soffermato il nostro autore misurandosi con Machiavelli; la celeberrima scrittura viene sottratta alla sua natura materiale di libro cartaceo, o di saggio steso nel suo tempo, per essere consegnata al valore di fattore attivo, forza intrinseca alla formazione di rapporti politici in movimento, e quasi mente pensante nel vivo di una fase corrispondente a un disegno del Segretario, o a una sua immaginazione attenta a un tornante decisivo nella costruzione dello Stato moderno. In questo senso, Gramsci pone quella sua affermazione, assai nota, che è anche una spiegazione:
Il carattere fondamentale del Principe – egli dice – è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro ‘vivente’, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del ‘mito’.[21]
La questione del mito riporta al Sorel, come da tempo è stato rilevato, figura qui esterna alle ragioni del discorso sull’utopia, anche perché il Sardo è molto limpido quando classifica il “progetto” soreliano dello sciopero generale come mera «attività passiva»,[22] inefficace, dunque, ai fini di quella creazione di volontà attiva che costituisce l’anima dell’intera esperienza politica e di pensiero di Gramsci. Interessa maggiormente, invece, nella citazione ora riportata, la presenza di un doppio parallelo di termini, molto rapido e tuttavia denso di significato. Da una parte, infatti, si pone il rapporto “trattazione/sistema”, dunque un atto della logica; dall’altra parte interviene il rapporto libro/vita”, cioè una coppia di concetti destinati all’iniziativa politica, alla fuoriuscita dal solo pensiero, per fare spazio a una sintesi fra ideologia e scienza, ovvero fra una visione del mondo e la relativa forma di sapere, forma di scienza. La mediazione fra mondo e sapere è proprio la politica, che si concretizza contemporaneamente in quanto mandato denso di valore fondante («mito»), e come attuazione dinamica attraverso il contrasto e il conflitto (dramma-forma drammatica). In questo complesso di significati e di scopi compresi nel Principe machiavelliano, vi è anche un limite storico di portata epocale:
Tra l’utopia e il trattato scolastico, – scrive ancora Gramsci – le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e ‘antropomorficamente’ il simbolo della ‘volontà collettiva’.[23]
Proprio lo scopo del movimento di una volontà collettiva è stato l’ideale anche degli scritti giovanili di Gramsci, qui ritrovato attraverso un itinerario teoricamente più impegnativo, ma in termini diversi dagli anni della guerra, e sempre alla ricerca del superamento della tentazione di risolvere la coppia conflitto/trasformazione o nella astratta trattazione dottrinaria, o nell’affascinate fantasia di utopia. Il problema per Gramsci è venire fuori dallo studio vincolato a una qualsiasi ortodossia («scolastico», e gli dice), o dalla fuga nel disegno utopico, e il Segretario fiorentino ora si propone tanto carico di una valenza eroica – un condottiero – quanto punto di approdo e di conclusione, ma senza ritorno, dell’utopia. Certo, Gramsci avverte la necessità di evitare il rischio di un’implicita ripresa della tradizione utopistica, sempre capace di incorporare il profilo del principe, ancora privo di un paradigma storico perfezionato, e non del tutto liberato dalla possibilità di ridursi all’immaginazione, sia pure artistica. La questione aperta è ancora la necessità di evitare che la valorizzazione di Machiavelli si riduca al “salto” dalle righe di una scrittura, alla realtà concreta, e dunque evitare proprio il passaggio dal desiderio, o dalla solitaria volontà, all’attività politica reale. Questa possibile contraddizione è il confine su cui Gramsci indugia, seguendo un originale momento di auto-obiezione, quando afferma:
Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il ‘principe’ non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, ‘realmente esistente’».[24]
La ricerca quasi ansiosa della figura del condottiero in grado di fondare il nuovo Stato è un elemento rivelatore della consapevolezza di Gramsci della possibilità che ogni costruzione ideale ricada nella mentalità utopistica, nella formulazione della mente, più sperata che attuata; ma la spinta fuori dall’utopia è data dal tono programmatico del ragionamento gramsciano, che pone nell’apparire del principe non un ruolo perfetto già in quanto pensato, ma il perno di un lavoro concreto, di un “progetto” di lavoro politico, di attività, perfettamente deducibile dal libro del Fiorentino: «Nell’intero volumetto – conclude Gramsci, prima di passare ad altro tema, pur connesso alle sue riflessioni – Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico […]».[25] E “rigore” e “scienza”, sono il tramonto dell’utopia, sebbene l’argomento conservi ovviamente la sua piena legittimità culturale negli anni successivi e fino ad oggi.
Più avanti, nelle stesse pagine, il Sardo introduce il concetto di “intellettuale collettivo”, che attiene ad altro tempo della politica e ad altro protagonismo storico; lo spazio dell’utopia e il suo superamento, almeno difronte al peso del Segretario, si conclude senza ulteriori ritorni, che non siano ristesure di paragrafi dei Quaderni già redatti.
[1] Rinvio, a questo proposito, alla lucida stesura della voce Uomo del Rinascimento di L. Mitarotondo, in G. Liguori e P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano. 1926-1937, Carocci, Roma, 2009, p. 880. Questo volume si riferisce solo ai Quaderni, ma la voce qui richiamata esprime bene una mentalità più generale di Gramsci.
[2] A. Gramsci, La città futura, Einaudi, Torino, 1982, p. 3.
[3] Ibid., p. 42.
[4] Ibid., pp. 27-28.
[5] L’articolo è abbastanza conosciuto fra gli specialisti di Gramsci, ma qui conviene rammentare la sua uscita, nel «Grido del popolo», il 27 luglio del 1918, totalmente martirizzato dalla censura torinese, e perciò riproposto nell’«Avanti», poco ritoccato dalle censure di Roma e di Milano. In questa seconda veste è giunto a noi.
[6] A. Gramsci, Utopia, in Scritti politici giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino, 1958, p. 280. Le virgolette caporali utilizzate da Gramsci nelle sue pagine, qui saranno trasposte nei semplici apici, per evitare confusione con i caporali di apertura e chiusura delle citazioni. Lo stesso criterio grafico resterà nelle citazioni dei Quaderni.
[7] Ibid., pp. 280-81.
[8] Rinvio, a questo proposito, all’articolo Utopia, in A. Gramsci, Scrieri, a cura di G. Liguori e S. Drăgulin, Editura Adenium, Iași, 2015, pp. 108-15.
[9] Ibid., p. 283.
[10] Ibid., p. 284.
[11] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), Einaudi, Torino, 1955, p. 235. L’articolo in variante completa può essere letto in A. Gramsci, Scrieri, cit., pp. 124-27.
[12] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana (nelle note, da ora in poi, Q.), 8, 12, 954.
[13] Q., 11, 62, 1488.
[14] Ibidem.
[15] Q., 6, 88, 764. Ferdinand Lassalle (1825-1864) è il noto autore che oppone alla teoria della rivoluzione di Marx la funzione positiva dello Stato, dopo la sua conquista attraverso il suffragio universale maschile. Grazie alla scontata vittoria dei socialisti, potrebbe così cominciare una politica a vantaggio delle forze del lavoro. L’ingenuità intellettuale di una simile posizione, non poteva certo trovare l’approvazione di un pensatore critico come Gramsci.
[16] Q., 6, 157, 811.
[17] Ibidem.
[18] Q., 6, 157, 812.
[19] Ibidem.
[20] A riguardo, si veda A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, Torino, 1955, senza indicazione del nome del curatore.
[21] Q., 13, 1, 1555.
[22] Ibid., p. 1556.
[23] Ibid., p. 1555.
[24] Ibid., p. 1556.
[25] Ibidem.
Bibliografia
GRAMSCI A., Scrieri, a cura di G. Liguori e S. Drăgulin, Editura Adenium, Iași, 2015.
IDEM, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, Einaudi, Torino, 1955.
IDEM, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, Torino, 1955.
IDEM, Scritti politici giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino, 1958.
IDEM, Sotto la Mole, Einaudi, Torino, 1960.
IDEM, Quaderni del carcere, voll. I-IV, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975.
IDEM, La città futura, 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1982.
LIGUORI G., VOZA P. (a cura di), Dizionario Gramsciano. 1926-1937, Carocci, Roma, 2009.
REALE G. (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Rusconi, Milano, 1991.