Coordinated by Laura MITAROTONDO & Teodora PRELIPCEAN
Volume V, Issue 2 (16), New Series 2017
EDITORIAL
L’idea del nuovo ordine e il valore critico del progetto utopistico
(The new order idea and the critical value of the utopistic project)
Laura MITAROTONDO
Abstract: The great fortune of political utopia genre and the renewed attention to its multiple expressions demand a new moment of reflection. Though in the historical evolution of the different linguistic codes and the model’s theoretical structures, utopia still holds an extraordinary potential. Behind the ideal of a political and social organization subverting the present and projecting out over the future acts, in fact, an extraordinary creative and critical push, whose value needs to be revitalized. It is about the motivation to think “otherwise”, to imagine difference as an act indispensable to produce whatever political change.
Keywords: Utopia, Reality, Imagination, Criticism, Renovation.
Il rinnovato interesse per l’utopia, a distanza di circa Cinquecento anni dalla pubblicazione dell’opera di Thomas More (De optimo reipublicae statu sive de nova insula Utopia, 1516), archetipo moderno del genere, testimonia la vitalità di un modello della tradizione del pensiero politico che ha superato il tempo, divenendo un paradigma universale.
Ideale di società o comunità perfetta, spesso fuori dalla storia, collocata in un luogo inesistente, l’utopia politica rappresenta una coraggiosa proposta di perseguimento della felicità del genere umano fondata su un modello di giustizia, pace, tolleranza, armonia, apparentemente inafferrabile. Ancor più, la letteratura sull’utopia incarna una forma della criticità dell’ordine costituito che pone l’alternativa in un “altrove”, metafora di un luogo possibile, non necessariamente di un non-luogo. Il dato permanente in qualsiasi approccio all’utopia consiste, infatti, nel riconoscimento del suo straordinario spessore storico-critico, che costituisce l’elemento realmente costruttivo e produttivo di qualsiasi sistema utopistico.
Se la tradizione classica, soprattutto attraverso Platone, coltiva nell’utopia cittadina repubblicana il disegno di una società “giusta”, ordinata grazie al supporto dell’etica e alla separazione delle condizioni societarie ideali, è nella modernità che prende forma la definizione più pregnante del modello utopistico, in uno stretto legame fra l’artificio della letteratura immaginaria e l’intenzione politica. Si tratta di un ideale che sin dalla sua genesi, e poi nella sua evoluzione, rivela il timbro dell’eredità umanistica, delle culture naturalistiche del Rinascimento, di una rinnovata pedagogia della vita civile, di una filosofia dell’uomo e della possibilità che egli sia artefice razionale della costruzione degli spazi della societas. In questo senso, non è casuale che, a partire da Erasmo da Rotterdam, e poi da Thomas More, l’utopia si proponga come una scrittura organica, densa di motivazioni culturali e critiche, se non altro nell’idea della costruzione di un’alternativa, che matura all’insegna della fiducia nell’uomo e del superamento di una forma specifica dell’ordine politico, e di una struttura sociale, apparentemente ineluttabili.
È un tema che interviene in chiave di elaborazione di un modello differente di organizzazione dei primi assetti societari complessi e istituzionalmente definiti – si pensi all’Inghilterra di Enrico VIII di cui scrive More – fino a suggerire una sorta di riproposizione della filosofia della libertà, di contro alle mille forme della necessità ordinamentale imposte nella prima modernità. L’utopia costituisce, pertanto, uno strumento di ripensamento della politica statuale moderna sul fronte dell’urgente contenimento dei conflitti, che mette in discussione i modelli incentrati su una sovranità vincolante, fondata teologicamente, o su una politica di “ragione degli Stati”, legittimata dalla guerra e dalla religione. Il paradigma utopistico, fin dalla codificazione dell’isola felice, rappresenta una creazione speculativa che tiene insieme un suo disegno immaginario e una sua proposta positiva, in un genere di pensiero critico mirato a costituire la cultura umana e civile del poter essere diversamente rispetto alla negatività del reale. Il rinnovamento, insito nel racconto utopistico, e specie nelle utopie sociali, non riguarda mai esclusivamente l’individuo, ma investe la comunità e implica il superamento di una visione egoistica dell’uomo che realizza pienamente se stesso nella relazione con gli altri, e in una società che intende sovvertire la logica del dominio dell’uomo sull’uomo.
Il volume che segue offre, grazie ad una prospettiva scientifica plurale, una visione in cui politica e utopia si intrecciano in modo dialettico e toccano una lunga serie di autori e di esperienze letterarie dai quali emerge il complesso rapporto fra ordine e libertà. Attraverso gli articoli e i contenuti qui proposti – che non approfondiscono il pur denso dibattito sulle teorie dell’utopia – si potrà riconoscere la presenza, in forme e linguaggi diversi nella storia, del concetto di un altrove, sempre legato all’intenzione di produrre una teoria della trasformazione. In questo senso, ci piace riprendere un assunto importante del pensiero di Luigi Firpo, grande studioso del genere utopistico, che invitava a non confondere l’utopismo con l’illusione, per sottolineare l’estremo realismo dell’utopista, non un “sognatore” ma un “riformatore”, consapevole del carattere estremamente innovativo del suo pensiero, intraducibile nell’immediata concretezza, e che ricorre ad un canale comunicativo inconsueto, talvolta accessibile solo a pochi. (L. Firpo, Appunti sui caratteri dell’utopismo, in N. Matteucci (a cura di), L’utopia e le sue forme, il Mulino, Bologna, 1982, pp. 12-13).
Nel primo contributo di P. Butti de Lima, fondamentale sotto il profilo metodologico per intendere la genesi filosofica del concetto di utopia, vengono definiti i parametri che consentono di rappresentare una genealogia del potere utopico. Nel Platone della Repubblica, in particolare, viene riconosciuto il primo autore, poi assunto nell’orizzonte culturale del pensiero moderno, in cui si coglie lo scarto fra la costruzione teorico-politica della città e la sua realizzazione. Ma soprattutto, attraverso Platone è possibile risalire alla natura specifica di un ragionamento sulla politica che ha per oggetto la polis e l’ideale della vita politica fondata sulla giustizia, come espressione dell’agire filosofico. Il discorso moderno sull’utopia si apre, invece, all’insegna di un pensatore convenzionalmente giudicato uno dei padri del realismo politico, e non dell’utopismo. Il saggio di W. Connell, infatti, qui riproposto in una traduzione italiana, punta a ricostruire con grande acume filologico un contesto culturale in pieno fermento del quale è partecipe anche Niccolò Machiavelli. La curiosità scientifica di Connell è sollecitata da una singolare edizione dell’Utopia di Thomas More, pubblicata a Firenze nel 1519 dall’editore Giunti. Intorno a questo volume, e ai numerosi protagonisti di un clima di intenso scambio culturale – sui temi di governo, politica, potere – fra i quali figurano anche More, Erasmo e alcuni esponenti degli Orti Oricellari fiorentini, si dipana una storia di sapore umanistico nella quale è pienamente coinvolto lo stesso Segretario fiorentino, erroneamente considerato un autore isolato. Connell profila addirittura la possibilità che Thomas More conoscesse bene Il Principe di Machiavelli e che la sua Utopia, in alcuni punti, rappresentasse una risposta polemica proprio al più celebre trattato politico del Rinascimento italiano.
Nel suo lavoro, F. Alicino, invece, torna su alcuni grandi classici del pensiero utopistico di età moderna, esaminando il rapporto fra utopia e religione, come riflesso della tensione fra ideale e reale. Egli ripercorre una storia fatta di molteplici protagonisti, da Thomas More a John Locke, da Tommaso Campanella a Jean-Jacques Rousseau, per sottolineare come l’elemento religioso della trascendenza sia legato alla progettualità del disegno utopistico. La ragione e la scienza, infatti, non sono sempre sufficienti a dare solido fondamento a un nuovo sistema di idee che migliorino società e istituzioni; l’utopia invece ha la possibilità di far rivivere il modello religioso della redenzione dell’uomo attraverso l’ideale dell’umanità unita e quello della perfezione originaria. L’autore rileva, addirittura, la singolare importanza che il termine utopia, nella sua potenza semantica, ha acquisito di recente nell’immaginario collettivo del mondo arabo a supporto della religione islamica, e della visione idealizzata di una società che respinge l’attualità fondata sulla povertà, lo sfruttamento, l’instabilità politica ed economica. Le forme e la storia dell’utopia in età moderna tornano nelle pagine del saggio di F. Vitali che, mediante la figura dello storico e letterato fiorentino Pierfrancesco Giambullari, e della sua incompiuta Historia dell’Europa (1545), ripropone il mito medievale della monarchia universale come strumento politico, vagheggiando una soluzione imperiale che potesse garantire stabilità anche alla provincia italiana profondamente divisa. Sostenitore del modello di Carlo V, Giambullari dovrà ripensare in termini utopistici la sua visione politica di un ordine fondato su un potere forte di ascendenza divina a causa della crisi del partito filoimperiale, e all’indomani dell’alleanza del Duca Cosimo de’ Medici con il nuovo papa Giulio III. Nel cuore della modernità politica, e nel pieno della guerra dei Trent’anni, si inserisce anche uno degli archetipi del genere utopistico, quello pacifista, descritto nel filtro dell’esperienza del monaco francese Émeric Crucé, pioniere del modello dell’arbitrato internazionale. L’articolo di F. Russo sottolinea il rilievo straordinario dell’opera Le Nouveau Cynée (1623) di Crucé nel contesto della letteratura politica che si misura con l’altissimo progetto della pacificazione internazionale, già in un’ottica cosmopolitica. Il monaco francese profila un nuovo sistema di relazioni internazionali e un disciplinamento delle controversie fra gli Stati tramite il ricorso ad una soluzione di grandiosa modernità, consistente nella definizione di uno schema di arbitrato internazionale permanente con sede a Venezia. Ad un ideale politico cosmopolita ci riporta anche il lavoro di F. Silvestrini che ripercorre alcuni passaggi fondamentali del pensiero politico di Immanuel Kant per valorizzare una proposta alternativa alle teorie realiste sullo Stato, all’empirismo storico-politico, e al modello del sistema politico internazionale sul finire del XVIII secolo. Secondo Silvestrini, alla base del modello della “vera politica” kantiana, e della sua idea di costituzione repubblicana, non ci sarebbe un progetto chimerico, ma l’assoluta centralità del valore della vita morale e la conseguente fiducia in una storia progressiva del genere umano, in un inesorabile miglioramento della società civile. Nella tradizione culturale dell’utopia socialista delle origini si inscrive, invece, l’esperienza del polacco Ludwik Królikowski, la cui vicenda, viene valorizzata con attenzione nel saggio di D. Stasi. In queste pagine, emerge la rilevanza del socialismo come strumento di ordinamento politico radicato in un’esperienza di liberazione ed emancipazione nazionale, nel corso del processo di consolidamento dell’identità sovrana della Polonia all’inizio del XIX secolo. Królikowski propone, inoltre, il modello di una comunità ispirata a valori della cristianità, e in cui il messaggio di liberazione, che viene dal perseguimento di un’utopia religioso-cristiana, si sposa all’urgenza del superamento della disuguaglianza sociale. L’autore, infatti, fa propria una prospettiva, fondata sulle istanze egualitarie del pensiero socialista, in cui la battaglia etica fra bene e male si concretizza in una visione politica dello scontro fra classi.
Sul fronte dell’eredità delle culture politiche liberali, invece, l’articolo di T. Prelipcean ripropone la centralità del concetto di tolleranza, come parola cardine del lessico liberale. Se l’idea della tolleranza, vincolata alla nozione del consenso universale e alla scelta razionale appare un’idea utopistica, il saggio si propone di verificare come questa potenziale utopia non sia irrealizzabile. Essa, infatti, è già a fondamento del sistema delle libertà civili dell’etica liberale e rappresenta un linguaggio universale necessario anche per governare la diversità, sia in campo politico, sia in campo religioso. Quattro sono poi i saggi che toccano il motivo dell’utopia nello scenario storico-politico novecentesco. S. Suppa presenta una dettagliata interpretazione della ricorrenza del termine utopia nel lessico gramsciano, dagli anni giovanili alla fase della reclusione carceraria dei Quaderni. Attraverso questo minuzioso lavoro si afferma una duplice accezione del concetto di utopia, sospesa fra la critica borghese ai socialisti, considerati utopistici per l’impossibilità del loro disegno politico, e la più concreta costruzione di una coscienza del cambiamento, da realizzare anche sul piano teorico. Fra questi due aspetti, Gramsci si muove anche in modo discontinuo, ma sempre spinto dalla consapevolezza della forza rivoluzionaria dell’utopia. Sempre a ridosso del Ventennio fascista, ma più distesa nel tempo, appare la riflessione del socialista liberale Tommaso Fiore esaminata da D.M. Pegorari. La figura intellettuale e civile di Fiore, qui ripercorsa nella sua ricchezza e complessità, viene associata a quella dei teorici dell’“utopia reale”. Se l’utopia rappresenta una costante nell’esperienza del professore pugliese, fin dalla sua partecipazione alla prima guerra mondiale, è solo in una fase più tarda che egli ne approfondisce il livello storico-teorico, attingendo ad Erasmo e More, grandi modelli del genere dell’utopia politica nel cuore della modernità. La fase forse più importante del rapporto con l’utopia interviene, tuttavia, nelle considerazioni di Fiore sul socialismo sovietico, sull’esperienza concreta e possibile del Paese di Utopia. Sul versante più schiettamente metodologico si colloca, invece, il contributo di L. Mitarotondo, incentrato sulla riflessione dello storico delle dottrine politiche Rodolfo De Mattei intorno al nodo teorico dell’utopia. L’articolo mette a fuoco alcuni studi del professore siciliano sulla letteratura politica utopistica del Seicento, ripercorsa criticamente attraverso Tommaso Campanella, Ludovico Zuccolo, James Harrington. L’analisi evidenzia una sostanziale affinità fra l’interpretazione di questa tradizione di pensiero e la posizione di metodo espressa da De Mattei nel corso degli anni Trenta del Novecento. Si tratta di una visione che respinge le distinzioni scolastiche fra realismo e utopismo, poco adatte a racchiudere la varietà di una cultura politica composita, e privilegia, invece, l’idea dell’utopia come esperienza del rinnovamento dal sapore necessariamente etico. Emerge qui un approccio alla politica, che appartenne a De Mattei, sempre mediato da elementi culturali e filtrato da un tensione etico-umanistica. La sezione dei contributi teorico-politici del volume si chiude con il saggio di A.R. Gabellone che si muove su un versante pragmatico e concreto per valorizzare l’esperienza legata al progetto pacifista dell’attivista politica Sylvia Pankhurst nel continente africano, fra il 1924 e il 1952. Viene qui sottolineata l’intensa iniziativa della scrittrice e giornalista britannica, fondatrice del Movimento per la pace e la speranza del popolo, impegnata nella liberazione dell’Etiopia e dell’Eritrea. L’attività della Pankhurst avrebbe favorito un percorso di emancipazione e indipendenza dei due paesi africani dalla politica totalitaria fascista e, in seguito, dalla condotta reazionaria del Governo Britannico e da quella della Società delle Nazioni.
Volendo trarre una conclusione che ci riporti al presente, a seguito di questo fitto percorso intorno all’idea e alle forme dell’utopia, dal pensiero politico classico al XXI secolo, non si può trascurare l’estrema attualità della narrazione utopistica. Se si riferisce la sua essenza al tempo della globalizzazione – condizionato dal rischio di un progressivo affievolimento democratico –, essa costituisce ancora un motivo di ricerca dello spazio, logico e critico, dell’alternativa, che impone di ripensare le forme della convivenza e sollecita una rifondazione della politica e una rilegittimazione del potere. Non è un caso che si torni con tanta frequenza, oggi, a discutere di utopie; la realtà distopica delle relazioni globali – economiche, politiche, sociali, umane – lungi dal fondare un nuovo cosmopolitismo, una nuova cultura di diritti e valori universali, ha alimentato uno spietato culto dell’individuo, isolato, atomizzato. L’utopia, di contro, anche quando non sembra superare l’ideale dell’evasione, non rappresenta l’antitesi della realtà, o l’espressione della fuga, ma un termine che si misura con la storia per costruire la differenza, a partire dalla sua immaginazione, momento primordiale e creativo di ogni nuovo inizio.